sabato 5 ottobre 2024

Museo Nazionale Jatta di Ruvo di Puglia (Puglia)

 

Il Museo Nazionale Jatta di Ruvo di Puglia fu costituito in alcune stanze del Palazzo Jatta e rappresenta l'unico esemplare in Italia di collezione privata ottocentesca rimasta tuttora inalterata dalla concezione museografica originaria. I reperti conservati nel museo furono raccolti dall'archeologo Giovanni Jatta nei primi anni dell'Ottocento, successivamente venne arricchita dall'omonimo nipote e venne ceduta allo Stato nel 1993.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale della Puglia, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
Dal 2021 al 2023 il Museo è stato soggetto di restauro, che l'ha riportato alla sua conformazione originale. Il restauro ha previsto il rinnovo dell'impianto elettrico, il restoro delle stanze e dei piedistalli delle opere. Durante il restauro, il museo è rimasto aperto gratuitamente con una mostra chiamata "Collezionauta", allestita nel Grottone di Palazzo Jatta, ovvero un'antica cantina del Palazzo nata con lo scopo di ripostiglio. La mostra Collezionauta prevedeva la mostra di alcuni dei maggiori vasi di epoca magna-greca e di oggetti personali del XIX secolo, appartenuti ai membri della famiglia Jatta.
L'anno 1822 portò Ruvo di Puglia sulla bocca di tutti i cittadini del Regno delle Due Sicilie. Come ricorda Giovanni Jatta junior: «Non più in città si veniva per provvedersi di viveri; perocché i venditori di pane, vino e camangiari, albergati sotto piccole tende, fornivano il necessario nella campagna medesima
La scoperta fortuita nel 1820 del patrimonio vascolare presente nel sottosuolo scatenò una vera e propria caccia al tesoro e tutta Ruvo fu messa a soqquadro non tanto con l'interesse di costituire un museo o di ricavare informazioni storicamente utili, ma con l'intento di vendere i pezzi pregiati al fine di un personale tornaconto. Due anni dopo si verificò il boom degli scavi e anche i primi intellettuali cominciarono ad interessarsi ai reperti. Oltre ai saccheggi dell'antica necropoli e al mercato sorto attorno alle anticaglie, alcune famiglie nobili ruvesi, quali Caputi, Fenicia, Jatta, Lojodice e altri, istituirono dei musei privati. Tuttavia tutte queste famiglie, ad eccezione degli Jatta, hanno poi disperso il loro patrimonio archeologico vendendolo ai privati e spesso all'estero, determinando così una dispersione delle ricchezze storiche rubastine. L'eccezione fu rappresentata dagli Jatta, soprattutto da Giovanni Jatta senior, magistrato presso il foro di Napoli, il quale finanziò vari scavi privati con l'intento di allargare la sua piccola collezione, per lo più composta da monete. Aiutato dal fratello Giulio, nel 1844, anno di morte di Giovanni Jatta la raccolta contava circa cinquecento reperti. L'erede di questo ingente patrimonio fu il nipote Giovannino, figlio di Giulio Jatta e Giulia Viesti, tuttavia nel testamento il giureconsulto aveva ordinato all'erede di cedere le ricchezze al Re dell'epoca in modo da conservarle nel Museo Archeologico di Napoli. 
Ma a Giovannino, essendo ancora troppo piccolo, subentrò sua madre Giulia che, morto anche il marito, decise di chiedere al Governo Reale di lasciare la collezione Jatta a Ruvo in modo da essere esposta in un edificio adibito ad abitazione e museo. Nel 1848 il re acconsentì alle richieste della signora Viesti. Con la maggiore età di Giovanni Jatta junior, la collezione era già passata ai duemila esemplari e toccò proprio a lui sistemare tutti i reperti nelle quattro stanze predisposte per il museo e in una quinta dedicata a monili e monete: la disposizione stanza per stanza dei reperti è giunta intatta fino a noi. Nei secoli successivi si aggiunsero alcuni pezzi scoperti e rinvenuti da Antonio Jatta. Nel 1991, la collezione privata Jatta fu acquistata dallo Stato con un indennizzo alla famiglia di 9 miliardi di lire dovuto alle spese sostenute dalla famiglia negli anni per la cura del patrimonio.
Il museo è tutt'oggi disposto secondo il volere dei fondatori ed è diviso in quattro sale ma fino ai primi del Novecento le sale erano ben cinque. La quinta sala conteneva un ricco medagliere, rubato nel 1915 e non più ritrovato.
I reperti inoltre sono disposti in ordine di importanza infatti la prima sala ospita delle terrecotte mentre l'ultima ospita il pezzo più importante e famoso, il vaso di Talos. Nel 1993 con decreto ministeriale il Museo Jatta è stato dichiarato nazionale, mentre l'11 giugno dello stesso anno il Museo è stato riaperto al pubblico. Alle sale si accede tramite l'antico portone di legno presente nell'atrio.
Prima sala

Nella prima sala è posta un'iscrizione in latino che ricorda i fondatori del Museo. Principalmente sono presenti vasi in terracotta con decorazioni geometriche e risalenti all'età peuceta del VII e VI secolo a.C.. Al centro della stanza trova posto un gigantesco orcio ricomposto ed un tempo utilizzato per la raccolta dei liquidi alimentari. Sotto la grande finestra è stato ricostruito un sarcofago in tufo con all'interno dei reperti non verniciati. Accanto al sarcofago sono poste due iscrizioni incise su lastre sepolcrali di età romana risalenti al II secolo: la prima raccoglie la dedica dei coniugi Marcus Licinius Hermogenes e Licinia Charite al figlio morto all'età di sette anni; la seconda iscrizione riporta la dedica di Julia Eutaxia per il marito.
Nelle vetrine adiacenti sono conservati resti frammentari di decorazioni architettoniche, statuette dette oranti per la posizione delle braccia, una lunga serie di utensili e di statuette di divinità. Destano curiosità i tintinnabula, animaletti in ceramica contenenti un sassolino ed utilizzati dai più piccoli come giocattoli.
Seconda sala

