domenica 31 dicembre 2023

Complesso delle Mura di Santo Stefano (Lazio)

 

Il complesso delle Mura di Santo Stefano è una villa romana che si trova nel territorio del comune di Anguillara Sabazia, in provincia di Roma.
Era situata lungo la via Clodia, a circa 3 km a sud di Anguillara, e venne edificata alla fine del II secolo d.C., probabilmente su precedenti strutture di una villa rustica risalente al I secolo.
Si conservano per circa 18 m di altezza, i resti di un edificio su tre piani, in cementizio con rivestimento in laterizio. Sono presenti aperture ad arco verso l'esterno, inquadrate da un ordine di lesene realizzate sempre in laterizi gialli e rossi. All'interno l'edificio presenta un cortile centrale a pilastri e i tre piani coperti con volte a crociera oggi scomparse. I corridoi coperti laterali conservano tracce di rivestimento marmoreo sulle pareti.
Nelle vicinanze si conserva inoltre una cisterna.
In epoca medievale fu forse sede di una domusculta. Nel IX secolo l'edificio venne utilizzato come chiesa dedicata a Santo Stefano: a questa fase appartiene il resto di un'abside costruita in opera listata insolitamente regolare .
All'XI secolo risale la sepoltura di circa 90 individui, rinvenuta negli scavi. Il convento venne soppresso da papa Pio II.
Nel XVI secolo le strutture furono oggetto di attenzione da parte di Andrea Palladio e di Pirro Ligorio.
Alla metà dell'Ottocento la struttura venne utilizzata come cimitero in concomitanza con le epidemie di malaria.
Tra il 1977 e il 1981 vi furono condotti scavi archeologici ad opera della Scuola britannica.

Castrum Inui, Ardea (Lazio)

 

Castrum Inui è il nome romano di un sito archeologico situato alla foce del fiume Incastro, sulla costa laziale tirrenica, nel territorio del comune di Ardea. Alla foce del fiume Incastro, emissario del lago di Nemi, nel corso di una serie di campagne di scavo condotte dalla Soprintendenza ai beni archeologici del Lazio a partire dal 1998 e fortemente volute anche dalle associazioni locali sono stati rinvenuti i resti di strutture portuali, di un centro fortificato di epoca romana e di una vasta area sacra precedente.
Il porto e la fortezza romana sono stati identificati con Castrum Inui, citato nell'Eneide di Virgilio, che sarebbe stato fondato da Latino Silvio, figlio di Ascanio e nipote di Enea e il cui nome deriverebbe dal dio Inuus (Inuo), una divinità laziale dei boschi e dell'inizio delle cose, assimilata al dio Fauno.
Gli scavi, diretti dall'archeologo Francesco Di Mario, responsabile di zona della Soprintendenza, hanno riportato in luce le strutture del centro portuale fortificato, in attività dal IV-III secolo a.C. fino al III secolo d.C., tra cui una serie di magazzini, un'area artigianale e un impianto termale con pavimenti a mosaico e pareti affrescate.
Le strutture più recenti, costruite in vari tipi di muratura (opera reticolata, opera mista, opera laterizia) si sovrappongono in parte ad altre più antiche in opera quadrata di blocchi di tufo.
Si ritiene che in epoca romana sia stata realizzata la fortificazione di un insediamento precedente ritenuto ancora strategicamente rilevante oppure importante da un punto di vista religioso in quanto collegato ai luoghi della fondazione di Roma.
Sono stati inoltre riportati alla luce la porta del castrum, i resti di un molo del porto, con materiali del IV-III secolo a.C., alcuni di origine punico-siciliana, una cisterna di notevoli dimensioni, ed un'area sacra di consistente estensione, includente tre templi, due are ed una seconda cisterna.
Per quanto riguarda gli edifici di culto si segnala un sacello dedicato ad Esculapio (I secolo d.C.), preceduto da altare in marmo, e ubicato al di sopra della più antica delle due cisterne, nelle immediate vicinanze vi è un grande tempio (denominato Tempio B) che sembra risalire nella sua prima fase al VI secolo a.C. ed è preceduto da una scalinata volta in direzione dei due altari in peperino (datati nella prima metà del III secolo a.C.), quindi un terzo tempio in tufo a cella unica (denominato tempio A), con scalinata a cinque gradini, rivolta verso le are in peperino, preceduto da un'area pavimentata, dove è collocato l'altare ed una struttura cubica in travertino ancora da interpretare, per la quale si ipotizza una funzione di thesaurus monumentale. Questo piccolo santuario, datato provvisoriamente al III secolo a.C. fu in uso fino al II secolo d.C. per essere in seguito riutilizzato per attività produttive.
L'area sacra, solo parzialmente indagata, sembra essere stata di notevoli dimensioni e si è ipotizzato che si tratti, nel suo complesso, dell'Aphrodisium, santuario internazionale dedicato ad Afrodite marina e citato da Plinio il Vecchio tra Ardea e Antium.
Gli scavi archeologici hanno potuto accertare la divinità venerata solo per il sacello di Esculapio, nel quale è stata rinvenuta una statua del dio, per quanto riguarda il tempio A ed il tempio B, invece, non è stato possibile ipotizzare culti specifici, sebbene le decorazioni architettoniche rinvenute mostrino la ricorrente presenza della dea Minerva. È stata scoperta anche una statua raffigurante uno dei dioscuri (datata al II secolo d.C.), tuttavia si trovava all'interno di una vasca, probabilmente parte di una fullonica, pertanto non attribuibile ad un tempio in modo specifico.
Secondo la leggenda Castrum Inui fu fondata da Latino Silvio, figlio di Ascanio e nipote di Enea, 1300 anni prima di Cristo. Gli autori antichi raccontano dell'esistenza, nel tratto costiero tra le attuali città di Anzio e Pomezia, di un insediamento denominato Castrum Inui, fortificato, posto sotto la protezione del dio Inuo e di un importante santuario internazionale noto come Aphrodisium, dedicato a Venere Afrodite, dea dell'amore e della fertilità nata dal mare e madre di Inuo-Priapo. Una "fortezza d'Inuo" è citata anche nel VI canto dell'Eneide. Altre fonti antiche parlano di Castrum Inui come città portuale, poi abbandonata in epoca imperiale per una qualche insalubrità dei luoghi. Il Nibby, nel secolo scorso, vide la villa Priapi, assimilabile al luogo chiamato "Priapo" in Ardea, noto ai biografi pontifici, per aver dato i natali a papa Leone V.
Molte sono state le ipotesi sinora avanzate, e diverse le proposte di identificazione e localizzazione di questi antichi luoghi. I dati di scavo del sito del Fosso dell'Incastro, e soprattutto il rinvenimento di un insediamento fortificato, permettono di proporre l'identificazione del sito con il Castrum Inui di cui hanno scritto autori e storici antichi.
L'antica Castrum Inui era dunque ubicata alle foci del fiume Incastro, emissario del lago di Nemi, luogo sacro ove approdò Danae, principessa argiva fondatrice di Ardea. Inuo, dal verbo ineo pertinente la penetrazione, la fecondazione, era considerato l'equivalente di Priapo, spesso assimilato a Pan, Lyceo, Lupercus, Dionisio e Fauno. Era figlio di Venere e di Giove, protettore della fertilità dei campi. In realtà Inuus è una divinità di cui abbiamo scarne informazioni da Servio (Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, 1, 775) e da Livio (Ab Urbe Condita, I, 5, 2), che lo descrivono come un dio legato al mondo pastorale e assimilabile, appunto, con Pan, Fauno, Incubo ed altri.
In un brano dei Saturnali di Macrobio (I Saturnali, 22, 2-7) è invece presentata una visione diversa della divinità, che viene identificata con il sole e come dio della materia, ipotesi in linea con quanto riportato da Dionigi di Alicarnasso sul punto delle coste laziali in cui Enea sarebbe approdato e sbarcato, un luogo che era sacro al dio Sole. I risultati dei recenti scavi, insieme alla rilettura del brano di Macrobio, hanno portato il direttore degli scavi, dr Francesco Di Mario, ad ipotizzare una possibile identità fra Castrum Inui e l'Aphrodisium: come se fossero due modi diversi in cui, in epoche differenti, gli antichi avessero nominato il medesimo luogo.





