sabato 7 ottobre 2023

Zominthos - GRECIA

Zominthos (greco Ζώμινθος), o detto altrimenti Ζόμινθος o Ζόμιθος, è un piccolo altopiano tra le colline settentrionali del Monte Ida (Psiloritis), nell'isola di Creta. Zominthos si trova approssimativamente a circa 7.5 chilometri a ovest del villaggio di Anogia, sul sentiero che va da Cnosso a Idaion Andron, la grande caverna del santuario vicino alla vetta del Monte Ida. Zominthos è ben conosciuta per il grande edificio minoico ivi scoperto; segni di insediamento permanente risalgono al 1800 a.C. ca. Nel 1982, l'archeologo greco Yannis Sakellarakis scopre, a un'altitudine poco inferiore ai 1200 m, un grande edificio minoico a due piani. La sua insolita dimensione e l'accurata costruzione, che incorpora alcune caratteristiche pertinenti soltanto all'architettura palaziale, ha attratto l'interesse degli archeologi. Il significato della scoperta viene enfatizzato anche ulteriormente dal fatto che esso giace considerevolmente al di sopra del limite altimetrico degli insediamenti sia minoici che cretesi moderni. Gli scavi hanno portato alla luce soltanto una piccola parte dell'edificio e sono ancora in corso. Tuttavia, essi hanno messo in chiaro che la struttura è stata costruita in modo robusto ed è insolitamente ben conservata, con alcuni resti murari alti fino a 3 metri. L'edificio possiede una rigida orientazione nord-sud e si estende per almeno 1350 m², con 40 stanze. soltanto al pianterreno, alcune delle quali affrescate. Unica nella Creta minoica è la scoperta di una grande officina per la fabbricazione della ceramica . Ugualmente importanti sono i reperti portati alla luce costituiti da cristallo di rocca trattato.
L'edificio appartiene al periodo neopalaziale ed è stato abbandonato dopo un grande terremoto intorno al 1600 a.C. La ricerca archeologica è stata condotta sotto la direzione del Prof. Yannis Sakellarakis con la breve collaborazione (2005-2007) dell'Università di Heidelberg (Prof Diamantis Panagiotopoulos). Dopo la morte di Yannis Sakellarakis nel 2010 lo scavo continua sotto la direzione del Dr. Efi Sapouna - Sakellaraki.


Aventicum - SVIZZERA

 


Aventicum, situata nell'altipiano svizzero, fu la città antica che in età romana fu capitale dell'Elvezia, oltre che suo centro politico, religioso ed economico.
La città antica sorgeva in corrispondenza dell'attuale Avenches, a sud del lago di Morat, nella pianura della Broye a un'altitudine di circa 445 m. Si trovava in un sito strategico posto sulla strada che collegava le rive del lago Lemano alle città romane di Vindonissa e Augusta Raurica; parimenti era collegata per via fluviale, tramite un canale, al lago di Morat.
Dal I al III secolo d.C. fu la più grande città sul territorio elvetico, giungendo a contare oltre 20 000 abitanti. I numerosi reperti rinvenuti nel corso delle varie campagne di scavi archeologici sono esposti presso il Musée romain d'Avenches, collocato nella torre dell'anfiteatro romano. Tra i reperti si segnalano un organo idraulico antico pressoché completo e soprattutto il celebre busto di Marco Aurelio, realizzato attorno al 180 d.C., scoperto nel 1939 all'interno della rete fognaria di un tempio.
La città fu un importante nodo stradale dell'epoca, in una regione molto colonizzata. Il grande asse stradale svizzero passava per Avenches, Morat, Chiètres e Kallnach e si dirigeva verso Soletta e Windisch, estendendosi lungo il margine orientale del Seeland. Una seconda strada romana attraversava il Seeland verso Witzwil, tra i laghi di Neuchâtel e di Morat. Dopo Petinesca, una biforcazione, passando per le Gole del Taubenloch, attraversava il Giura verso l'Europa settentrionale, oltre Augusta Raurica.
Dopo esser stati sconfitti a Bibracte da Giulio Cesare nel 58 a.C., gli Elvezi fecero ritorno ai loro territori di origine nell'altipiano svizzero, territori che furono annessi dai Romani nel 15 a.C.. Probabilmente Aventicum fu fondata ex nihilo al principio del I secolo d.C. come capitale del territorio degli Elvezi appena conquistato, lungo la strada costruita al tempo dell'imperatore Claudio che collegava l'Italia alla Britannia. Nel 72 d.C., sotto l'imperatore Vespasiano, che vi crebbe, la città fu elevata al rango di colonia.
Nel II e nel III secolo d.C. la città ebbe la fase di massimo splendore, fino a quando, verso il 275/277 gli Alemanni invasero il territorio, riducendo drasticamente il tenore di vita nella città, che comunque continuò a essere abitata. Le testimonianze e le vestigia della tarda antichità sono però rare.
In era cristiana Aventicum fu sede vescovile. Il più celebre dei suoi vescovi fu Mario Aventicense, le cui cronache, che ricoprono il periodo compreso tra il 455 e il 581 d.C., rappresentano una delle poche fonti relative ai Burgundi del VI secolo. Poco dopo il Concilio di Macon (585 d.C.), Mario trasferì la sede vescovile da Aventicum, che stava rapidamente declinando, a Losanna.
Il sito archeologico della città di Aventicum comprende:
  • una cinta muraria lunga 5,5 km, che racchiude una superficie di 150 ha, munita di 73 torri;
  • le terme del foro;
  • il teatro;
  • il santuario del Cigognier;
  • il tempio della Grange-des-Dîmes;
  • l'anfiteatro.
L'insieme della città è tutelato come "bene culturale svizzero d'importanza nazionale".

Apollonia - ALBANIA

 


Apollonia (in greco antico: Ἀπολλωνία κατ᾿ Ἐπίδαμνον, Apollōnía kat' Epídamnon o Ἀπολλωνία πρὸς Ἐπίδαμνον, Apollōnía pròs Epídamnon) è un sito archeologico sulla riva destra del fiume Voiussa, nei pressi del villaggio di Pojan, nell'attuale Albania.
Apollonia fu fondata nel 588 a.C. dai Taulanti, una tribù dell'Illiria e fu una base importante di commercio con i coloni Greci di Kerkyra (Corfù, odierna Grecia) e Corinto, fu probabilmente la più importante città, tra quelle conosciute con il nome di Apollonia (Απολλωνiα). Il luogo era già usato dai commercianti di Corinto e dai Taulanti, una tribù dell'Illiria, che rimase coinvolta con questo insediamento per secoli a stretto contatto con la civiltà greca. Il nome originale della città sembra che fosse Gylaceia dal suo fondatore, un certo Glyax, ma il nome fu poi modificato in onore del dio Apollo.
Aristotele considerò Apollonia come un importante esempio di oligarchia, poiché i discendenti dei coloni greci controllavano la città, e la numerosa popolazione per la maggior parte di origine Illirica.
La città divenne ricca grazie al commercio degli schiavi e sull'agricoltura, come pure il suo porto che si dice poteva contenere fino a 100 navi. Apollonia, come Dyrrachium poco più a nord, era un importante porto, il più vicino alla costa italica ed a Brundusium, peraltro punto di partenza della Via Egnatia che conduceva fino a Thessaloniki e Byzantium in Tracia. Aveva la sua propria zecca, che coniava monete trovate lontano, fino al fiume Danubio.
La città era inclusa nei domini di Pirro, re dell'Epiro. Nel 229 a.C. fu posta sotto il controllo della Repubblica romana. Fu occupata nel 168 a.C. dal re degli Illiri Genzio, sconfitto poco dopo dai Romani insieme all'alleato macedone Perseo, re di Macedonia. Nel 148 a.C. Apollonia divenne parte della provincia romana di Macedonia, più tardi incorporata nella provincia romana dell'Epiro. Durante la guerra civile tra Pompeo Magno e Cesare aiutò il secondo, ma si consegnò a Marco Giunio Bruto nel 48 a.C. Il primo imperatore romano Augusto compì alcuni studi in Apollonia nel 44 a.C. con il maestro Atenodoro di Tarso, e qui ricevette la notizia che il patrigno, Cesare, era stato assassinato. Apollonia fiorì sotto l'impero romano come ci racconta lo stesso Marco Tullio Cicerone nelle sue Filippiche, definita magna urbs et gravis, vale a dire grande ed importante città.
Il suo declino cominciò nel III secolo, quando un terremoto cambiò il corso del fiume Voiussa, causando al porto problemi di navigabilità e nelle zone circostanti casi di malaria. Il cristianesimo cominciò ad essere presente nella città fin dai primordi, e l'arcivescovo di Apollonia fu presente al Concilio di Efeso del 431 ed a quello di Calcedonia del 451. Comunque la città cominciò a svuotarsi in questo periodo per il continuo e progressivo sviluppo della vicina città di Valona, divenuta ora più importante.
Con la fine dell'antichità la città ridusse sempre più la sua popolazione, ospitando una piccola comunità di Cristiani che nel XIII secolo costruì sopra la collina, che faceva parte probabilmente della vecchia città, il monastero di Ardenica intorno alla chiesa di Shën Mëri di culto ortodosso dedicata a Maria, la madre di Gesù.
Il primo a rendersi conto della localizzazione dell'antica Apollonia fu Ciriaco d'Ancona, che ne descrisse nel 1435 i resti e le iscrizioni.
La città fu poi "riscoperta" con il movimento del Neoclassicismo europeo del XVIII secolo, benché non fu indagata da archeologi austriaci prima dell'occupazione del 1916-1918. I primi scavi furono seguiti da un'équipe francese negli anni 1924-1938 e parte del sito fu danneggiato durante la Seconda guerra mondiale. Dopo la guerra nuovi scavi furono condotti da esperti albanesi a partire dal 1948, benché molto del sito archeologico non sia stato ancora scavato ai giorni nostri. Molti degli oggetti trovati sono stati trasportati nel museo della capitale, Tirana. Durante il periodo di anarchia che seguì la fine della dittatura in Albania nel 1990, molti dei beni archeologici, manufatti e rovine, furono trafugati per essere venduti a ricchi mercanti e collezionisti occidentali all'estero. Dal 1996 il sito archeologico di Apollonia è al centro di uno studio dell'Università di Cincinnati (USA) "Progetto Archeologico Regionale Mallakastra" per indagare la storia dell'insediamento preistorico e storico e l'uso del territorio in Albania centrale, in una zona centrata sulla colonia greca di Apollonia. Dal 2011 è stato riaperto il Museo archeologico di Apollonia, che raccoglie molti reperti ritrovati durante gli scavi.