La seconda sala, la più grande, contiene circa 700 vasi di produzione greca o locale. I vasi sono stati creati con la tecnica delle figure rosse, ovvero immagini rosse su sfondo nero. All'ingresso della sala è possibile ammirare un grande cratere a mascheroni del IV secolo a.C. rappresentante Apollo nell'atto di scagliare le frecce contro i Niobidi, opera del pittore di Baltimora. Il vaso è fiancheggiato da due anfore dello stesso periodo ma opera del pittore Licurgo: la prima reca le scene di Eracle nel tempio con Antigone e Creonte e della lotta tra amazzoni e guerrieri attorno ad Eracle; la seconda invece la consegna delle armi ad Achille da parte delle Nereidi. Degno di nota è il cratere attico a campana raffigurante l'ascesa di Eracle all'Olimpo.
Le vetrine disposte tutt'intorno custodiscono una grande varietà di reperti che vanno da anfore e vasi di sempre minori dimensioni ad oggetti di uso funebre e quotidiano. Inoltre in questa stanza è conservato un'iscrizione latina che ricorda la costruzione delle mura della Rubi romana.
Terza sala

Nella terza sala, contenente oltre quattrocento pezzi, spicca il bianco del busto marmoreo di Giovanni Jatta junior al quale si deve la fondazione del Museo. Il primo vaso collocato è un cratere protoitaliota a volute del IV secolo a.C. sul quale sono rappresentati Cicno ed è inoltre ripresa la biga di Ares con un'interessante prospettiva frontale. Su di un altro cratere protoitaliota è invece raffigurato Bellerofonte su Pegaso affiancato da Atena e Poseidone, opera del ceramografo chiamato pittore di Ruvo. Un terzo cratere di Licurgo riporta ben tre scene: il giardino delle Esperidi sulla facciata anteriorie; un sacrificio ad Apollo sul posteriore; Eracle contro il toro ed un rito dionisiaco sul collo del vaso. Su una colonna mozzata è inoltre presente un ulteriore cratere a volute su cui è dipinto il mito di Fineo ed è opera del pittore Amykos. Altri crateri posti sulle colonne raffigurano Teseo e Piritoo puniti da Minosse e il ratto delle Leucippidi.
Nelle vetrine sono conservati un gran numero di rhyta, bicchieri con forma di teste umane o animali, tra cui alcuni attici e alcuni appuli. È inoltre presente una pelike che rappresenta l'incontro tra Paride ed Elena mediato da Venere, un kantharos con figura di anziano barbuto e un askos.
Quarta sala
La quarta sala, nonostante sia la più piccola, raccoglie i reperti più preziosi, duecentosettanta circa. Anche qui è presente un busto marmoreo ma qui è raffigurato Giovanni Jatta senior in toga. È conservato un pelike che riprende il mito delle Nereidi e due esemplari di lebete. Sono inoltre presenti due crateri a volute di cui uno rappresenta Bellerofonte nell'atto di leggere la sua condanna a morte ed un altro sul quale è dipinta una corsa di quadrighe.
Nelle vetrine sono conservati rhyta bifacciali ma anche collane e balsamari in pasta vitrea. Importante è anche la kylix con figura di giovane nudo. Accanto è posto un lekythos raffigurante la gara di canto tra Tamiri e le Muse. La seconda vetrina raccoglie reperti del neolitico e dell'età del ferro. La terza ed ultima vetrina conserva opere di importazione corinzia databili tra il VII e il VI secolo a.C., come alcuni tipi di alabastron e ariballo.
Altri vasi custoditi sono del tipo a figure nere e dunque appartenenti alla prima fase della ceramica attica, quali l'oinochoe rappresentante Eracle contro il leone Nermeo e Teseo che rincorre il Minotauro. L'ultima ceramica, la più pregiata, è il vaso di Talos (nella foto) opera del cosiddetto pittore di Talos. Il Museo e la stessa città di Ruvo devono la loro fama a questo vaso considerato uno dei più importanti capolavori ceramografici attici per via delle innovazioni artistiche presenti come le ricerche coloristiche e prospettiche del V secolo a.C.. Sul vaso è dipinto l'episodio narrato da Apollonio Rodio nelle Argonautiche riguardo all'uccisione di Talos da parte di Medea, sostenuto morente dalle braccia di Castore e Polluce. Nella stanza inoltre ci sono oggetti di metallo e parti di armature.
Grottone
Il Grottone di Palazzo Jatta nasce originariamente, all'interno del Palazzo, come ripostiglio. Durante il restauro del Museo, avvenuto tra il 2021 e il 2023 che ha riportato le quattro sale alla loro conformazione originale, rinnovando gli impianti elettrici e il restauro delle sale e dei piedistalli delle opere, il Grottone è stato ripulito, rinnovato, e ha aperto le sue porte al pubblico per la prima volta nella storia del Palazzo, per ospitare la mostra provvisoria di Collezionauta, mostra che prevedeva la vista di alcuni dei vasi più eccellenti già precedentemente esposti nell'originale Museo, e di moltissimi pezzi ed oggetti personali appartenuti ai membri della famiglia Jatta durante il XIX secolo.
Alla riapertura delle quattro originali stanze del Museo, il Grottone è rimasto comunque visitabile, con l'intento di ospitare collezioni esclusive nel corso del tempo ed eventi per i visitatori. 