Fèrento (Lazio)



Fèrento (in latino Ferentium) è un'antica città etrusca, romana e medievale nelle vicinanze di Viterbo, sulla strada Teverina verso la valle del Tevere.
Dalla città provenivano diverse famiglie famose, tra cui quella dell'imperatore romano Otone e Flavia Domitilla, moglie dell'imperatore Vespasiano.
La città sorgeva sull'altura di Pianicara, dove potrebbero essersi insediati gli abitanti della vicina città etrusca di Acquarossa, distrutta da un terremoto o da città nemiche intorno al 550-500 a.C.. Il collegamento con la via Cassia era assicurato dalla via Publica Ferentiensis della quale sono conservati tratti del basolato.
Fu un ricco municipio romano dove le attività principali erano il commercio che si svolgeva tra la costa del Tirreno e la valle del Tevere, l'agricoltura, l'allevamento, nonché l'estrazione e lavorazione di tufo e peperino. Importante era la lavorazione e il commercio del ferro che era facile da reperire in grandi quantità e soprattutto in superficie, su gran parte del territorio circostante.
In età repubblicana, era sviluppata lungo il decumano massimo della via Ferentiensis, con una disposizione urbanistica ortogonale a cardi e decumani. Nel Liber coloniarum e in un passo dei Gromatici veteres risalente al 123 a.C. si trova la prima menzione della città, in riferimento alla deduzione di una colonia o forse alla spartizione di alcuni terreni demaniali. Dopo la guerra sociale, nel I secolo a.C., divenne municipium.
Nella prima età imperiale, Ferento raggiunse il suo massimo splendore: infatti risale a questo periodo la costruzione dei più importanti edifici pubblici, come il teatro, il foro (non ancora scavato), le terme, l'anfiteatro (a nord-est rispetto all'abitato), una fontana contornata da numerose statue e l'augusteo. Lo splendore proseguì anche nel secolo successivo e fu definita "civitas splendidissima", come è scritto in un'epigrafe di marmo rinvenuta nei pressi della città.
Tra gli abitanti di Ferento, spiccano alcuni nomi illustri, tra cui Salvio Otone, imperatore per pochi mesi nel 69, e Flavia Domitilla Maggiore, moglie dell'imperatore Vespasiano e madre di Tito e Domiziano.
Dal III secolo le notizie su Ferento si fanno più rare. Dal Liber pontificalis si evince che in quel periodo in città si praticava il culto per sant'Eutizio, morto nei pressi di Soriano nel Cimino durante le persecuzioni messe in atto dall'imperatore Aureliano nel 269. La città viene citata nel IV secolo all'epoca dell'imperatore Costantino, e altre menzioni sono sotto i papi Silvestro (314-355) e Damaso (366-384), nei Tituli constituiti.
Fino alla metà del VII secolo Ferento è stata una diocesi, di cui il primo vescovo dovrebbe essere stato san Dionisio nel III secolo. Informazioni più precise si hanno invece dei vescovi Massimino nel 487, Bonifacio (probabilmente 519-530), Redento (567-568), Marziano (595-601) e Bonito (649).
Nel VI e VII secolo, durante la guerra gotica e le guerre tra Bizantini e Longobardi, la città di Ferento non fu risparmiata, come gran parte dei centri dell'Etruria meridionale. La popolazione subì un forte calo demografico e si ritirò a ovest dell'antica città, cercando di fortificare la zona con delle recinzioni murarie, circoscrivendo un'area di circa 30000 m².
Anche la sede vescovile venne spostata nel VII secolo da Ferento a Bomarzo, che si trovava in una più favorevole posizione per il controllo della valle del Tevere. I Longobardi, nel riassetto dei confini della Tuscia, divisero il territorio ferentano in tre diocesi diverse: Bagnoregio, Bomarzo e Tuscania.
Il re longobardo Liutprando nel 740 lasciò la città di Ferento e si spostò in Umbria dove nei pressi della Cascata delle Marmore fondò un piccolo borgo, al quale diede poi il nome di Ferentillo in ricordo della città lasciata.
Nel 787-788 Carlo Magno consegnò Ferento a papa Adriano I, a seguito della Promissio donationis del 744 di Pipino il Breve.
Nel 940 Ferento risulta far parte di una circoscrizione amministrativa nominata Comitato ferentensis.
Dei secoli XI e XII non si hanno molte notizie, sebbene alcuni documenti facciano pensare che Ferento si fosse organizzata come comune autonomo, riprendendo a crescere economicamente e di importanza. L'abitato si è certamente ripopolato allargandosi ad est del Teatro, dentro una nuova cinta muraria che delimitava circa 70000 m²; fu costruita una torre di guardia all'interno del teatro romano, e sotto le sue arcate furono sistemate varie botteghe artigiane.
Nel XVI secolo sorse lungo la strada principale un piccolo sobborgo che prese il nome di "borgus Ferenti", divenuto poi Borgo di Ferento.
La distruzione della città ad opera della vicina Viterbo, allora in grande espansione nella Tuscia, è oggetto di diverse leggende e ipotesi.