Atleta di Lussino - CROAZIA

 


L'Atleta di Lussino (in croato chiamato anche Hrvatski Apoksiomen, cioè Apoxyómenos croato) è un'antica opera scultorea greca in bronzo, databile tra il I secolo a.C. e il II secolo d.C. Fu rinvenuta per caso nel 1996 da un turista belga durante un'immersione subacquea nel mare presso Lussino, ma il suo recupero fu possibile solo nel 1999. Alta circa 192 cm, essa si inquadra nella ben nota tipologia dell'Apoxyómenos, ovvero la rappresentazione di un atleta colto nell'atto di detergersi il corpo da polvere e sudore per mezzo di uno strigile.
Secondo l'accademico Nenad Cambi, dell'Università di Spalato, l'opera sarebbe una copia di bottega ellenistica del II-I secolo a.C., risalente a un originale scultoreo greco della metà del IV secolo a.C.
Il professor Vincenzo Saladino, dell'Università di Firenze, ritiene invece che il prototipo originale risalga a un'epoca ellenistica, intorno al 300 a.C., di cui l'atleta di Lussino costituisce una riproduzione in copia del I-II secolo d.C.
Un tentativo di attribuzione è stato compiuto dal prof. Paolo Moreno, che ha ricondotto la tipologia della statua a un originale di Dedalo di Sicione, «artista di scuola policletea di terza generazione».
La statua fu scoperta nel 1996 da un turista belga, il sommozzatore René Wouters, presso l'isola di Oriule Grande (Vele Orjule), a una profondità di circa 45 m, adagiata tra due rocce sul fondo sabbioso. La notizia venne inizialmente tenuta segreta per motivi di sicurezza e solo nel 1998 venne portata a conoscenza del Ministero della cultura croato. Il ministero deliberò di affrontare una complessa operazione di prospezione subacquea, con recupero della statua e messa in atto dell'opera di restauro. Per ragioni di opportunità, il ministro Bozo Biskupic decise di riportare in superficie la statua prima di dare inizio alle esplorazioni, ad evitare così che immersioni illegali potessero comprometterne la sicurezza. Fu così che il 27 aprile 1999 la statua fu fatta riemergere, per essere sottoposta a un lungo ciclo di desalinizzazione e restauro conservativo, condotto a Zagabria sotto la guida del prof. Giuliano Tordi dell'Opificio delle pietre dure di Firenze, del prof. Antonio Šerbetić, capo restauratore e direttore del laboratorio per i metalli dell'Istituto Croato per il Restauro di Zagabria e del prof. Andrea Šimunić, dell'ufficio dell'Istituto Croato per il Restauro di Zagabria, con la collaborazione di esperti dei Musei civici di Como.
Ultimati gli interventi conservativi, la statua è stata esposta presso il Museo Archeologico di Zagabria dal 17 maggio al 30 settembre 2006. Dal mese di ottobre 2006, e fino al 30 gennaio 2007, l'opera è stata in tour in Italia: esposta a Firenze nelle sale del Palazzo Medici Riccardi, è stata visitata da circa 80.000 visitatori, facendo registrare un notevole incremento della normale affluenza al museo.
La statua affondò in mare in un'epoca sicuramente non vicina alla data della sua fusione, come è stato rivelato dall'esame del materiale presente nella parte cava del bronzo. Essa - in base alla radio-datazione al carbonio-14 del materiale organico trovato all'interno della statua (un nocciolo di pesca e un rametto) - risalirebbe a un'epoca di prima età imperiale, tra il 20 a.C. e il 110 d.C. All'inizio del II secolo d.C. la statua atletica era quindi già antica ed era anche passata per alcune traversie: alcuni danni ne avevano resa necessaria la deposizione in orizzontale per qualche tempo, come dimostrato dall'esistenza, nella parte cava, di una tana di roditori. È possibile che, al momento dell'affondamento, la statua fosse in procinto di essere trasferita in una grande città, come Aquileia, Ravenna o Pola, viaggiando su una nave che percorreva una rotta di cabotaggio.
Nei pressi del sito di ritrovamento è stata compiuta una ricerca subacquea ad ampio raggio, estesa su un'area di 10.000 metri quadrati, con uso di metal detector e altri strumenti. È stata effettuata, inoltre, una prospezione con sonde robotiche estesa su una più ampia area di 50.000 metri quadrati, che non ha rilevato tracce di un antico naufragio, ma ha portato alla luce solo parti di ancore romane in piombo, cinque frammenti di anfore del II secolo d.C. e la base della statua. Questi risultati fanno presumere che la scultura fosse a bordo di una nave oneraria romana, dalla quale sarebbe caduta accidentalmente per la rottura delle corde nel mare agitato, o sarebbe stata deliberatamente abbandonata in mare per alleviare il peso durante una tempesta. Ma l'esatto motivo che avrebbe indotto i marinai a sacrificare proprio una parte così preziosa del carico rimane ancora oggi oscuro.
L'atleta di Lussino si presta a un immediato confronto con altri celebri esempi della stessa tipologia dell'Apoxyómenos. Esso differisce dalla realizzazione di Lisippo, conosciuta da una copia romana ora ai Musei Vaticani (nella foto a siistra), in primo luogo per la diversa impostazione del gesto: l'atleta di Lussino non deterge l'avambraccio sollevato ma, con gli arti rivolti in basso, pulisce lo strigile con l'altra mano.
La tipologia richiama invece un'identica statua bronzea, rinvenuta a Efeso nel 1896, ora esposta al Kunsthistorisches Museum di Vienna e dimostratasi essere il calco bronzeo di altra opera in fusione.
La popolarità di cui, nell'antichità, dovette godere la tipologia iconografica dell'Apoxyómenos, è testimoniata dal gran numero di reperti frammentari che ripropongono il medesimo tipo, forse tutte variazioni sul tema dell'esemplare originario di Lisippo.
A causa della lunga permanenza in acqua di mare, l'Apoxyomenos di Lussino, al momento del ripescaggio, si presentava ricoperto da una spessa patina di concrezioni minerali di origine organica, che ne aveva protetto la lega da fenomeni di corrosioni di origine galvano-chimica. Per la rimozione di tali incrostazioni non si è fatto alcun uso di prodotti chimici. Tutto l'intervento di conservazione e restauro infatti, il primo nel suo genere mai posto in essere in Croazia, si è servito di metodologie esclusivamente meccaniche con l'uso di utensili di precisione manovrati manualmente o, talvolta, con l'aiuto della macchina.
La statua presentava una serie di grandi fessurazioni e danni nell'area ischiatica della gamba destra, che hanno richiesto un intervento di ricomposizione; si è resa necessaria anche la realizzazione di una speciale struttura in grado di sorreggere l'intera statua all'interno.
Il piedistallo originale della statua si presenta decorato da ornamenti quadrati e da svastiche.
Nella cavità interna della statua sono stati trovati diversi materiali organici, come pezzi di legno, rami, semi, pezzi di frutta, noccioli di olive e ciliegie, e un nido di piccoli roditori, che, studiati da esperti dei Musei civici di Como e dell'Università di Zagabria, hanno fornito importanti informazioni sulle vicende e sulla datazione dell'opera.
Fin dalla scoperta della statua, gli archeologi sono divisi sulla questione se il modello utilizzato dallo scultore fosse mancino o destrorso. Il Ministro della pubblica istruzione italiano Giuseppe Fioroni, medico per professione, durante una visita alla statua all'epoca dell'esposizione fiorentina, ha notato un più accentuato trofismo dei muscoli della spalla sinistra rispetto a quelli della destra, una circostanza che farebbe supporre un modello mancino.
L'intervento di restauro sull'Apoxyomenos ha ricevuto dall'Unione europea il premio Europa Nostra per la tutela del patrimonio culturale.
ll 30 aprile 2016 a Lussinpiccolo è stato inaugurato il museo appositamente ideato per l'esposizione dell'Apoksiomen. La statua ha fatto così ritorno nell'isola il cui mare l'ha conservata per così lungo tempo.