Forme ceramiche greche: XXXIV, Olla

 
Nella cultura dell'antica Roma , l' 
olla ( latino arcaico : aula o aulla ; greco : χύτρα , chytra ) è un vaso o vaso tozzo e arrotondato. Un'olla verrebbe utilizzata principalmente per cucinare o conservare il cibo, quindi la parola " olla " è ancora usata in alcune lingue romanze sia per una pentola che per un piatto nel senso di cucina . Nella tipologia della ceramica romana antica , l' olla è un vaso caratterizzato dalla "pancia" arrotondata, tipicamente senza o piccole anse o talvolta con volute all'orlo, e realizzato in ambito romano; il termine olla può essere utilizzato anche per esempi etruschi e gallici , o per ceramiche greche rinvenute in ambiente italiano .
Nell'antica religione romana , le ollae (plurale) hanno uso e significato rituali, anche come urne cinerarie .  Nello studio dell'arte e della cultura gallo-romana , un'olla è il piccolo vaso portato da Sucellus , dal dio del maglio spesso identificato con lui, o da altri dei.
Olla è una parola generica per indicare una pentola, come quella usata per verdure, porridge, legumi e simili.  Lo studioso del I secolo a.C. Varrone fornisce un'etimologia "assurda" che fa derivare la parola per verdure, olera oholera , da olla ; anche se per una questione di linguistica scientifica la derivazione può essere errata, indica che la cucina era considerata essenziale alla funzione della pentola. Isidoro di Siviglia disse che la parola olla derivava da ebullit , "ribolle", e descrive una patera come un'olla con i lati appiattiti più ampiamente. Era una parola di uso comune e non appare nelle opere letterarie di Virgilio , Orazio e Ovidio .
A differenza dell'aenum o calderone, che pendeva sul fuoco tramite catene, l' olla aveva il fondo piatto per appoggiarla su una superficie calda, ma nella cucina rustica poteva anche essere posta direttamente su ceppi o carboni.  La cucina ricostruita presso la Casa dei Vettii da Pompei mostra una grande olla appoggiata su un treppiede sul fornello. 
Le ollae furono utilizzate per scopi funerari fin dai tempi più antichi. Nelle inumazioni italiche , le ollae potevano essere poste insieme al corpo nella tomba come corredo funebre , a volte con un mestolo o un mestolo. Una tomba proveniente da una necropoli del VII secolo a.C. a Civita Castellana ha restituito un'olla decorata con una coppia di cavalli e un'iscrizione falisca . Dal III secolo a.C. ( Mezza Repubblica ) al II secolo d.C. dell'era imperiale , la cremazione era il mezzo più caratteristico per lo smaltimento di un corpo tra i romani. Ollae spostò la sua funzione per contenere resti cremati per la sepoltura, una pratica delle sepolture etrusche e italiche. I resti di quelli di mezzi modesti potrebbero essere contenuti in ollae di terracotta poste sui ripiani di un ollarium o colombario .
Dopo l'esecuzione di un sacrificio animale , una porzione designata delle interiora ( exta ) veniva posta in un'olla e bollita, oppure anticamente allo spiedo e arrostita, come parte della "cucina" del sacrificio. Gli exta erano il fegato, la bile, i polmoni e la membrana che ricopriva l'intestino della vittima , con il cuore aggiunto dopo il 275 a.C. L' olla era uno degli strumenti caratteristici del sacrificio e appare nei rilievi come tale, in particolare nelle province galliche . Il vaso è menzionato, ad esempio, nel racconto di Tito Livio di un segno (prodigium) che manifestava il dispiacere divino: lo stesso funzionario che presiedeva al sacrificio versava dall'olla il liquido di cottura per ispezionare le interiora rimanenti, che erano intatti tranne il fegato misteriosamente liquefatto.
Ollae figurava nei rituali dei Fratelli Arval , i "Fratelli dei Campi" che costituivano un collegio sacerdotale risalente al periodo arcaico di Roma. Gli exta delle vittime utilizzati nei loro sacrifici venivano posti in un'olla e cotti. Esempi di questi vasi di terracotta sono stati scoperti dagli archeologi nei boschi sacri degli Arvals. La loro tecnica rudimentale suggerisce la grande antichità delle tradizioni religiose ad essi associate. Dopo aver celebrato i loro riti, i sacerdoti Arval aprirono la porta del tempio e gettarono le ollae lungo il pendio che conduce ad esso.
Il nome del dio dei boschi Silvano appare nelle iscrizioni della provincia della Gallia Narbonense con rappresentazioni di un maglio, di un'olla o di entrambi. Il maglio non è un attributo regolare di Silvanus e potrebbe essere preso in prestito dal dio celtico del maglio talvolta identificato con Sucellus .


Forme ceramiche greche: XXXIII, Mastos

Un mastos (greco, μαστός, "seno"; plurale mastoi ) è un antico recipiente per bere greco a forma di seno di donna. Il tipo è anche chiamato coppa parabolica e presenta esempi paralleli in vetro o argento.  Gli esempi sono principalmente nella tecnica a figure nere o su fondo bianco ,  sebbene i primi esempi possano essere a figure rosse .  Un mastos ha tipicamente due maniglie e un "capezzolo" nella parte inferiore, anche se alcuni esempi hanno invece un piede come base. Una coppa mastoidea è conica, ma con fondo piatto, con o senza manici. 
I manici di un mastos possono essere accoppiati orizzontalmente, ma possono anche essere disposti con uno orizzontale e uno verticale come il manico di una tazza . Il manico verticale avrebbe facilitato il bere dal recipiente relativamente profondo, in contrasto con la kylix più poco profonda . Avere un manico ruotato con un'angolazione diversa potrebbe anche essere stato un dispositivo per appendere la tazza quando aveva la base appuntita. 
In alcuni contesti archeologici la forma a mammella della coppa suggerisce funzioni rituali. Mastoi e rappresentazioni votive di seni si trovano come offerte ( vota ) nei santuari di divinità come Diana ed Ercole , entrambi i quali nell'antica religione romana avevano funzioni relative alla nascita, all'allattamento e all'allevamento dei bambini . Le dediche venivano talvolta fatte da balie. La coppa a forma di seno può avere un significato religioso; il consumo del latte materno da parte di un adulto anziano o in procinto di morire simboleggiava la potenziale rinascita nell'aldilà. Nella tradizione etrusca , la dea Giunone ( Uni ) offre il suo seno ad Ercole come segno che può entrare nel rango degli immortali. 


Nella foto:
Masto a figure nere , ca. 530 a.C., con scene di combattimento ( Walters Art Museum )

Forme ceramiche greche: XXXII, Lydion


Il
 lydion (greco λύδιον; plurale lydia ) era un'antica forma di vaso greco. La forma potrebbe essere di derivazione egiziana. 
Come indica il nome, il lydion è originario della Lidia , ma fu adottato anche dai vasai in Grecia. Un piccolo contenitore sferico per profumi, privo di maniglie, era particolarmente popolare nella Grecia orientale . La nave poggiava su un piede stretto, relativamente alto, di forma cilindrica o conica. Il collo potrebbe essere di varia lunghezza; incontrava il corpo ad angolo acuto. Il labbro era orizzontale. Di solito il lydion era decorato con strisce. Ad Atene veniva prodotto solo raramente; la decorazione figurata era ancora più rara.


Nella foto:
 Lydion a figure nere con decorazione a strisce, 2a metà del VI secolo a.C. Trovato a Gela , ora Museo archeologico regionale di Palermo .

venerdì 4 ottobre 2024

Forme ceramiche greche: XXXI, Kothon

 
Il kothon era una meno frequente forma di coppa, con basso corpo rigonfio e orlo rientrante, dotata di un'unica ansa ad anello affiancata da due sporgenze. In alcuni casi appare privo di ansa e con piede su corto stelo. Con lo stesso nome si indica in archeologia anche una forma vascolare tipica della civiltà picena, con il quale il kothon greco non va confuso; il vaso piceno, denominato kothon o cothon in forma strettamente convenzionale, era caratterizzato da piccole dimensioni, da corpo globulare e schiacciato, da una sola ansa, rialzata, e da un orlo fortemente rientrante che dà origine ad una bocca assai ristretta.