Il declino e la successiva distruzione della città di Ferento, sembrano essere scaturiti da un episodio del 1169 che alcune cronache riportano con una certa confusione, infatti sembrerebbe che i Ferentani avessero chiesto a Viterbo un aiuto per la lotta contro la città di Nepi (ma si parla anche del contrario). Tuttavia mentre l'esercito viterbese attendeva gli alleati sui Monti Cimini, i ferentani, arrivati davanti alle mura di Viterbo, si fecero aprire la porta Sonsa e misero la città a sacco. La popolazione impaurita si rifugiò presso la chiesa di Santa Cristina e l'arciprete, venuto a conoscenza dell'accaduto partì subito a cavallo verso i soldati viterbesi i quali, appresa la notizia presero subito a rincorrere i ferentani già sulla via del ritorno. Arrivati addosso al nemico, i viterbesi scatenarono una feroce carneficina che non risparmiò nessuno e tanti furono i morti sparsi in quel luogo, che prese il nome di "Carnajola" o "Carnaio". Una leggenda dice che da quel giorno, le acque del fosso sottostante iniziarono a depositare sul fondo una scia rossa, dovuta al sangue dei ferentani morti (in realtà le acque contengono materiale ferroso che imprime alle rocce una colorazione rossastra). Questa versione dei fatti, è quella chi ci viene tramandata dai viterbesi, senza nessuna documentazione che possa darci una controversione ferentana, certo è che i viterbesi, erano determinati ad avere il totale controllo del territorio e dovevano a tutti i costi togliersi di mezzo la città di Ferento, che posta in quella zona così strategica, non poteva che essere sottomessa.
Un'altra versione dei fatti, che invece si tramanda a Grotte Santo Stefano, dice che i viterbesi, usarono il pretesto dell'aiuto per la lotta contro Nepi, semplicemente per far uscire l'esercito ferentano dalla città e quando questo giunse allo scoperto, i viterbesi scatenarono l'attacco che portò alla carneficina, in quel luogo che come già detto prese il nome di "Carnajola".
Nel 1170, Viterbo attaccò Ferento e dopo averla saccheggiata, la diede alle fiamme. Dopo questo assalto Ferento, fortemente indebolita, fu costretta a giurare sottomissione a Viterbo nel 1171. Alla fine dello stesso anno la popolazione tuttavia si rivoltò e Viterbo, con l'aiuto della vicina Celleno reagì duramente: la notte del 1º gennaio 1172, con il favore del buio e con il pretesto di eresia, l'esercito viterbese alleato con i cellenesi, attaccò a sorpresa la città addormentata, uccise uomini, donne, vecchi e bambini e finito il massacro, appiccò il fuoco distrugendo tutto.
I viterbesi risparmiarono alcuni ferentani di nobili famiglie e li concentrarono a Viterbo presso la zona di San Faustino, mentre altri ferentani che si salvarono dalla strage, perché erano fuori della città e guardare le greggi (nelle fredde notti invernali, erano frequenti gli attacchi dei lupi), si allontanarono dirigendosi verso la valle del Tevere. Lungo il percorso, trovarono riparo in alcune grotte di origine etrusca, presso le quali si stabilirono definitivamente, usandole come abitazioni, dando così origine a Grotte Santo Stefano.
I viterbesi fin dal 1158 si erano alleati all'imperatore Federico I detto il Barbarossa e avevano scatenato molte guerre nei confronti di vari castelli della Tuscia, senza però avere il consenso dell'imperatore, che mise così la città al bando. Il bando venne tuttavia tolto nel 1174 e Cristiano, arcivescovo di Magonza assicurò la non riedificazione di Ferento, riassegnando il territorio di quest'ultima al contado di Viterbo. Tutti i possedimenti delle due più ricche chiese di Ferento, San Bonifacio e San Gemini, furono poi assegnati nel 1202 alle chiese viterbesi, Santo Stefano e San Matteo in Sonza.
Il simbolo della città di Ferento, era una palma e quello di Viterbo un leone, e per evidenziare l'annientamento della città rivale, i viterbesi aggiunsero la palma al leone dando origine allo stemma comunale viterbese che ancora oggi è così rappresentato.
Negli statuti comunali viterbesi degli anni 1237-38 e 1251-52 erano previste sanzioni gravissime per chiunque avesse tentato di ripopolare la città di Ferento, vietando persino ogni tipo di coltivazione e addirittura, nello statuto del 1251-52, era prevista la totale distruzione del teatro e di tutto ciò che c'era intorno, che però non venne attuata.
A cavallo del XIV e XV secolo, le rovine di Ferento, furono utilizzate dagli eserciti di passaggio per accamparsi e nonostante papa Martino V avesse incaricato Cristoforo D'Andrea di Siena di riedificare e ripopolare il sito, i viterbesi, riuscirono nuovamente ad impedirlo.
Il "re archeologo" Gustavo VI Adolfo di Svezia per diversi anni lavorò per riportare alla luce i resti della città, sia di età romana che medioevale. Oggi gli scavi sono affidati alle campagne promosse dall'Università della Tuscia, ma solo una piccola parte dell'abitato è stato scavato ed è visitabile, mentre altre aree sono state indagate e ricoperte, tra cui l'area del foro sopra il quale sorge un'azienda agricola.
I reperti più significativi sono esposti nel Museo nazionale etrusco Rocca Albornoz a Viterbo, in particolare alcune statue in marmo raffiguranti i personaggi della tragedia e della commedia greco-romana che presumibilmente erano posizionate nel frontescena del teatro, oltre a una piccola ricostruzione in legno del teatro romano.