Ġgantija - MALTA

 


La Gigantia (in maltese Ġgantija; originariamente in lingua italiana anche Torre dei Giganti) è un sito archeologico di Malta. Situati nell'isola minore, Gozo, i templi della Gigantia risalgono circa al 3600-2800 a.C. e sono le più antiche strutture del genere al mondo e le seconde strutture religiose artificiali al mondo dopo Göbekli Tepe, rappresentano il gruppo più esteso dei Templi di Malta. Sito orientato a nord-ovest, ebbe diverse fasi di sviluppo:
  • a: gran tempio a forma di trifoglio;
  • b: aggiunta di due camere laterali;
  • c: tempio minore;
  • d: delimitazione con un cortile curvilineo.
Per costruirlo vennero utilizzati monoliti e una specie di muratura a secco, le pietre venivano strofinate con la sabbia in modo che i blocchi aderissero meglio. La muratura era costituita da 2 muri con un'intercapedine riempito di pietrisco. Le aperture erano ben studiate in modo da dare degli effetti luminosi precisi, colpendo in date precise la parte più sacra del luogo.
La Gigantia è uno dei Templi megalitici di Malta riconosciuto, per primo, Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO nel 1980.


Mosaico del Leone, Teramo (Abruzzo)

 


Il Mosaico del Leone è una decorazione pavimentale del tablino della omonima Domus, sita nel seminterrato di Palazzo Savini a Teramo.
Annoverato tra gli emblemi della storia archeologica teramana, il Mosaico del Leone è databile intorno al I secolo a.C., così come quelli, simili nella fattura, rinvenuti a Pompei e nella Villa Adriana a Tivoli. È stato universalmente riconosciuto come uno degli esempi più alti dell'arte del mosaico.
La scoperta di questa domus romana risale al giugno del lontano 1891, durante i lavori di ristrutturazione di Palazzo Savini. Il palazzo fu costruito sopra le vecchie carceri penali di Teramo, nel rione San Leonardo (via Antica Cattedrale), non distante dalla Domus romana del I secolo a-C. in Largo Sant'Anna, sopra cui fu costruita la prima cattedrale di Teramo di "Santa Maria Aprutiensis", oggi Sant'Anna dei Pompeti. Oltre al Mosaico del Leone furono rinvenute anche altre ricche decorazioni musive. La domus ha subito molti danni a causa degli interventi edilizi di quell'anno, molte parti della casa sono state prima messe in luce e poi ricoperte o, nella peggiore delle ipotesi, inglobate nelle nuove murature; ad aggravare questa situazione contribuì la forte umidità che ha seriamente lesionato la pavimentazione musiva, tanto da renderla in alcuni punti di difficile lettura.
La domus del Leone rientra nella tipologia abitativa cosiddetta greco-romana, che si sviluppa a partire dal II secolo a.C. e di cui si hanno a Pompei numerosissimi esempi. Alla normale disposizione su uno stesso asse di vestibolo - atrio - tablino è aggiunto il peristilio (il giardino porticato), la cui presenza qui è dimostrata dal ritrovamento di numerosi frammenti marmorei di statue e di altri elementi architettonici e decorativi nell'area adiacente alla sala del tablino.
Alla casa si accede tramite un ingresso, di cui resta la soglia pavimentata in cocciopesto che immetteva direttamente nell'atrio.
L'atrio aveva una copertura sostenuta da quattro colonne angolari (tetrastilo). Il pavimento dell'atrio, lungo 10,40 m e largo 6,70 m, è in opus scutulatum, realizzato con scaglie di pietra o marmo, di vario colore e formato, inserite in fondi di vario tipo e disposte sparse o secondo motivi decorativi, secondo modalità utilizzate dal I secolo a.C. Il fondo è in piccole tessere bianche disposte secondo un ordito regolare in cui sono inserite piccole scaglie di diversi tipi di marmi e colori: il tutto è incorniciato da un'ampia fascia di tessere nere e completato da un motivo romboidale di squame allungate, bipartite, adiacenti, in contrasto bianco-nero tra le colonne dell'impluvio. Questo tipo di pavimentazione appare agli inizi del I secolo a.C., perdura nel I secolo d.C. fino all'età giulio-claudia.
Al centro dell'atrio si trova l'impluvio, consistente in una grande vasca atta a raccogliere l'acqua piovana, era utile per l'approvvigionamento idrico. L'acqua, attraverso una canaletta sotterranea, confluiva in una cisterna. La vasca, lunga 4,90 m e larga 2,50 m, è pavimentata in opus spicatum, tutt'intorno corre un gradino sagomato su cui si innestano, agli angoli, le basi attiche delle colonne scanalate, che sostenevano il compluvio.
Dall'atrio si arriva al tablino attraversando una grande apertura larga 2,50 m, si ipotizza che questo passaggio venisse chiuso con una tenda per impedire la visione interna del tablino stesso; tale tenda era appesa ad un'asta orizzontale sostenuta da piccoli pilastri, dei quali rimangono i piedritti. La soglia dell'ingresso è in mosaico, con il motivo del meandro prospettico a svastiche e quadrati nei colori rossiccio, bianco, nero, ocra, verdastro (motivo tipicamente ellenistico). Il tablino ha la dimensione di un quadrato con lato di 3,80 m, due stretti corridoi larghi 1,15 m (se ne ignora la lunghezza) e davano, probabilmente, accesso al peristilio; a causa della perdita delle strutture murarie non è possibile comprendere appieno la decorazione parietale, eccetto tracce di intonaco rosso nel muro di fondo del tablino. Quest'ambiente è pavimentato da opus tessellatum policromo, costituito da tessere di pietra di forma regolare e grandezza variabile, il tipo decorativo dominante è quello del soffitto piano a cassettoni, entro i quali sono rappresentati motivi naturalistici. Al centro vi è l'emblema rappresentante un leone in lotta con un serpente su uno sfondo naturalistico, contornato da una treccia a due capi, intorno al riquadro del leone girano ricche ghirlande, tenute ai quattro lati da maschere teatrali, e, più all'esterno, un motivo a treccia a calice.
L'Emblema del Leone (per emblema si intendeva un pannello musivo che veniva eseguito in bottega con minuscole tessere, disposto su lastre di marmo o travertino o terracotta e successivamente inserito nel tessellato) è inserito entro una cassetta di pietra: la tecnica per un emblema era quella del vermicolato, ciò eseguito con tessere piccolissime e di forma irregolare, tagliate in modo da seguire i contorni della figura, ottenendo un effetto simile alla pittura; nel Mosaico del Leone le tessere dello sfondo sono quadrangolari, allungate quelle dei baffi, tonde quelle della pupilla e dell'iride. Complessivamente qui è applicata la disposizione centripeta, ossia quella in cui la grandezza delle tessere va decrescendo dall'esterno verso l'interno; il perimetro dell'emblema teramano è ornato da un motivo a treccia a due capi con nodi serrati su fondo scuro. I colori impiegati sono due: l'arancio e il grigio verde in diverse gradazioni tonali; quattro file di tessere compongono ogni nastro, che ha una notevole resa plastica ottenuta mediante opportuno utilizzo delle variazioni tonali dei due colori usati. Al centro della scena vi è un leone in posizione di attacco (zampe anteriori divaricate e schiena inarcata) raffigurato leggermente in scorcio, mentre con la zampa anteriore artiglia il serpente, che a sua volta avvinghia la coda attorno alla zampa posteriore sinistra del leone. Quasi ad occupare tutta la scena è la testa con le fauci spalancate e la folta criniera resa con tessere dalle diverse tonalità del giallo oro. La pelle del serpente invece è resa da colori arancio e verde cupo sul dorso, mentre il ventre è realizzato da minuti frammenti beige con macchie scure. L'ambientazione è quella ai margini di una pozza d'acqua azzurra, tutt'intorno vi sono elementi vegetali: due alberi dei quali uno dal fusto nodoso e largo e chioma ampia, l'altro dal fusto sottile e foglie palmate con bacche e frutti. Molto accentuato è l'effetto chiaroscurale: una fonte di luce sembra provenire da destra inondando completamente il muso del leone.