Forme ceramiche greche: XXX, Epichysis

 

L'epichysis è una brocca di forma particolare: presenta il corpo cilindrico, con pareti più o meno concave, con piede ampio e sporgente. Il passaggio tra pancia e spalla è segnato da una sporgenza ad anello. Al di sopra presenta uno stretto collo allungato, con beccuccio ad imboccatura sottile e un'ansa a nastro rialzata. Si trova in particolare nella ceramica italiota.

Forme ceramiche greche: XXIX, Kylik

 


La kylix (κύλιξ, plurale κύλικες, kýlikes) è una coppa da vino in ceramica, il cui uso, nell'antica Grecia, è attestato a partire dal VI secolo a.C.
Tipico manufatto dei corredi simposiaci, coppa da libagione e da bevuta e oggetto d'intrattenimento ludico nel kottabos, raggiunse il massimo della diffusione a partire dalla fine del VI secolo rimanendo in auge fino al IV secolo a.C., quando il kantharos, l'elegante calice a volute dei rituali dionisiaci, ne prese il posto quale coppa da vino più diffusa.
Il nome attribuitole era sicuramente pertinente all'oggetto già all'epoca del suo utilizzo. Conferma ne viene da alcuni esemplari recanti incisioni come, ad esempio, quello conservato al British Museum (inv. B450), al di sotto della cui base può leggersi un'iscrizione che recita pressappoco: «Io sono la kylix dipinta dell'amabile Philto».
La kylix aveva corpo espanso e poco profondo, sostenuto da un piede in genere con alto stelo. Per l'impugnatura era provvista di due piccole anse impostate poco sotto l'orlo e spesso quasi orizzontali.
All'interno, il fondo, tendenzialmente piano, si presenta spesso decorato da scene, raffigurazioni o decorazioni: queste, occultate dal vino depositato sul fondo, si rendevano gradualmente visibili solo durante l'atto del bere. I soggetti raffigurati erano quindi molto spesso concepiti in funzione di questo effetto.
Tipologie 
La descrizione generale si attaglia a definire la kylix nella sua tipicità, ma occorre tenere presente che sono attestate, nelle kylikes ritrovate, diverse varianti morfologiche e pittoriche, cronologicamente abbastanza definite, a testimoniare l'evoluzione dell'oggetto. Gli studiosi generalmente tendono a classificarle entro quattro diverse tipologie:
La prima tipologia, di tipo attico, attestata dal 600 a.C. fino a circa il 525 a.C., si evolve da prototipi corinzi. Il corpo è separato dal labbro e dallo stelo. Quest'ultimo, tendenzialmente breve, subisce una graduale evoluzione, passando dalla forma cortissima dei prototipi corinzi per arrivare a forme più snelle.
Le tre tipologie più recenti sono denominate con le tre lettere A, B e C. Nell'ambito della tipologia più antica la terminologia è più varia e corrisponde a quattro diversi tipi principali con diversi sottotipi. Lo schema dei vari tipi è pressappoco il seguente:

I tipologia

  • Coppa dei comasti

  • Coppa di Siana

    • Decorazione Overlap

    • Decorazione Double decker

  • Coppe di Gordion

  • Coppa dei Piccoli maestri (Kleinmasterschale)

    • Lip Cups

      • Kassel Cup

    • Band Cups

    • Droops Cups o di Antidoros

II Coppa A

    • Coppa ad occhioni (Eye-cups)

III Coppa B

IV Coppa C


Descrizione e individuazione delle varie tipologie.
Coppa dei comasti
(600-575 a.C. circa)
Questo primo tipo di coppa attica a figure nere, evolutasi, come detto, da prototipi corinzi, deve il suo nome al soggetto prevalente sulle pareti esterne dell'invaso, caratterizzato da scene di danze orgiastiche (kòmos), per le quali la ceramografia attica si mostra chiaramente debitrice a motivi corinzi. Presenta un labbro svasato, stretto e poco pronunciato, ma nettamente angolato rispetto al corpo che, dal canto suo, poggia su un corto stelo dal piede svasato; le anse sono poste appena sotto il labbro in posizione quasi orizzontale. L'ornamento floreale presso le anse non ha alcun antecedente corinzio, la decorazione attica riguarda unicamente le pareti esterne, mentre la coppa corinzia ha spesso all'interno un gorgoneion. Sulle pareti il fregio inferiore, più in evidenza, contiene le scene figurative mentre il registro superiore, coincidente con l'orlo svasato, è decorato con motivi calligrafici (reti e rosette incise).
Coppa di Siana
(575-550 a.C. circa)
Il nome deriva dall'omonima località dell'isola di Rodi, sito di rinvenimento di due esemplari (British Museum B379 e B380, quest'ultima attribuita al Pittore C).
Il labbro si presenta ancora svasato e nettamente spiccato dal corpo ma, rispetto al precedente, occupa una fascia visibilmente più larga. Anche lo stelo appare più lungo, snello e slanciato. La decorazione è sempre a figure nere, ma, a differenza del tipo precedente, interessa anche l'interno della coppa, dove è presente un tondo figurato all'interno di uno spesso bordo decorativo. Lo stile decorativo riflette il perfezionamento della tecnica a figure nere e dell'incisione: i ceramografi attici tendono ad abbandonare, non solo nelle kylikes ma in tutte le forme vascolari, la monumentalità decorativa protoattica prediligendo ed esercitando con disinvoltura una resa più miniaturistica. Il tipo detto di Siana si evolverà nelle due successive tipologie dette di Gordion e dei Piccoli Maestri. Si distinguono facilmente due tipologie decorative.
Decorazione Overlap