Grotte dell'Arco, Bellegra (Lazio)


Le Grotte dell'Arco si sono originate da un emissario sotterraneo proveniente dalla valle del Pantano, dove esisteva un lago prosciugato nel 1911. Per lo sviluppo in lunghezza e per l'ampiezza di alcune grandi sale, rappresentano una delle più importanti manifestazioni carsiche ipogee presenti nella Regione Lazio.
Le Grotte dell'Arco sono lunghe quasi 1.000 m. ed estese per 34 ettari
Sono denominate “Grotte dell'Arco” perché ad una trentina di metri più a valle della sua entrata, si trova un arco naturale di pietra.
Le Grotte dell'Arco sono ricche di stalattiti, stalagmiti, inghiottitoi e camere per l'osservazione della fauna di grotta in particolare chirotteri, anfibi e ancora micro e mesofauna tipica di tale strutture.
Lo sviluppo morfologico di queste grotte è caratterizzato da una galleria di 940 metri di lunghezza, percorsa per gran parte dal deflusso idrico di una sorgente carsica emergente nella parte terminale interna della cavità, alimentata internamente verso monte da un sistema carsico secondario di reti di condotte principali e di fessurazioni minori secondarie.
Il torrente sotterraneo anticamente faceva da serbatoio di acqua per un mulino, detto nel dialetto locale “Mola”.
La Grotta si può suddividere in tre tratti : 1. iniziale; 2. mediano; 3 terminale.
Il tratto iniziale è composto da una prima galleria fangosa lunga 190 metri alta dai 7 ai 10 metri, e da una seconda galleria lunga circa 80 metri ed alta dai 12 ai 15 metri, facilmente attraversabili con una passerella.
Il tratto mediano è composto da una galleria lunga 150 metri, avente un'altezza media di 20 metri e tre saloni: il salone ciclopico, il salone titanico e la sala del duomo.
Il tratto terminale è composto dalla galleria dell'altarino e dalla galleria terminale, entrambi questi tratti sono visitabili esclusivamente da speleologi attrezzati.
Nel 1999 sono stati rinvenuti due gruppi di pitture rupestri (un gruppo di figure rosse ed uno a figura nera), attribuite al periodo eneolitico, e di resti paleontologici che arricchiscono l'importanza scientifica della grotta.