Anfora di Baratti (Toscana)

 
L'anfora di Baratti è una celebre anfora d'argento, capolavoro di arte tardoantica orientale, proveniente forse da Antiochia e databile alla fine del IV secolo. Andata persa in antichità nel corso di un naufragio al largo del golfo di Baratti, fu rinvenuta accidentalmente in mare tra le reti del pescatore pugliese Gaetano Graniero nel 1968, peraltro notevolmente danneggiata da un'estremità di un'ancora.
Oggetto di pregevolissima fattura, in argento quasi puro (94-96 %) l'anfora poteva contenere fino a 22 litri di vino. Presenta i segni per l'attaccatura di due manici, non rinvenuti. Presenta 132 applicazioni ovali con figure a rilievo, legate al culto di Cibele, diffuso soprattutto in Siria e Anatolia (Frigia); vi si riconoscono altresì Zeus, Era, Afrodite, Atena, Apollo, Ares, Attys, Dioniso, musici e menadi danzanti. Tra le varie ipotesi c'è quella che il tema ruoti attorno al mito di Paride, con intrecci e rimandi ad altri miti. Le figure si allineano su dieci file, fino al collo del vaso, interrotte da una ghirlanda.
Non solo si tratta quindi di un raro pezzo di argenteria tardoantica, ma anche di un documento sul persistere della cultura pagana in alcune frange di popolazione dell'Impero Romano anche dopo la conversione statale al Cristianesimo. Non è chiaro se si tratti di un oggetto destinato ad abbellire una mensa privata o se avesse una qualche funzione cultuale.
Pezzo unico, presenta confronti con un'altra anfora in argento rinvenuta a Conçesti in Moldavia e oggi all'Ermitage, simile nella forma ma non nella decorazione. L'attribuzione a una manifattura di Antiochia si basa sul fatto che tale centro fosse il più importante per la lavorazione dell'argento, ma non si può escludere che provenga da un centro danubiano come Sirmium o Naissus.
L'anfora, dopo essere stata a lungo al Museo archeologico nazionale di Firenze, è oggi conservata nel Museo archeologico del territorio di Populonia a Piombino.

Libarna (Piemonte)

 

Libarna era una città romana situata sulla riva sinistra dello Scrivia, sul tratto della via Postumia tra Genua e Dertona, nelle vicinanze dell'odierna frazione Libarna del comune di Serravalle Scrivia, in provincia di Alessandria. L'area degli scavi di proprietà dello Stato Italiano, oltre che sito archeologico è teatro anche di eventi museali, musicali ed artistici. Nel 2015 ha fatto registrare 4 568 visitatori. L'ingresso è gratuito.
Il villaggio fondato dai Liguri Dectunini, potrebbe essere uno dei quindici oppida che, secondo Livio, si arresero al console Q. Minucio Rufo nel 191 a.C. È menzionata per la prima volta nel II secolo a.C. L'apertura della via Postumia nel 148 a.C. ne favorì senza dubbio la crescita, trasformando Libarna in un importante centro economico e sociale. Ottenuto ben presto il riconoscimento giuridico della cittadinanza latina, fu eretta a colonia soltanto più avanti nel I secolo d.C., quando raggiunse il massimo splendore. Da qui la Via Postumia si dirigeva verso il Passo della Bocchetta. Caduta in declino in seguito alle invasioni barbariche, fu definitivamente abbandonata nel 452, quando gli abitanti lasciarono le case ormai insicure, rifugiandosi sulle colline circostanti, aggregandosi alle comunità esistenti o fondandone di nuove, quali Precipiano, Serravalle e Arquata.
Ricordata ancora in alcuni documenti del monastero di Precipiano (Vignole Borbera) e del catasto di Varinella del 1544, se ne perdette ogni memoria, divenendo incerto perfino il luogo della sua ubicazione.
Identificata dal Settecento con varie località del Bobbiese e del Tortonese, solo nel secolo XIX, in corrispondenza dell'affiorare alla luce dei resti, grazie all'opera dell'abate Bottazzi, veniva accertato il suo inquadramento storico-topografico.
Libarna era un capoluogo autonomo di un vasto territorio che confinava a est con Velleia, a sud con Genua, a ovest con Aquae Statiellae e a nord con Derthona. Situata in una zona particolarmente fertile, l'economia agricola era fondata sulla viticoltura, sulle colture arboricole per lo sfruttamento del legno e sull'allevamento del bestiame. Tra le altre attività dell’epoca si annoverano la produzione della ceramica e l'industria laterizia. Grazie alla posizione geografica costituiva inoltre un importante nodo commerciale.
Pur mancando notizie certe sull'esistenza di edifici di culto nella città, dalle iscrizioni votive ritrovate si desume che i cittadini di Libarna erano devoti a Giove, Diana, Ercole. Attestato anche il culto imperiale
La scoperta dell'antica città fu casuale, grazie all'affioramento di reperti, durante i lavori della cosiddetta strada regia (odierna Strada statale 35 dei Giovi) destinata a collegare Genova, da poco entrata nel Regno di Sardegna, con la capitale Torino, a partire dal 1820.
Sono stati riportati alla luce due quartieri in prossimità dell'anfiteatro, di 60x65m di lato, l'anfiteatro e il teatro. I reperti di scavo sono per la maggior parte conservati nel Museo di antichità di Torino, dove figurano tra le opere di maggior pregio, pavimenti musivi, marmi, bronzi e ambre figurate.
La città sorgeva su un terreno pianeggiante, ricco di acque, circondato da colline. Era attraversata in senso longitudinale dalla via Postumia, che ne costituiva il principale asse da nord-ovest a sud-est. Altro asse principale era il decumano che, orientato da sud-ovest a nord-est, conduceva all'anfiteatro. Le strade dividevano la città in tanti spazi di forma tendenzialmente quadrata, ma di dimensioni differenti. Esse erano lastricate, rettilinee con collettori di scarico convogliati verso l'odierno rio della Pieve. La città riceveva acqua tramite un acquedotto, era ricca di sorgenti, pozzi e fontane.
Nel punto di incontro tra le due principali vie, sorgeva il foro, grande piazza lastricata su cui sorgevano portici ed edifici, che finora è stato solo parzialmente esplorato. Le terme erano situate nell'estremo settore nord-est e verso il limite settentrionale sorgeva il teatro.