Nel tipo decorativo detto overlap la decorazione esterna è unica e invade anche il bordo.
Decorazione Double decker
In questa variante la decorazione si presenta invece scandita, come nel tipo dei comasti, in due fasce sovrapposte (double decker): il registro inferiore presenta scene figurative mentre quello superiore esibisce motivi calligrafici, perlopiù floreali.
Coppe di Gordion (ca. 560 a.C.)
La disinvolta maturità tecnica e artistica raggiunta dai maestri attici, di cui si già è detto, si accompagna a una nuova consapevolezza degli esiti artistici raggiunti. Segno ne è l'abitudine di firmare le proprie creazioni, secondo un uso che diventerà ancor più frequente in seguito soprattutto quando, nell'Atene democratica del dopo Pisistrato, maturerà la percezione di un accresciuto ruolo sociale. Proprio grazie a questa tendenza ci è possibile attribuire alcune innovazioni plastiche e pittoriche ad artisti di cui siamo in grado di pronunciare anche il nome.
L'invenzione di questa nuova tipologia, ad esempio, è possibile attribuirla ad Ergotimos e Kleitias, gli stessi artefici del celebre vaso François, i cui nomi sono incisi su un esemplare proveniente da Gordion, in Frigia, località da cui discende il nome attribuito. L'eleganza rigorosa di Kleitias si evidenzia nella semplice ma raffinata composizione circolare di tre delfini ed un pesce, presente sul tondo interno.
Come è possibile vedere, questa coppa è una via di mezzo tra il tipo precedente di Siana e quelli successivo della serie dei Piccoli Maestri. Da notare che il labbro del calice mostra ancora una discontinuità con il profilo dell'invaso, ma ora non è più svasato bensì convesso. La convessità del labbro sparirà nella successiva serie dei Piccoli Maestri, per riapparire con i tipi A e B. Come nelle successive Band-cups, la vernice nera che ricopre la coppa risparmia solo una banda su cui è collocata la decorazione; i fregi sono ancora più miniaturistici e ridotti di quelli delle coppe di Siana.
Coppe dei Piccoli Maestri (550-525 a.C.)
Il nome Piccoli Maestri (Kleinmeister) è stato attribuito da studiosi di scuola tedesca riferendosi allo spiccato gusto miniaturistico elaborato dei maestri ceramografi attici, che le dipinsero utilizzando con consapevole maestria la tecnica a figure nere. Si presentano con lo stelo più slanciato e si caratterizzano, in genere, per l'assenza del tondo interno decorato. Si distinguono due tipi principali, Lip-Cups (con il sottotipo Kassel-Cups) e Band-Cups. Esiste poi un terzo tipo, più raro, detto Droop-Cups, dal nome dello studioso che per primo le ha classificate.
Lip cup

Le lip cup, così denominate dalla presenza di un labbro dal profilo ancora distinguibile dall'invaso, offrono generalmente una miglior qualità pittorica. La campitura in vernice nera interessa sia il piede che la parte bassa dell'invaso. La fascia orizzontale risparmiata dalla vernice, tra le due anse, è scandita orizzontalmente da una risega sottolineata da una linea sottile tracciata un po' al disopra delle anse. Al di sopra di questa si sviluppa una decorazione consistente in una raffigurazione animale o in una figura umana. Al di sotto è dipinta un'iscrizione, spesso l'unica pittura della coppa, che si distende tra due piccole palmette presenti alla giunzione delle anse. La scrittura, resa in una grafia misurata, con caratteri minuti e accurati, rivela la sua natura decorativa.
Kassel cup
Esemplari più piccoli di questo tipo sono classificati con il nome di Kassel cup
Band Cups

Le band cups, quasi completamente verniciate di nero, si caratterizzano per presenza di una banda orizzontale risparmiata fra le due anse, come negli esempi di Gordion, ma anche, a differenza di tutte le precedenti tipologie, per l'assenza del labbro rialzato il cui profilo è ora privo di qualsiasi discontinuità con il corpo, come nelle prime due tipologie immediatamente successive (coppe A e B). Il fregio riporta spesso un'iscrizione o una decorazione e, occasionalmente, raffigurazioni o animali in configurazioni antitetiche. Il tondo centrale è figurato o dipinto a cerchi concentrici.
Droop Cups
(550 - 510 a.C.)
Le Droop-Cups (o di Antidoros), raramente rinvenute, sono datate intorno alla seconda metà del VI secolo a.C. e devono il nome allo studioso che vi focalizzo l'attenzione. In esse il gusto calligrafico e miniaturistico dei Piccoli Maestri si esprime in decorazioni ancora più sviluppate fondendosi a soluzioni decorative di tipo laconico, quali il tondo interno decorato a motivi concentrici e la divisione in fasce dello stelo.
Ci troveremmo di fronte, secondo gli studiosi, ad oggetti che testimoniano un'interpretazione laconica del gusto attico dovuta alla intenzione dei maestri spartani di affermarsi sul mercato ateniese, oppure dell'opera di maestri laconici operanti nella manifattura ateniese. La decorazione di queste coppe sembra spesso provenire da una cerchia specializzata di artisti dediti unicamente a questo tipo, ma non mancano contributi di altri maestri non specialisti di questi vasi, oltre che, anche se raramente, figure di artisti come Exekias, Nikosthenes e il Pittore di Amasis.
Coppa A (525-500 a.C. circa)
Nella classificazione di John Beazley, l'ultimo quarto del VI secolo a.C. vede il differenziarsi di tre forme principali. Nella coppa di tipo A, il corpo è largo e poco profondo, il labbro non è più svasato e il suo profilo prolunga senza alcuna discontinuità il disegno del corpo. Lo stelo è più corto e nettamente separato dall'invaso, con la linea di giunzione evidenziata da un anello prominente.
Eye-cups

Al tipo A appartiene la maggior parte delle coppe a occhioni, originariamente a figure nere, così chiamate per la frequente presenza della raffigurazione «ad occhioni», una simbologia che, nella sua tipicità, doveva avere una presumibile funzione apotropaica.
I più antichi esemplari rinvenuti sembrano indicare in Exekias, vasaio e ceramografo, l'invenzione sia della forma A che della decorazione ad occhioni che servirà da modello anche nella successiva fase a figure rosse. Exekias si produrrà in esiti ancor più originali riuscendo ad adattare perfino al ristretto spazio della fascia tra le anse la grandiosità austera dei suoi epici ed eroici combattimenti,[5] e a trasformare il tondo interno in un'ampia e distesa espressione pittorica, il cui culmine può essere considerato il celeberrimo dipinto della solitaria navigazione di Dioniso in un mare solcato dai delfini, uno dei temi della narrazione dionisiaca.
Coppa B
(510-500 a.C. circa)
La coppa di tipo B è la tipica coppa a figure rosse; ha un disegno più delicato del precedente, si presenta con un invaso ancora poco profondo ma con uno stelo più slanciato e sottile. Si caratterizza per il profilo continuo, dal labbro, che come nel tipo A è convesso e privo di discontinuità con l'invaso, fino allo stelo e al piede, dove è interrotto solo da un basso scalino.
La paternità della tipologia, nell'ultima decade del secolo, sembrerebbe da attribuirsi al pittore della bottega di Amasis, con tecnica a figure nere: la firma del vasaio Amasis è infatti presente su molti esemplari. La sua diffusione è comunque legata soprattutto alla tecnica a figure rosse. Questa forma continuerà ad essere prodotta fino alla metà del IV secolo a.C.
Coppa C