Principe ellenistico, Roma (Lazio)

 
Il cosiddetto principe ellenistico è una statua in bronzo conservata presso il Palazzo Massimo alle Terme (una delle sedi del Museo nazionale romano). Fu ritrovata, insieme al Pugilatore in riposo, su un versante del Quirinale, probabilmente nei resti delle Terme di Costantino nel 1885, durante i lavori di costruzione del Teatro Drammatico Nazionale; le due sculture, che a quanto pare furono seppellite in antichità con cura, non sono comunque correlate tra loro, appartenendo a due periodi differenti di esecuzione.
La scultura fu realizzata in bronzo con la tecnica detta "a cera persa". Gli occhi, ora perduti, erano inseriti separatamente. Probabilmente recava sul capo una corona o un diadema che si è perduto.
Rappresenta un giovane nudo, con un lieve velo di barba, in posa eroica; è appoggiato enfaticamente con la mano sinistra su una lunga asta, sul modello dell'Eracle del greco Lisippo. Il soggetto è di difficile attribuzione. Taluni studiosi hanno ritenuto che sia il ritratto di un principe ellenistico (Attalo II), altri di un generale romano (Tito Quinzio Flaminino, Quinto Cecilio Metello Macedonico, Publio Cornelio Scipione Emiliano).
Sulla base di nuove ricerche scientifiche e archeologiche, il Liebieghaus Polychromy Research Project ha creato una ricostruzione sperimentale che riproduce il cosiddetto “Principe ellenistico” e il cosiddetto “Pugile in riposo“ come elementi di un gruppo statuario. Questo gruppo mostra presumibilmente il Dioscuro Polluce e il re Amico, figlio di Poseidone, dopo il loro sanguinoso incontro di combattimento. Questa proposta di ricostruzione era già stata sviluppata nel 1945 da Phyllis Lehman Williams e Rhys Carpenter .

Tomba del Giocolieri, Tarquinia (Lazio)


La tomba del Giocolieri è una tomba etrusca ubicata nella necropoli dei Monterozzi, a Tarquinia. La tomba dei Giocolieri venne edificata intorno al 510 a.C.; venne ritrovata nel 1961 all'interno della necropoli dei Monterozzi.
Alla tomba si accede tramite un dromos a gradini: internamente è a camera unica di forma rettangolare con un tetto a doppio spiovente di colore bianco. Sulla parte di fondo, su una zoccolatura nera, è la rappresentazione dei giochi funebri, scena che dà il nome alla tomba: il defunto, sulla destra, è raffigurato seduto su uno sgabello, forse malato o perché un magistrato[3], nell'atto di osservare lo spettacolo eseguito da un'acrobata che lancia dei dischi verso un'equilibrista con in testa un candelabro, vestita con chitone e un suonatore di flauto e, come spettatori, un giovane nudo e due bambini. Sulla parte superiore, nel timpano, la raffigurazione di una pantera azzurra e un leone rosse che sorreggono il tetto. Sulla parete sinistra è affrescato un giovane nudo, un corridore, un anziano con barba e bastone sorretto da un giovane, due uccelli e un uomo che defeca caratterizzato dalla scritta “aranth heracanasa”, la cui interpretazione è dubbia, mentre sulla parete destra due coppie di danzatrici e un suonatore di siringa. Sul pavimento si notano gli incassi per il letto funebre.


Anfiteatro di Bleso, Tivoli (Lazio)

 


L'Anfiteatro di Bleso è un antico anfiteatro romano di Tivoli, risalente al II secolo dell'età imperiale; è situato all'interno del centro città e adiacente ad altri 2 complessi storico artistici quali la Rocca Pia e le Scuderie Estensi. Prima del suo ritrovamento, avvenuto nel 1948 durante dei lavori per realizzare un’arteria stradale che aprisse un collegamento tra due strade della città (largo Garibaldi e via dell'Inversata), le sue notizie erano già rintracciabili nei registri medievali delle abbazie di Farfa e Subiaco che parlavano di un "Fundum Amphiteatrum". La sua presenza, in questi documenti, fa intuire chiaramente l'importanza raggiunta in età imperiale da questa parte della città che si trovava al di fuori delle antiche mura repubblicane; inoltre la data di costruzione dell’anfiteatro è in linea con la consacrazione dei Ludi Gladiatori (giochi gladiatori) e una lapide datata nel 184 d.C. cita M. Lurius Lucretianus che avrebbe sostenuto finanziariamente un combattimento con uomini e belve ed in più un combattimento tra 20 gladiatori.
Prima della costruzione dell’anfiteatro pare che la zona fosse adibita alla fabbricazione di ceramiche, così come si evince dagli scavi avvenuti nel corso degli anni che hanno riportato alla luce diversi manufatti, in particolare calici, di ottima manifattura. Con l’avvento e la diffusione dei giochi gladiatori la zona venne riconvertita da tale M.T Blesus (dal quale l'anfiteatro prenderà il nome) che pare abbia contribuito alla costruzione con 200 giornate lavorative e 200.000 sesterzi.
Dai resti emersi fino ad oggi si è potuto ricostruire in parte quella che era l’antica struttura dell’anfiteatro, che risulta particolarmente ampia in quanto si presuppone fosse presente al suo interno anche una “Schola Gladiatorium”, anche se non vi è certezza storico- archeologica.
Urbanistica e materiali[modifica | modifica wikitesto]
L'anfiteatro è posto su un pendio collinare del quale sfrutta la pendenza, ma sfrutta anche il terrapieno che si ha dall'escavazione dell'area e da resti di strutture precedenti. Per questo si può classificare a metà tra gli anfiteatri a struttura piena e quelli a struttura canonica.
La forma risulta ovale con l’asse minore di 50 metri e il maggiore di 90. Intorno alla struttura principale vi sono delle semicolonne che sostenevano le gradinate, le quali erano sostenute anche da cunei poggiati su una grande ellisse e su un corridoio coperto da una volta a botte. Le gradinate potevano contenere fino a 2000 spettatori. L’arena misurava circa 61x41 metri e il suddetto corridoio si stagliava lungo i lati della stessa, con la quale comunicava presumibilmente con porte e/o finestre. Le entrate all'anfiteatro erano quattro, ma solo una delle due secondarie verrà realizzata.
La tecnica costruttiva per le opere murarie risulta essere l'opus mixtum, realizzata principalmente in tufo e travertino (di cui è ricca la zona), mentre il pavimento pare fosse composto da una miscellanea di malta e breccia.
Ad oggi si possono ammirare solo alcuni resti dell’anfiteatro, poiché esso venne semidistrutto per permettere la costruzione della Rocca Pia, voluta da Papa Pio II Piccolomini per proteggere la città dagli attacchi nemici. Successivamente questa zona fu riconvertita da Ippolito d’Este a parco di caccia e agli inizi del ‘600 usato come orto-giardino dal Cardinal Cesi.
Oggi l’anfiteatro non è visitabile e viene aperto solo per concerti, mostre, esposizioni cinematografiche o rievocazioni storiche; quest’ultime, grazie ad associazioni culturali del territorio (Villa Adriana Nostra) rimettono in scena combattimenti tra Ludi gladiatori di varie nazioni e una giuria di esperti decreta il vincitore: ciò permette di mantenere viva la memoria storica del territorio e non solo.