Grumentum (Basilicata)

 

Grumentum fu un'antica città romana della Lucania. Attualmente rimangono gli scavi del parco archeologico, situato ai piedi del colle che ospita il paese di Grumento Nova (PZ), nelle immediate vicinanze del lago di Pietra del Pertusillo, in località "Spineta".
I primi insediamenti abitativi nella zona si possono far risalire al VI secolo a.C., tuttavia la fondazione della città vera e propria risale al III secolo a.C. ad opera dei Romani, nell'ambito della creazione di una serie di avamposti fortificati in posizione strategica realizzati durante le guerre sannitiche: la città sorse infatti quasi contemporaneamente a Venusia (291 a.C.) e a Paestum (273 a.C.). Da Grumentum passava la via Herculea, tra Venusia e Heraclea, e un'altra strada conduceva alla via Popilia sul versante tirrenico, facendo della città un nodo di comunicazione strategicamente importante. Durante la seconda guerra punica, vi si svolsero due battaglie tra Romani e Cartaginesi (215 e 207 a.C.). Lo storico Tito Livio narra del primo scontro tra Annone (figlio di Bomilcare) e l'esercito romano condotto da Tiberio Sempronio Longo, e di come nel secondo Annibale si fosse accampato a ridosso delle mura della città e fosse quindi stato sconfitto e costretto alla fuga dai Romani, provenienti da Venosa e guidati da Gaio Claudio Nerone. Durante la guerra sociale la città si schierò con i Romani e venne distrutta e saccheggiata dagli Italici, attraversando un periodo di crisi e di calo demografico. A partire dalla seconda metà del I secolo a.C. la città venne ricostruita, e una serie di monumenti pubblici vennero edificati in epoca cesariana e augustea. A quest'epoca, o al successivo periodo giulio-claudio risale probabilmente l'attribuzione dello statuto di colonia. Nel 312 d.C. il giovane martire cristiano Laverio venne decapitato fuori le mura di Grumentum alla confluenza dei fiumi Agri e Sciaura, era il 17 novembre sotto il prefetto Agrippa. Grazie a San Laverio martire Grumentum nel 370 divenne sede episcopale, ma subito dopo iniziò un progressivo abbandono della città e del fondovalle, a causa delle continue incursioni saracene (IX e X secolo). Gli abitanti di Grumentum si sparsero per tutta la Val d'Agri fondando sulle alture circostanti nuovi centri fortificati, che divennero gli attuali paesi della zona: fra questi Saponara, ribattezzata poi Grumento Nova proprio in onore di Grumentum, fondata nel 954 sulla collina sovrastante l'antica città. Le prime indagini storico-archeologiche su Grumentum di cui si hanno notizie sono quelle ad opera di Giovanni Antonio Paglia che, tra il 1563 e il 1564, portò alla luce le prime epigrafi, dando inizio così al dibattito per l’identificazione e la collocazione del sito della colonia romana. I primi sterri vengono invece svolti nel Settecento da Carlo Danio, arciprete di Saponara di Grumento (l’attuale Grumento Nova). Importante fu il successivo lavoro di trascrizione delle epigrafi raccolte da Danio nella sua collezione ad opera di Sebastiano Paoli. Nella prima metà dell’Ottocento Andrea Lombardi ha fornito una descrizione dettagliata di ciò che era visibile nel sito di Grumentum, soffermandosi sull’anfiteatro, sulle terme, sull’acquedotto, sulla porta cosiddetta Aquilia. Riferiva che la porta era stata spogliata dei marmi che la decoravano, utilizzati per decorare la Porta di Saponara di Grumento. L’autore ha descritto anche tutti i reperti ritrovati nell’area e ancora presenti nel giardino che era stato di Carlo Danio, fornendone un elenco assai lungo e dettagliato, lamentando la dispersione della collezione. Theodor Mommsen nel 1846 giunse a Saponara di Grumento per raccogliere le testimonianze epigrafiche grumentine: egli si era recato sul posto per vedere sia le epigrafi contenute nel giardino del Carlo Danio, sia quelle sparse nel territorio. Con la nascita del Regno d’Italia l’area archeologica venne assegnata in gestione al Ministero della Pubblica Istruzione, ma non fu ancora scavata sistematicamente: i ruderi degli edifici venivano ancora rinvenuti occasionalmente. Alla fine dell’Ottocento, Giovanni Patroni riporta numerose notizie sul patrimonio epigrafico grumentino e sulla piccola collezione civica che si stava accumulando nella Biblioteca Comunale. Michele Lacava e più tardi Vittorio Di Cicco proseguirono le indagini sul campo per conto del Museo Provinciale di Potenza.
Agli inizi del secolo l’ispettore Francesco Paolo Caputi pubblicò uno studio sistematico sui ritrovamenti archeologici e sugli studi eruditi relativi a Grumentum dei due secoli precedenti. Nel 1951 Pellegrino Claudio Sestieri avvia una campagna di scavi a partire dal teatro: dopo averne messo in luce una metà, per mancanza di fondi, dovette interrompere l’indagine. In quegli anni era stato anche costruito un piccolo antiquarium per accogliere i reperti rinvenuti a Grumentum. Nel 1961 il Ministero della Pubblica Istruzione dichiara di importante interesse archeologico la zona del teatro, delle terme e dell’anfiteatro. Nel 1964 fu istituita la Soprintendenza alle Antichità della Basilicata; l’indagine fu portata avanti dal primo soprintendente alle antichità della Basilicata, Dinu Adamesteanu, il quale tra il 1964 e il 1968 curò anche il restauro del teatro e pubblicò i risultati degli scavi.

L'impianto urbanistico della città, risalente alla fondazione del III secolo a.C. è di forma allungata, in dipendenza dalle condizioni orografiche della collina, e si articola su tre vie principali parallele, intersecate ad angolo retto da vie secondarie. La città era circondata da mura con sei porte, su un perimetro di circa 3 km e occupava una area di circa 25 ettari, di cui solo un decimo è stato riportato in luce.
Il Teatro è di epoca augustea, vicino al quale si trovano i resti di due piccoli templi di epoca imperiale e quelli di una ricca domus, denominata "Casa dei mosaici" per la presenza di pavimenti a mosaico del IV secolo in alcuni ambienti;
Il Foro è chiuso da portici e con resti di due templi sui lati sud e nord, identificati ipoteticamente con il capitolium (principale tempio cittadino) e con un Cesareum (tempio dedicato al culto imperiale). Sul lato ovest si trovano i resti di una basilica e forse di una curia (luogo di riunione del consiglio cittadino).
Nei pressi del foro, lungo il decumano orientale, si trovano anche i resti di un edificio termale di età repubblicana. Un’iscrizione menziona due praetores duoviri, Q. Pettius e C. Maecius che fecero edificare a spese pubbliche le terme. La struttura termale è in opus reticolatum. Il calidarium è diviso in due ambienti separati da sedili in muratura, entrambi pavimentati a mosaico, bianco e policromo. Quello policromo consiste in una larga cornice decorata a greche che racchiude un’altra cornice costituita da una treccia a due capi su fondo scuro. Essi poggiano su un pavimento con suspensurae. Sono stati rinvenuti anche i resti del forno per il riscaldamento della pavimentazione. Il frigidarium circolare, con sedili ai lati, è stato riutilizzato in età moderna e contemporanea per la costruzione di palmenti per la pigiatura dell’uva e la fermentazione del mosto. Il rifornimento d’acqua era garantito, oltre che dall'acquedotto di età augustea, da una cisterna, anch'essa riutilizzata. Gli stessi locali sono stati destinati ai servizi per i visitatori del Parco.
Le Teme imperiali furono ostruite in età augustea. Il mosaico in bianco e nero, decorato con creature marine, tritoni e Scilla e quello limitrofo con motivi geometrici sono stati datati al III-IV secolo a.C.