Nella coppa di tipo C, più rara delle precedenti, si assiste al ritorno del labbro distinto e svasato rispetto al corpo, anche se il passaggio dall'invaso concavo al labbro convesso è privo di quelle discontinuità presenti nelle coppe precedenti al tipo A. La giunzione tra la parte inferiore dello stelo e il piede è ora marcata da un anello prominente. Il bordo riservato del piede si distingue nettamente dalla superiore superficie piana. Coppe di questo tipo sono attestate ad Atene intorno al 525 a.C., con decorazione esclusivamente a figure rosse, e continueranno ad essere popolari fino al secondo quarto del IV secolo a.C.

Forme ceramiche greche: XXVIII, Rhytòn

 

Il rhytòn (plurale rhytà) è un contenitore forato dal quale i liquidi che vi venivano versati potevano fuoriuscire per essere bevuti, o versati in cerimonie come la libagione. I rhytà erano molto comuni nell'antica Persia, dove erano chiamati takūk. La parola occidentale rhytòn è la traslitterazione dell'antico greco ῥυτόν.
Dopo la vittoria greca sugli invasori persiani nel 479 a.C. molti beni di lusso inclusi numerosi rhytà furono portati ad Atene come bottino e furono immediatamente imitati dagli artisti greci.
La parola si pensa provenga dal greco rhein, "scorrere", che a sua volta deriverebbe dall'indoeuropeo *sreu-, "flusso", e significherebbe perciò "che versa". Molti vasi considerati rhytà erano caratterizzati da un'ampia apertura superiore e da un foro da cui il liquido scorreva. Si riempiva il rhyton, con vino o altri liquidi, tenendo chiuso il foro con un dito e lo si stappava poi lasciando il fluido scorrere in bocca (o per terra nel caso della libagione), allo stesso modo in cui si può bere da un otre.
Smith mise in evidenza che questo uso era attestato nei dipinti classici ed accettò l'etimologia di Ateneo per cui esso fu denominato apo tes
rhyseos, "dalla corrente". Smith ipotizzò che il nome rhyton fosse una denominazione recente di un vaso precedentemente chiamato keras, "corno", nel senso di corno potorio. La parola rhyton non è presente nel greco miceneo, scritto in Lineare B, ma un rhyton a testa di toro viene menzionato come kera-a nell'inventario dei vasi a Cnosso.Si sono conservati molti esemplari cretesi.
Non si può supporre che ogni corno per bere o vaso per libagione fosse forato in basso, specialmente nella fase preistorica della forma. La funzione di attingitoio sarebbe venuta prima. Una volta che i fori ad una delle estremità iniziarono ad apparire, comunque, ispirarono interpretazioni zoomorfe e
decorazioni plastiche nella forma di teste di animali, con il fluido che scorreva dal beccuccio come da un muso bovino, equino, di cervo e anche canino.
I rhytà si trovano tra i reperti di varie civiltà, appartenenti al Vicino Oriente o prossime ad esso, come l'altopiano iranico dal secondo millennio a.C. in avanti. Essi sono spesso conformati come teste animali o a forma di corno e possono essere molto decorati, con metalli e pietre preziose. Nella Creta minoica, le teste di toro in oro e in argento con aperture per permettere al vino di scorrere dalla bocca del toro sembrano essere particolarmente comuni, e molte sono state recuperate dai grandi palazzi.
Non tutti i rhytà erano così costosi: molti erano semplici tazze coniche in ceramica decorate sobriamente.
Rhytà realizzati in lamina d'oro a sbalzo di particolare bellezza sono stati ritrovati in Bulgaria negli ultimi decenni. In particolare, il Tesoro di Panagjurište, scoperto nel 1949 a 2 km a sud dell'omonima città. I reperti sono stati datati tra la fine del IV e l'inizio del
III secolo a.C. e provengono dalle regioni in quel tempo abitate dai Traci Odrisi e dai Geti. Il tesoro fu sepolto probabilmente per evitare che fosse trafugato da invasori Macedoni o Celti. Si ritiene che possa essere appartenuto al re trace Seute III.
La ceramica ateniese classica a figure rosse era decorata con temi tratti dalla mitologia. Un tema standard della raffigurazione erano i satiri i quali, muniti di otri e rhytà, simboleggiavano trivialità. I rhytà a forma di corno si trovano frequentemente rappresentati nelle composizioni unitamente agli organi sessuali eretti dei satiri, ma questo tema vistosamente erotico e talvolta umoristico sembra essere stato uno sviluppo tardo, in linea con il gusto ateniese, quale viene espresso nelle commedie di Aristofane. I rhyta decorati e preziosi delle civiltà antecedenti sono lussuosi piuttosto che licenziosi.
La connessione dei satiri con il vino e i rhytà fu ripresa in seguito da Nonno di Panopoli (V sec. d.C.) nelle Dionisiache, dove è descritta la scoperta
della fabbricazione del vino da parte dei satiri
"... il succo rosso del frutto ribolle fuori con schiuma bianca. Essi lo raccolgono con corni di bue, invece che in tazze (ancora mai viste), cosicché, dopo, la tazza per miscelare il vino prese questo nome divino di 'corno per vino'."
Karl Kerenyi, nel citare questo passaggio, sottolineò: "Al centro di questo mito riccamente elaborato, in cui anche il poeta richiama il rhytà, non è facile separare gli elementi cretesi da quelli originatisi in Asia Minore."


Nelle foto, dall'alto:
Rhyton a forma di testa di mulo, Atene V secolo a.C.
Rhyton a forma di testa di montone, Puglia IV secolo a.C., Antikensammlung Kiel
Rhyton a forma di testa di cane, Atene V secolo a.C.
Rhyton a forma di testa di cerbiatto, Atene V secolo a.C., Museo archeologico nazionale delle Marche
Rhyton a forma di testa di ariete, forse da Nola,circa 470-460 a.C., Petit Palais
Rhyton a forma di testa di cane, 330-320 a.C.