Marte di Todi (Lazio)

 
Il Marte di Todi è una statua etrusca, risalente al V-IV secolo a.C., che rappresenta il dio della guerra Marte, mentre pratica un rituale prima della battaglia. i tratta di una statua in bronzo, scoperta nel 1835, sepolta accanto alle mura del Convento di Montesanto, molto vicino alla città umbra di Todi, in provincia di Perugia. La zona ospitava un antico insediamento etrusco.
Come per molte sculture etrusche, non si conosce l'autore dell'opera. Dall'iscrizione dedicatoria si sa però che fu donata al tempio dedicato a Marte (divinità greco-etrusca) dal cittadino etrusco Ahal Trutitis.
La statua fu rinvenuta sepolta sotto lastre di travertino, e fu probabilmente raggiunta da un raggio di sole, che ne rivelò la presenza.
Attualmente è esposta a Roma nei Musei Vaticani (esattamente nel Museo Gregoriano Etrusco). La lancia di ferro non c'è più, mentre la coppa che il guerriero portava originariamente in mano è esposta a parte.

  • È una scultura etrusca, con influenze greche, fatta a somiglianza degli opliti greci.
  • Materiale: bronzo di fusione.
  • Altezza: 141 cm.
  • Reggeva una lancia con la mano sinistra e una tazza con la mano destra.
  • L'iscrizione dedicatoria Ahal Trutitis dunum dede ("Ahal Trutitis ha offerto in dono [questa statua]") fu incisa in lingua umbra e in alfabeto etrusco. Il nome Trutitis è probabilmente di origine celtica.
  • Portava un elmo (non trovato).
  • Originariamente, si appoggiava su un piedistallo (anche questo non rinvenuto).
  • Gli occhi erano lavorati in argento.

sabato 30 dicembre 2023

Abaceno (Sicilia)

 


Abaceno o Abacano (in latino: Abacaena o Abacaenum, in greco antico: Ἀβάκαινον o in greco antico: Ἀβάκαινα) era un'antica città della Sicilia.
La città, le cui origini sembra risalgano al periodo siculo, poi ellenizzata, sorgeva nel territorio dove Dionigi di Siracusa fondò la città di Tindari (396 a.C.), situata in prossimità dell'attuale cittadina di Tripi, comune italiano della città metropolitana di Messina, ove nel secolo XVI si scorgeva un largo campo di rovine antiche, in parte ancora esistenti.
In seguito alla progressiva colonizzazione greca della Sicilia anche Abacena si adattò alla nuova cultura ellenizzandosi. Partecipò assieme a tante altre città sicule alla sollevazione di Ducezio, ma in seguito alla sconfitta entrò nell' "Arcontato di Sicilia" di Dionisio I che aveva unificato sotto il proprio controllo, in una sorta di monarchia, tutta la Sicilia posta ad est del fiume Salso, inclusi pure molti centri abitati dai Siculi.. Durante questo periodo, ebbe una zecca con proprie emissioni monetali.
Diodoro Siculo scrive che il suo territorio venne in gran parte espropriato da Dionisio I, Tiranno di Siracusa, in seguito alla fondazione di Tyndaris avvenuta verso il 396 a.C., per lo stanziamento di soldati mercenari. In seguito a ciò la città decadde progressivamente, probabilmente a causa dell'espansione di Tindari, anche se era ancora in piedi nel II secolo d.C., dato che Claudio Tolomeo la cita nella sua opera Tetrabiblos (III, 4).
In seguito agli eventi della lotta tra Sesto Pompeo e Cesare Ottaviano (il futuro imperatore Augusto) Abaceno venne distrutta da quest'ultimo nel 36 a.C.
Testimonianze archeologiche suggeriscono che nella zona di Abaceno durante il medioevo ci fosse una qualche roccaforte montana di grande importanza strategica a causa dell'instabilità di alcuni periodi.
Esistono monete di Abacano sia in argento che in bronzo. Alcune presentano al rovescio un cinghiale e accompagnato, come simbolo da una ghianda, allusione, secondo Smith, alle foreste che circondavano la città durante la sua esistenza.