L’anfiteatro viene già menzionato dagli eruditi locali nel Settecento[: esso era rimasto visibile e riconoscibile all’interno del tessuto urbano della città romana ormai scomparsa. Le indagini vere e proprie del monumento ebbero inizio nel 1981, dopo che il terremoto del 1980 ne ebbe aggravato i pericoli di crollo. L’anfiteatro è datato al I secolo a.C.. Esso venne innalzato in una posizione periferica, lungo il limite nord-orientale del perimetro urbano, in prossimità di una via di accesso attraverso la quale gli spettatori provenienti dalla valle potevano affluire senza passare all’interno della città. Gli assi dell’anfiteatro risultano allineati agli assi stradali. Il dislivello tra la terrazza centrale e quella orientale della collina su cui sorgeva Grumentum venne sfruttato per addossarvi la parte occidentale dell’edificio. La parte orientale poggia su una sostruzione interamente artificiale. La tecnica costruttiva della fase iniziale, ovvero quella repubblicana, è l’opus incertum. Le parti in opus reticulatum regolare sono da ritenersi successive. L’anfiteatro ha due soli ordini di gradini, sostenuti da terrapieni e da un corridoio voltato nella parte occidentale e da sostruzioni artificiali in quella orientale. L’arena è stata ricavata tagliando e spianando la collina e non presenta ambienti sotterranei. Il corridoio che la circonda si interrompeva solo in corrispondenza degli ingressi principali, dove era sbarrato da cancelli in quanto destinato ad immettere animali attraverso le sei aperture chiuse da griglie di cui si conservano in parte le soglie. Fuori dalle mura si sono rinvenute tombe monumentali.

Le fonti letterarie ed epigrafiche di età tardoantica e altomedioevale disponibili per Grumentum sembrano indicare una continuità di vita del centro fino al V secolo d.C.: la Tabula Peutingeriana riporta un collegamento diretto con Taranto; nei pressi è attestata la via Herculia, documentata da un gruppo di miliaria che ne attestano ripetuti interventi di manutenzione almeno fino all'età di Arcadio; la sede vescovile è menzionata nel V e VI secolo dai pontefici Gelasio I, Pelagio I e Gregorio Magno; la necropoli indagata davanti alla chiesetta extraurbana di San Marco è stata datata al VII secolo; la menzione del territorio di Grumentum dall'Anonimo Ravennate alla fine del VII secolo[25] e da Guidone agli inizi del XII secolo. Nel XII secolo venne inoltre redatta l'agiografia di un martire grumentino, san Laviero. A partire dall'XI secolo si consolidano e si sviluppano insediamenti di altura: Saponara, Marsico Nuovo, Marsico Vetere, Moliterno, etc. Questo nuovo assetto poleografico dell'antico territorio grumentino è ancora attuale, modificato di recente dalla nascita di una rapida viabilità di fondovalle, che ha determinato l'immediato sviluppo di piccoli centri di pianura (Villa d'Agri, Sarconi, etc.). A partire dal XVI-XVII l’area archeologica venne nuovamente occupata per attività vitivinicole con la costruzione di case rurali.

La chiesa di Santa Maria Assunta era situata nella parte settentrionale dell’abitato romano, in prossimità dell'anfiteatro e orientata rispetto alla sua viabilità. Sul lato orientale sono state rinvenute nel 1978 alcune sepolture medievali, purtroppo prive di corredo. Non si hanno ancora certezze né sulla data d'impianto, né sulle successive fasi edilizie di questo edifici. Un esiguo frammento di affresco parietale, conservatosi nella navata centrale e raffigurante un volto di santa ai piedi di una Madonna dalle dimensioni sensibilmente maggiori, permette ipotizzare una sua utilizzazione come luogo di culto nel periodo altomedioevale.

Elea/Velia (Campania)

 


Elea (in greco antico: Ἐλέα), denominata in epoca romana Velia, è un'antica polis della Magna Grecia. L'area archeologica è localizzata in contrada Piana di Velia, nel comune di Ascea, in provincia di Salerno, all'interno del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano e Alburni. L'accesso al sito archeologico è da Via di Porta Rosa. Lo storico e geografo greco Strabone, nella sua Geografia, parla della città di Elea-Velia, specificando che i Focei, suoi fondatori, la chiamarono inizialmente ῾Υέλη (Huélē), nome che però dopo alcune variazioni divenne per i grecofoni Elea.
I Romani adottarono la forma Velia per il nome della città, attestata a partire da Cicerone.
Ad oggi esistono alcuni toponimi cilentani che derivano dal nome latino di "Velia" sono: Novi Velia, Casal Velino, Velina e Acquavella.
Gli scavi, vicini alla ferrovia e non lontani da Ascea Marina, sono visitabili tutti i giorni, eccetto il lunedì. Dell'antica città restano l'Area Portuale, Porta Marina, Porta Rosa (foto in alto), le Terme Ellenistiche e le Terme romane, l'Agorà, l'Acropoli, il Quartiere Meridionale e il Quartiere Arcaico. In prossimità dell'ingresso si trova un ampio parcheggio gratuito non custodito né ombreggiato, e un gruppo di moderni edifici in cemento armato, legno e vetro, destinati a biglietteria, esposizione, ristoro, servizi igienici e vendita di souvenirs costruito con i finanziamenti POR Campania 2000-2006 per la valorizzazione del Parco archeologico di Elea-Velia nell'ambito di un progetto cofinanziato dall'Unione europea. Di questi solo la biglietteria è utilizzata, mentre gli altri risultano in stato di abbandono sin dal loro completamento: gli scaffali accatastati non sono nemmeno stati montati.
Nel 2016 l'area archeologica ha fatto registrare 33 380 visitatori.
Elea fu fondata nella seconda metà del VI secolo a.C., da esuli Focei in fuga dalla Ionia (sulle coste dell'attuale Turchia, nei pressi del golfo di Smirne) per sfuggire alla pressione militare persiana. La fondazione avvenne a seguito della Battaglia di Alalia, combattuta dai Focei di Alalia contro una coalizione di Etruschi e Cartaginesi, evento databile a un arco temporale che va dal 541 al 535 a.C.
La città fu edificata sulla sommità e sui fianchi di un promontorio, comprato dai Focei agli Enotri, situato tra Punta Licosa e Palinuro. Fu inizialmente chiamata Hyele, dal nome della sorgente posta alle spalle del promontorio.
Intorno al V secolo a.C., la città era felicemente nota per i floridi rapporti commerciali e la politica governativa. Assunse anche notevole importanza culturale per la sua scuola filosofica presocratica, conosciuta come Scuola eleatica, fondata da Parmenide e portata avanti dall'allievo Zenone. Nel IV secolo entrò nella lega delle città impegnate ad arrestare l'avanzata dei Lucani, che avevano già occupato la vicina Poseidonia (Paestum) e minacciavano Elea.
Con Roma, invece, Elea intrattenne ottimi rapporti: fornì navi per le guerre puniche (III-II secolo) e inviò giovani sacerdotesse per il culto a Demetra (Cerere), provenienti dalle famiglie aristocratiche del posto. Divenne infine luogo di villeggiatura e di cura per aristocratici romani, forse grazie anche alla presenza della scuola medico-filosofica.
Nell'88 a.C. Elea fu ascritta alla tribù Romilia, divenendo municipio romano con il nome di Velia (cfr. la scheda a lato, Le diverse forme del nome greco), ma con il diritto di mantenere la lingua greca e di battere moneta propria. Nella seconda metà del I secolo servì come base navale, prima per Bruto (44 a.C.) e poi per Ottaviano (38 a.C.). La prosperità della città continuò fino a tutto il I secolo d.C., quando si costruirono numerose ville e piccoli insediamenti, unitamente a nuovi edifici pubblici e alle thermae, ma il progressivo insabbiamento dei porti e la costruzione, avviata nel 132 a.C., della Via Popilia che collegava Roma con il sud della penisola tagliando fuori Velia, condussero la città a un progressivo isolamento e impoverimento.
Dalla fine dell'età imperiale, gli ultimi abitanti furono costretti a rifugiarsi nella parte alta dell'Acropoli per sfuggire all'avanzamento di terreno paludoso, e l'insediamento è riportato nei codici con vari nomi, corrispondenti a differenti periodi, tra cui Castellammare della Bruca. Alla fine del Medioevo, nel 1420, diventò feudo dei Sanseverino che però sarà presto donato alla Real Casa dell'Annunziata di Napoli. Dal 1669 non è più censito alcun abitante sul posto, e le tracce della città si perdono nelle paludi. Solo nell'Ottocento l'archeologo François Lenormant comprese che l'importanza storica e culturale del luogo si prestava a interessanti studi e approfondimenti, tuttora in corso, ma va anche rilevato che purtroppo, a causa degli scavi iniziati nel secolo scorso, l'abitato superstite dall'epoca medievale fino al Seicento fu quasi completamente distrutto.
La città è situata sulla Costiera Cilentana, non lontana da Vallo della Lucania, circa 90 km a sud di Salerno. La pianura a nord della città antica è solcata dal fiume Alento e dal suo affluente di sinistra, il Palistro, in passato dotato di autonomo sbocco in mare. A sud dell'acropoli, a breve distanza da questa, sfocia la Fiumarella di Santa Barbara. Il materiale sedimentato dai tre fiumi ha determinato col tempo l'interramento dello specchio antistante la città, causando la scomparsa delle due isole Enotridi, fornite di approdi, di cui ci parla Strabone. Dell'esistenza delle due isole ci viene conferma da Plinio il Vecchio che ce ne fornisce sia l'ubicazione (contra Veliam) che i nomi (Isacia e Pontia). Gli stessi fenomeni hanno causato l'avanzamento della linea di costa che oggi fa apparire la zona collinare su cui sorge l'acropoli, un tempo un promontorio, come un'altura non più lambita dal vicino mare. Quest'altura, a seguito della perdita della memoria dell'esistenza della colonia focea, ha assunto il toponimo di Castellammare della Bruca.
Tra i motivi che fanno di Velia un patrimonio dell'umanità va sicuramente menzionata la scuola eleatica, una scuola filosofica che ha potuto vantare, fra i suoi esponenti, Parmenide, Zenone di Elea e Melisso di Samo. Senofane di Colofone è stato a lungo considerato un filosofo della tradizione eleatica per la scelta stilistica di scrivere in versi: la critica dell'antropomorfismo religioso e dei valori della classe aristocratica sono invece chiari esempi della sua impostazione ionica (la stessa Colofone è, infatti, nella Ionia).