Forme ceramiche greche: XXVII, Pixis

 

Con il termine pyxis (ΠΥΞΙΣ, plurale pyxides), o pisside, si indica una piccola scatola cilindrica in ceramica, dotata di coperchio, con un diametro medio di 10 cm, che veniva utilizzata nella Grecia antica per contenere profumi, gioielli o unguenti medicinali; in base alle decorazioni vascolari sembra fosse un oggetto di uso prevalentemente femminile. È possibile che in antichità il termine fosse largamente applicato ad oggetti in materiali diversi, mentre il nome usato in ambito attico per la pyxis era probabilmente kylichnis (pl. kylichnides).
Dalla forma protogeometrica, globulare e con piede basso, derivarono nel geometrico antico due varianti, una con fondo a punta, che non sopravvisse al IX secolo a.C., e una a fondo piatto. Quest'ultima si sviluppò in larghezza e venne decorata con una elaborata maniglia nella parte superiore del coperchio. A Corinto dalla fine dell'VIII secolo a.C. si produceva una pyxis con pareti verticali, ma dal VII si preferì una forma a pareti concave che ad Atene divenne, con molte varianti, la più diffusa fino al IV secolo a.C.
Testimoniata da esemplari decorati sia a figure nere sia a figure rosse è la tipologia caratterizzata da un corpo a pareti verticali con coperchio dotato di pareti ugualmente alte che si sovrappongono a quelle del corpo (tipo B). La tipologia con alte pareti concave, piede ad anello talvolta suddiviso in tre o quattro sezioni e coperchio piatto con impugnatura al centro (tipo A), inizia a diffondersi nel VII secolo a.C. e diviene la forma più diffusa fino al IV secolo a.C. Due forme presenti solo nel periodo delle figure rosse sono il tipo C (fine V e IV secolo a.C.) con basse pareti concave, corpo allargato e coperchio convesso, e il tipo D che è molto simile al B, ma con coperchio privo delle alte pareti verticali.
La pyxis nicostenica è una forma inventata nella bottega del ceramista Nicostene: ha coperchio a cupola con impugnatura, corpo a forma di campana rovesciata impostata su un corto stelo e un piede svasato. La tripod-pyxis, diffusa solo nel periodo delle figure nere ha il coperchio simile alla precedente, ma corpo a ciotola impostato su tre gambe ampie e piatte.






Nelle foto, dall'alto:
Pixis con le nozze di Teti e Peleo, Pittore dei Matrimoni, Louvre
Pixis ateniese a fondo bianco di tipo A con Menadi, V secolo a.C., Pittore di Sotheby
Pixis etrusca ad imitazione di modelli corinzi, Necropoli della Banditaccia, Tomba 2, 700-670 a.C.


Forme ceramiche greche: XXVI, Skyphos

 

Lo skyphos (in greco: σκύφος, skyphos, plurale skyphoi, noto in italiano anche come scifo) è un tipo di vaso greco, una profonda coppa per bere con due piccole anse, solitamente orizzontali, impostate appena sotto l'orlo; il piede è basso o del tutto assente.
In base alla fonti letterarie sembra sia possibile che in antichità il termine venisse utilizzato in modo simile alla nomenclatura moderna. Frequentemente viene utilizzato anche il termine kotyle (plurale kotylai - dal greco κοτύλη), che designava in antichità una coppa in senso e di forma generica. Il kotyle era anche un'antica unità di volume.
La forma dello skyphos varia nel tempo, a partire dal protogeometrico, e secondo gli ambiti di produzione. La forma base si stabilizza con lo skyphos corinzio del VII secolo a.C., caratterizzato da pareti sottili, orlo curvato verso l'interno, anse piccole e piede ad anello. Da alcuni esemplari tardo geometrici dotati di invaso più ampio si sviluppa la tipologia greco-orientale della coppa a uccelli. In ambito attico lo skyphos assume pareti leggermente più spesse, con anse robuste e piede a toro. 
Una seconda tipologia frequente nelle figure rosse attiche, e spesso decorata con una civetta, è quella recante anse di forma diversa, una verticale e una orizzontale, con invaso più affusolato nella parte inferiore e con piede più piccolo. La forma chiamata cup-skyphos è dotata delle caratteristiche principali dello skyphos, ma con anse che piegano verso l'alto e orlo leggermente convesso come nelle kylikes.
Celebre forma vascolare della letteratura greca, è infatti il vaso da cui Polifemo beve il latte nel libro IX dell'Odissea.


Nelle foto, dall'alto:
Skyphos corinzio, 625-600 a.C., Louvre
Skyphos etrusco conVittoria alata, Museo archeologico di Firenze
Skyphos attico di tipo B, Museo archeologico di Antalya