Cave del Mercadante, Capo d'Orlando (Sicilia)

 


Le "Cave del Mercadante" (o "Cava del Mercadante") – situate a Capo d'Orlando – si riferiscono ad una configurazione rocciosa che si estende per un centinaio di metri per una larghezza tra i 4-5 metri, sulla quale affiorano dischi in pietra, incisi da solchi circolari profondi una decina di centimetri, dal diametro di uno-due metri. 
Le Cave sono emerse durante gli scavi per la costruzione del porto in contrada Bagnoli, presso cui sorgono altri ritrovamenti significativi, tra cui delle terme Romane del III-IV sec. d.C.
Le prime ipotesi dell’uso del sito come una cava per la realizzazione di dischi in pietra, o “rocchi”, risalgono al 1987, in seguito alla rilevazione di indizi circa le diverse fasi di lavorazione dei manufatti: “segni circolari lavorati con scalpello, canali di scavo attorno all’anello completi ed incompleti […] vari piani di sfaldamento orizzontali tali da facilitare il distacco […] quando lo scavo del canale raggiungeva il piano di sfaldamento”. 
L’ipotesi più attendibile circa l'utilizzo dei manufatti circolari, è che potessero servire quali macine per mulini (per olio). Altre ipotesi meno accreditate suggeriscono che i dischi in pietra potessero servire come ornamenti per colonne, o ancoraggi per imbarcazioni.

Terme di Bagnoli, Capo d'Orlando (Sicilia)


Le terme di Bagnoli si trovano nell'omonima contrada nel territorio di Capo d'Orlando, nella città metropolitana di Messina.
Nel 1987 a Bagnoli diverse operazioni di scavo portarono alla luce i primi ruderi di una struttura termale, appartenente ad un'antica villa romana risalente al III-IV sec. d.C. Le terme costituite da otto vani sono state molto probabilmente danneggiate da due eventi sismici che colpirono la Sicilia tra il IV e il V sec.D.C.
Esse sono costituite da tre ambienti: frigidarium, tepidarium e il calidarium. Il frigidarium, il luogo del bagno freddo era costituito da tre stanze. Il tepidarium era l'ambiente tiepido intermedio che costituiva il passaggio dal frigidarium al calidarium. Quest'ultimo ambiente era costituito da due vani ed era utilizzato per il bagno caldo o a vapore. Gli ambienti erano resi caldi grazie a delle intercapedini ricavate sotto i pavimenti e lungo le pareti dentro cui circolava l'aria calda proveniente dal praefurnium, il locale fornace. Di notevole interesse artistico sono i mosaici policromi in tassellatum (tasselli in pietra e marmo) che decorano l'intera pavimentazione.
Gli studiosi, sulla scorta degli esiti delle operazioni di scavo, non hanno escluso la possibilità di riportare alla luce un intero centro abitato.

Villa romana di San Biagio, Terme Vigliatore (Sicilia)