Bue Apis, Benevento (Campania)


 
Il bue Apis è una statua di provenienza egizia situata a Benevento, all'inizio del viale San Lorenzo che porta alla basilica della Madonna delle Grazie. Popolarmente è chiamata il porchettello o, in dialetto, 'a ufara 'e Santu Lavrienzo, "la bufala di San Lorenzo". Potrebbe essere stata parte dell'arredo del tempio di Iside cittadino, ma la questione è aperta.
La statua di bue, in granito rosso egiziano, è molto rovinata nei dettagli: l'usura ha danneggiato soprattutto la parte superiore della testa, dove le orecchie e le corna dell'animale sono sparite del tutto.
La scultura fu rinvenuta nel 1629 sulla strada che conduce a Casale dei Maccabei e, per ordine del Gonfaloniere e dei Consoli cittadini, fu fatta installare su un piedistallo a fianco dell'imbocco di viale San Lorenzo, all'esterno della cinta muraria e di fronte all'omonima porta cittadina. 
Inizialmente il bue fu considerato un'opera di età romana che commemorava un simbolo sannita, e così fu fatto incidere sul piedistallo: BVBALVM / INTER PLVRIMAS VRBIS DEVASTATIONES / ASSERVATVM / BELLICAE SAMNITVM FORTVNAE / MONVMENTVM / A. D. M.DC.XXIX. Però nel XIX secolo Émile Étienne Guimet, viaggiatore e collezionista, suggerì che si trattasse di una rappresentazione del dio Apis (e quindi, in particolare, sarebbe un toro, non un bue). 
L'egittologo Hans Wolfgang Müller esaminò tale scultura e in particolare la sua possibile relazione con il tempio di Iside che sorgeva in città. Notò la rozzezza dell'esecuzione, che deve comunque essere egizia a giudicare dalla postura composta e frontale; quanto all'identificazione con Apis, però, l'egittologo notò l'assenza di quasi tutti i tratti tipici dell'iconografia del dio. Non vi è traccia delle corna con disco solare che dovevano sormontare il capo, non sono stati scolpiti i genitali, e le zampe anteriori sono allineate, diversamente dall'uso egizio di rappresentare quella sinistra avanzata.
A suo parere, non ci sono quindi elementi decisivi per asserire che il bue beneventano è veramente Apis. Si può ipotizzare che la scultura sia stata realizzata in un periodo tardo (non prima della fine del II secolo) in cui l'arte egizia, ormai in decadenza, non era più in grado di conservare le iconografie tradizionali. 
Il ritrovamento della statua in un luogo isolato e lontano dal centro urbano di Benevento è stato spiegato ipotizzando che essa sia stata lì trasportata per proseguire il culto della divinità egizia clandestinamente, mentre la diffusione del cristianesimo stava eradicando i culti pagani dalla città. Inoltre, ciò può avere un nesso con il motivo per cui la zona del ritrovamento è una di quelle in cui la tradizione pone il sabba delle streghe riunitesi a Benevento. 


Palazzo imperiale romano di Milano (Lombardia)

 