Forme ceramiche greche: XXV, Lekythos

 
La lekythos (in greco antico λήκυθος), in italiano lecito (/ˈlɛ:ʧito/), è un vaso dal corpo allungato, stretto collo con un'unica ansa e ampio orlo svasato. Era utilizzato nella Grecia antica e nelle zone magno-greche per conservare e versare olio profumato e unguenti, era impiegato dagli atleti, nelle cerimonie funebri e come segnacolo sepolcrale. La principale funzione del vaso, conservazione e aspersione di olio, ha determinato l'evolversi e lo stabilizzarsi della forma, dotata di collo stretto che limita la fuoriuscita del contenuto e orlo adatto ad impedirne lo spreco. Il termine era impiegato in antichità per ogni tipologia vascolare destinata a questo stesso uso, compreso l'ariballo, la distinzione tra le forme è una convenzione della nomenclatura moderna.
La forma vascolare comparve alla fine dell'epoca micenea e venne utilizzata ancora dai ceramisti italioti nel III secolo a.C.
La lekythos protogeometrica venne sostituita in epoca geometrica dalla oinochoe globulare, ma ricomparve in Attica all'inizio del VI secolo a.C. in due forme distinte, una simile alla forma corinzia detta "lekythos ariballica" per la somiglianza con il corpo globulare dell'ariballo, la seconda forse derivata dall'alabastron corinzio, con corpo ovale e anello plastico intorno al collo (detta Deianeira). La spalla, a partire dalla metà del VI secolo a.C., esattamente come accadde ad altre forme vascolari come l'hydria e l'anfora a collo distinto, si distinse dal corpo
assumendo un andamento orizzontale e leggermente concavo. Questa forma si sviluppò fino ad assumere la conformazione standard della lekythos alla fine del secolo, con orlo evidente e a forma di calice, corpo cilindrico e piede a echino rovesciato: la lekythos che, nella seconda metà del V secolo a.C. venne adottata per le lekythoi a fondo bianco a destinazione funeraria. Questa tipologia era frequentemente dotata di una piccola camera interna che permetteva l'utilizzo di una piccola quantità di olio, quella sufficiente per una offerta funeraria. Nel periodo delle figure rosse venne prodotta (a partire dalla fine del VI secolo a.C., ma popolare solo alla fine del V e all'inizio del IV) una nuova versione della lekythos ariballica (squat lekythos), dove tornò la modanatura ad anello a separare il collo dalla spalla.
In funzione di segnacoli sepolcrali furono usati spesso semplici vasi fittili e poi, nella seconda metà del V secolo a.C., marmorei. Tra le testimonianze più antiche vi sono i grandi vasi di stile geometrico (VIII secolo a.C.) rinvenuti nel cimitero del Dipylon ad Atene. Questa consuetudine vede la sua maggiore diffusione tra VI e IV secolo a.C., continuando nel mondo
greco fino all'età imperiale romana. Tra le forme più utilizzate vi erano proprio la lekythos e la loutrophòros; quest'ultima era un alto vaso a due anse usato per contenere acqua, in particolare quella del bagno nuziale, che distingueva le tombe degli adolescenti morti prima delle nozze. In conseguenza del prevalente uso funerario, furono eseguite anche lekythoi in marmo, con rilievi, che venivano deposte sulle tombe.
Questi piccoli flaconi di forma cilindrica a collo stretto si moltiplicarono a partire dalla metà del V secolo a.C. Disegnate in un primo momento al tratto su fondo avorio, si arricchirono progressivamente di colori vivi. Per S. Karouzou si trattò dei più nobili prodotti dell'arte greca, per le loro forme stabili e slanciate, per la qualità del disegno e per l'intensità emotiva che riuscirono ad esprimere i personaggi rappresentati su di esse. Il Museo
Archeologico Nazionale di Atene possiede la collezione più ricca al mondo di lekythoi.
Lo stile delle lekythoi si suddivide convenzionalmente in quattro fasi:
- la prima fase di transizione fra stile a figure nere e stile a figure rosse
- la cosiddetta fase a vernice nera.
- la fase dell'età di Pericle (450-430 a.C.)
- la fase finale (430-400 a.C.)
I pittori anonimi che le hanno decorate vengono designati con il nome della loro opera più nota o di una particolarità stilistica che li contraddistinse. Tra i più importanti si annoverano:
- il Pittore di Achille, che fu considerato uno dei più abili e fini decoratori della metà del V secolo a.C. Il suo nome deriva da una delle sue migliori opere, l'anfora del Vaticano su cui è rappresentato Achille.
- il Pittore di Charon.
- il Pittore del canneto, attivo nell'ultimo quarto del V secolo a.C., più giovane degli altri, attorno al cui lavoro sono state riunite le ventidue lekythoi del Gruppo R (Reed group, o Gruppo del canneto).








Nelle foto, dall'alto in basso:
- Lekythos di forma standard.
- Lekythos della variante a profilo continuo detta Deianeira.
- Lekythos ariballica (squat lekythos). Louvre CA1727.
- Lekythos funeraria in marmo. Louvre Ma3403.
- Lekythos a fondo bianco. British Museum Vase D56. 


Forme ceramiche greche: XXIV, Askos

 

L'askos o asco (greco antico - tubo; plurale - askoi) è un'antica forma greca di vaso usata per versare piccole quantità di liquidi oleosi, utilizzata come unguentario o per riempire le lampade ad olio. 
Il nome col quale in epoca moderna si designa tale forma è convenzionale, esso era originariamente usato per gli otri da vino in pelle d'animale, come se ne vedono spesso sulle rappresentazioni vascolari a tema dionisiaco, e viene usato in epoca moderna per designare questa forma vascolare in base alla somiglianza morfologica.
L'uso è diffuso in Grecia e in Italia già in epoca preistorica e perdurante fino al periodo classico ed ellenistico.
Una tipologia di askos ha la forma piatta e tonda, più larga che alta, e per un tubo (collo) con beccuccio, impostato a una o a entrambe le estremità, collegato all'ansa leggermente arcuata che si estende lungo tutta la parte superiore, da un beccuccio all'altro o da un'estremità del corpo al beccuccio sull'estremità opposta. La caratteristica forma del collo lo rende adatto a trattenere la fuoriuscita dei liquidi oleosi. Sono in genere variamente ornati con decorazioni geometriche e figurate, frequenti sia a figure rosse, sia a vernice nera.
Ne esistono varianti plastiche zoomorfe o antropomorfe bifronti di stile teatrale, realizzate in ceramica od in bronzo. Di questa tipologia un esemplare è conservato nei Musei Vaticani, ricorda le maschere del Teatro Kabuki tradizionale giapponese. una variante di dimensioni maggiori e con corpo profondo a forma di uccello è frequente nella ceramica italiota, e in quella apula in particolare; gli askoi canosini, ancora più grandi, derivano da una tipologia indigena presente nella ceramica daunia.
Altri particolari esemplari provengono dal territorio di Crotone: si tratta di un askos in bronzo datato al 540-530 a.C. proveniente dalla chora meridionale di Kroton in territorio di Cutro, e di un secondo askos in bronzo, proveniente dalla loc. Murge di Strongoli, entrambi di raffinata fattura e raffiguranti delle sirene, le figure mitologico-religiose greche dal corpo di uccello e la testa di donna; l'impugnatura è un kouros (giovane) portato sulle spalle della sirena, e rappresenta un defunto trasportato dalla sirena; provengono infatti da contesti funerari a corredo di tombe: si pensava infatti che le sirene stazionavano alle porte degli Inferi con il compito di consolare le anime dei defunti con il loro dolce canto e di accompagnarle nell'Ade.




Nelle foto, dall'alto:
Askos greco-attico (insolitamente grande) a figure rosse, 410-420 a.C., con Pegaso e una chimera, Louvre
Askos, Museo del LOuvre, Parigi
Askos a forma di uccello, bicromo, arcaico cipriota inizi VII secolo a.C., Kanellopoulos Museum, Atene
Krotn in bronzo, 540-530 a.C., Museo archeologico nazionale, Crotone
Askos etrusco a forma di gallo, Metropolitan Museum of Art, New York


Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...