Il palazzo imperiale romano di Milano fu una residenza imperiale costruita dall'imperatore Massimiano quando Mediolanum (la moderna Milano) diventò capitale dell'Impero romano d'Occidente, ruolo che ebbe dal 286 d.C. al 402 d.C. Nell'occasione Massimiano abbellì la città con vari monumenti, e una parte considerevole della città (quella occidentale, una vera e propria città nella città) fu riservata al palazzo imperiale e al suo quartiere, che era la residenza dell'imperatore e della sua corte, e che comprendeva locali di rappresentanza e amministrativi, nonché terme private, presidi militari fissi, luoghi di culto privati e aree residenziali.
Come di consuetudine i palazzi imperiali romani avevano un accesso diretto al circo, in modo che l'imperatore potesse recarvisi senza uscire per strada. Mediolanum non fu eccezione, visto che venne creato un passaggio coperto e protetto tramite il quale l'imperatore poteva accedere all'adiacente circo romano di Milano. Nei documenti il palazzo imperiale romano di Milano, il cui quartiere aveva un'estensione totale di 80 000 metri quadri, è citato come palatium o regia. Il palazzo imperiale fu gradualmente abbandonato tra la fine del dominio longobardo e la prima metà del X secolo, con la completa demolizione che avvenne prima della fine del secolo citato: da questo momento in poi il palazzo imperiale di Milano scompare anche dai documenti, fermo restando che se n'è conservata la memoria nel nome della chiesa di San Giorgio al Palazzo, luogo di culto cattolico situato nella moderna piazza San Giorgio al Palazzo, lungo l'asse di via Torino, che risale al XII secolo.
Il quartiere del palazzo imperiale romano di Milano era compreso tra le moderne corso Magenta, via Santa Maria alla Porta, via Santa Maria Fulcorina (queste ultime coincidenti con l'antico decumano massimo) e via Torino (l'antico cardo massimo), tra Porta Ticinese romana e Porta Vercellina romana. Le imponenti murature del palazzo imperiale sono state rinvenute nelle moderne via Brisa, piazza Mentana, via Morigi, via Sant'Orsola, via Borromei, via Gorani e piazza Borromeo. Principalmente sono state trovate fondazioni, alcuni muri fuori terra e parti di pavimenti decorati. Rinvenuti grazie a scavi effettuati tra il 1951 e il 1962, i resti del palazzo nella moderna via Brisa sono facilmente visibili perché situati in un'area verde all'aperto musealizzata. Nelle moderne via Gorani e piazza Borromeo sono stati invece rinvenuti alcuni resti di cortili porticati, ovvero dell'elemento architettonico che costituiva la base del complesso architettonico del palazzo imperiale romano di Milano.
Per costruire il palazzo imperiale romano di Milano venne scelta una zona di Mediolanum che era contraddistinta dalla presenza di abitazioni di lusso. Come già accennato, a fianco del palazzo imperiale fu edificato il circo romano di Milano, riproponendo lo schema palazzo imperiale-circo tanto frequente nelle città imperiali sede della corte imperiale.
La moderna via Torino, con la costruzione del palazzo imperiale, diventò il nuovo decumano massimo visto che ora collegava il palazzo, centro politico e amministrativo della città, con il Palazzo Arcivescovile, che si trovava dove ora è situata la moderna piazza del Duomo e che rappresentava il centro religioso della città. La posizione e l'estensione del complesso architettonico del palazzo imperiale sono state ricostruite sulla base di indagini archeologiche e di indizi topografici e toponomastici.
Il palazzo imperiale romano di Milano aveva la funzione di residenza ufficiale dell'imperatore, della sua corte e delle sue guardie, nonché la funzione di sede amministrativa principale dell'Impero romano d'Occidente. Il palazzo era costituito da più cortili porticati adeguatamente collegati che davano accesso sia ad ambienti pubblici che privati. L'ingresso del palazzo, situato lungo la moderna via Santa Maria alla Porta, era costituito da un grande vestibolo che dava l'accesso a una sala absidata. Le sezioni del palazzo destinate a funzioni di rappresentanza erano contraddistinte da locali più grandi e dotati di absidi, spesso con pavimenti rialzati, vista la possibile presenza dell'imperatore in vesti ufficiali. Una parte del palazzo era destinato alla famiglia imperiale. Le pareti del palazzo erano ricoperte da affreschi, tra i quali spiccavano quelli che celebravano le vittorie militari degli imperatori romani.
Le imponenti opere murarie del palazzo imperiale romano di Milano sono state rinvenute nelle moderne via Brisa, piazza Mentana, via Morigi, via Sant'Orsola, via Borromei, via Gorani e piazza Borromeo. Principalmente sono state trovate fondazioni, alcuni muri fuori terra e parti di pavimenti decorati[9]. All'interno del palazzo erano presenti degli impianti termali, i cui resti sono stati messi in luce in via Santa Maria della Valle (non molto distante da via Bagnera) nei pressi della chiesa di San Giorgio al Palazzo (chiamata baniaria in un documento del 1025), dove nel medioevo Landolfo Seniore ricordava vi fosse proprio in questo luogo una simile e successiva struttura termale.
Nei resti presenti nella moderna via Brisa, la cui estensione totale è di 2 160 metri quadri, è possibile riconoscere delle strutture di fondazione, oggi all'aperto, di un impianto termale che sembra riferirsi al nucleo più a nord del Palazzo, settore destinato alla rappresentanza, dove l'imperatore riceveva dignitari, principi o re stranieri venuti a fargli visita. Si è inoltre ipotizzato che l'edificio della moderna via Brisa si affacciasse in origine su un'ampia esedra ad emiciclo, che a sua volta era prospiciente alla strada che costeggiava il vicino circo romano di Milano, ad ovest del palazzo.
Rinvenuti grazie a scavi effettuati tra il 1951 e il 1962, i resti del palazzo nella moderna via Brisa sono facilmente visibili perché situati in un'area verde all'aperto musealizzata. Nello specifico, nella moderna via Brisa, si trovano i resti della parte del palazzo che un tempo era destinato alla funzione di rappresentanza. Questi ambienti erano perlopiù absidati, come testimoniato dalla forma curvilinea di molti resti dei tratti di muro. Nella moderna via Brisa sono presenti i resti di alcune fondazioni del piano rialzato del complesso architettonico, del locale centrale del palazzo (avente diametro di 20,70 metri) dove confluivano gli altri ambienti, un tempo contraddistinto da un imponente colonnato, nonché i resti della stanza dove venivano ricevuti gli ospiti e alcuni locali minori, la maggior parte dei quali era absidata. Nella moderna via Brisa sono stati trovati anche i resti dell'impianto di riscaldamento del palazzo e dell'impianto dello smaltimento delle acque, nonché i frammenti di lastre in marmo greco che un tempo rivestivano le pareti, frammenti di serpentino, porfido e di intonaco dipinto.
Nelle moderne via Gorani e piazza Borromeo sono stati invece rinvenuti alcuni resti di cortili porticati, ovvero dell'elemento architettonico che costituiva la base del complesso architettonico del palazzo imperiale romano di Milano. Nella moderna via Gorani 4, in particolare, sono stati trovati i resti di diversi ambienti, perlopiù absidati, un tempo appartenenti alla parte nord occidentale del palazzo. Nello specifico sono venuti alla luce un locale dove era presente una delle camere di combustione che serviva a riscaldare il palazzo, due domus risalenti a un periodo compreso tra il I secolo e il III secolo poi demolite e inglobate nell'erigendo palazzo, due sale di rappresentanza un tempo riccamente decorate (in corrispondenza di una di esse è stato rinvenuto anche un mosaico un tempo appartenente al pavimento), un muro e una base di una colonna del peristilio, un altro locale di rappresentanza con pavimento ricoperto da un mosaico, di cui sono state trovate tracce, nonché alcune monete, tra cui una risalente all'imperatore Massimiano e un'altra all'imperatore Costanzo II. Il sito della moderna via Gorani 4 è parzialmente accessibile al pubblico.
Appartenente al palazzo è anche la colonna del Diavolo, colonna di epoca romana posta in piazza Sant'Ambrogio a Milano di fronte alla basilica di Sant'Ambrogio, che è anche conosciuta con il nome di "colonna imperiale".

(foto di Giovanni Dallorto)

Tempio di Minerva ad Assisi (Umbria)

 


Il cosiddetto tempio di Minerva, di arte augustea, sorge ad Assisi (Asisium), in piazza del Comune, dedicato probabilmente ad Ercole ed eretto nel 30 a.C.. Fu trasformato in chiesa di Santa Maria sopra Minerva nel XVI secolo, con il relativo campanile, chiamato "Torre del Popolo". Risulta essere tra i templi romani meglio conservati del mondo antico.
L'edificio appartiene alla tipologia del tempio prostilo corinzio "in antis" (con pronao delimitato lateralmente dal prolungamento delle pareti della cella), con colonne scanalate poggianti su alti plinti quadrangolari, trabeazione e frontone.
Il nome deriva da un'interpretazione posteriore, dovuta al ritrovamento di una statua femminile; è stata invece rinvenuta una lapide votiva dedicata ad Ercole.
Il tempio fu edificato per volere di due dei quattuorviri (massimi magistrati cittadini), Gneo Cestio e Tito Cesio Prisco, che furono anche i finanziatori del progetto.
Nell'alto medioevo, la cella fu trasformata nella chiesa di San Donato, poi degradata a "casalino", per passare poi all'ordine benedettino che vi ricavò abitazioni e botteghe. Nel XIII secolo fu adattata a sede del comune, che destinò il piano inferiore a sede carceraria, deputando quello superiore ad aula del consiglio cittadino.
Nel 1539 il papa Paolo III volle far trasformare il suo interno in chiesa cattolica dedicata alla Vergine. L'edificio venne quindi rimaneggiato poi in stile barocco nel XVII secolo.
Durante il suo viaggio in Italia, il 25 ottobre 1786 il poeta Goethe giunse ad Assisi e volle visitare soltanto il tempio di Minerva.
Il tempio conserva la facciata, che in origine si affacciava su una piazza identificata come la piazza del foro romano, spiccando su un podio rialzato. Restano sei colonne con basi attiche, fusti scanalati e capitelli corinzi (foto a sinistra), poggiate su piedistalli che interrompono la scalinata di accesso. Si conserva anche la trabeazione con il fregio, che in antico recava un'iscrizione con lettere di bronzo, delle quali restano i fori di fissaggio, e con la cornice con mensole e il frontone, di dimensioni proporzionalmente ridotte.
La cella è andata completamente distrutta durante la costruzione della chiesa nel XVI secolo.
Recentemente è stato riscoperto un breve tratto del tempio vicino all'altare, con un arco murato. Il piccolo tratto non è più stato coperto ed è tuttora visibile. Sono emerse inoltre parte dell'antica pavimentazione romana e il grande muro di terrazzamento posteriore. Dal cortile dell'edificio attiguo risulta visibile il fianco sinistro dell'edificio templare e, al fondo, il muro di sostegno del terrapieno.

Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...