 
La villa romana di San Biagio è una residenza extraurbana di epoca romana, aggregati d'edifici ubicati nella frazione omonima di Terme Vigliatore, comune italiano della città metropolitana di Messina.
La villa riportata alla luce negli anni cinquanta, è tra gli esempi più interessanti di villa di lusso suburbana rinvenuta lungo lo sviluppo dell'attuale Strada Statale 113, verosimilmente come altri insediamenti coevi, insistente a ridosso del primitivo tracciato della Consolare Valeria sulla tratta viaria Mylae - Pactae o Pactis attraverso Týndaris.
Costruita alla fine del II o inizi del I secolo a.C. in un sito abitato già dall'età ellenistica (III - II secolo a.C.), subì almeno due restauri o risistemazioni nella prima età imperiale (metà del I sec.d.C; II sec.d.C.), come indicano le modifiche apportate soprattutto al settore termale.
I reperti rinvenuti e gli studi relativi identificano specifici periodi storici databili:
Età tardo-repubblicana.
Età augustea.
Età traianea-adrianea.
In epoca bizantina la costruzione o l'espansione dell'edificio subì un'improvvisa interruzione per probabile distruzione attribuita al terremoto del 365 d.C. Le fonti storiche riconducono ad un evento sismico, tra quelli documentati in quel periodo, in particolare il terremoto di Creta descritto dallo storico romano Ammiano Marcellino, evento comune alla parziale demolizione della vicina Villa di Patti, e alla devastante frana che determinerà il collasso e conseguente sprofondamento della città di Tindari, e al tramonto della civiltà ad essa collegata.
L'espansione edilizia del centro nella prima metà del XX secolo comportò diverse segnalazioni alla locale soprintendenza, così come alcuni decenni più tardi avvenne per la Villa di Patti, quest'ultimo ritrovamento determinato dagli studi preliminari per la definizione del tracciato dell'Autostrada A20, sebbene l'esistenza dell'insediamento archeologico sia già attestata dalla realizzazione di una precedente piattaforma in calcestruzzo per traliccio destinato ad una linea di trasmissione dell'energia elettrica.
Luigi Bernabò Brea, soprintendente alle antichità della Sicilia orientale, condusse le prime indagini archeologiche per riportare alla luce gli ambienti della villa, attività e operazioni espletate agli inizi degli anni cinquanta nell'ambito del programma di conoscenza e valorizzazione dei più importanti siti archeologici della provincia di Messina.
Le ricerche dirette da Vinicio Gentili, svelarono la maggior parte del complesso con l'individuazione della residenza padronale, il complesso termale privato e le strutture di servizio. Nel 1966 fu allestito uno spazio espositivo, recentemente riaperto in forma di sala didattica, e furono realizzate le strutture protettive ancora oggi funzionali alla salvaguardia dei pavimenti musivi e dei lembi di pittura parietale.
L'edificio, a pianta quadrata, ingloba un cortile interno circondato da un portico che si sviluppa con una serie di otto colonne per lato. Le strutture comprendono tre corpi adiacenti sulla direttrice est - ovest, con prospetto a nord - ovest (NNW), col seguente ordine: ambienti di servizio ad oriente, ambienti privati al centro, impianto termale ad occidente.
Ambienti privati
Giardino porticato: Peristilium.
Sala per il banchetto: Triclinium (nella foto). Sul lato sud cortile del cortile con esposizione a tramontana si apre il tablinum, ovvero la stanza principale della domus, utilizzata come sala da ricevimento e rappresentanza, atta alla custodia e conservazione dei documenti di famiglia. L'ambiente, presenta una pavimentazione in marmi colorati tagliati ad esagono e uniti in forma di mosaico realizzato all'interno di una cornice in sagome regolari, alle pareti presenta brani, resti e tracce di pitture.
Appartamento per il dominus, stanza da letto, sale: Cubiculum, Oecus. Gli appartamenti comprendono più ambienti definiti genericamente sale, stanze, vani, corridoi di raccordo.
Appartamento per la domina, stanza da letto, sale: Cubiculum, Oecus.
Deposito, dispensa, granaio: Cella penaria.
Stanze: Cellae
Corridoio: Oecus.
Guardiole: Celle ostiarie.
Ingresso: Vestibulum.
Impianto termale

L'area dedicata alle terme è divisa in tre ambienti destinati al bagno in acqua fredda (Frigidarium), tiepida (Tepidarium) e calda (Calidarium). I locali erano riscaldati per mezzo di flussi d'aria calda o vapore immessi attraverso un doppio pavimento e lungo le pareti mediante condotte in coccio.
Spogliatoio: Apodyterion.
Sala massaggi: Unctorium.
Sala pulizia corpo: Destrictarium.
Vasca, 3 vasche: Piscina.
Ambiente freddo: Frigidarium, ambiente con mosaico in bianco e nero con scena di pesca, delfini, pescespada, opera, probabilmente di un mosaicista italico(nella foto)
Ambiente tiepido: Tepidarium.
Ambiente caldo: Calidarium.
Sauna: Laconicum.
Forno: Praefurnium.
Locali di servizio.

Scala d'accesso.
Corridoio.
Ambienti di servizio
Cortile:
Cortile porticato:
Casa, ambienti:
Magazzino:
Cisterna:
Ambiente espositivo
In un piccolo ambiente, ubicato lungo lo sterrato dell'ingresso con varco sulla strada statale, sono esposti al pubblico frammenti di sculture, stucchi e ceramiche che arredavano la ricca casa. In epoca recente ospita materiale didattico, la biglietteria i servizi accessori e il personale preposto alla cura e sorveglianza del sito.

Rocca Pizzicata (Sicilia)

 


Rocca Pizzicata è un complesso rupestre presso l'omonima rocca sito nella Valle dell'Alcantara, nel territorio tra i comuni di Roccella Valdemone, Mojo Alcantara e Randazzo.
Per quanto non esistano dei saggi di scavo archeologico appare evidente la presenza di diverse preesistenze archeologiche rupestri come delle tombe, abitazioni e persino un altare (foto sotto).
Recentemente si è sospettata la possibilità che esso sia, similmente al vicino altopiano dell'Argimusco un sito archeoastronomico, per cui siano presenti degli allineamenti legati ai cicli stagionali.
Il sito sorge su una proprietà privata ed è visitabile previa prenotazione.



Villaggio di Filo Braccio, Fiilicudi (Sicilia)

 

Il villaggio di Filo Braccio è un insediamento dell'età del bronzo antico sito presso l'isola di Filicudi in Sicilia.
Venne scoperto nel 1959 da Bernabò Brea e poi nuovamente studiato nel 2009. Il villaggio appartiene alla cultura di Capo Graziano della prima fase.
Si estendeva con capanne, stalle e depositi, con ambienti a pianta ovale creati con pietre e ciottoli di mare. Attualmente parte del villaggio sta scomparendo a causa dell'erosione della costa. Sembra che l'abitato abbia avuto due frequentazioni con diversi rifacimenti.
Le capanne misurano fino a 5 metri di lunghezza. A nord era presente un muro con funzione di contenimento del terreno. Le capanne avevano una divisione interna degli spazi mentre il pavimento era di argilla sovrapposta ad uno strato di ciottoli e frammenti ceramici che favoriva l'isolamento dal terreno.
Tra i ritrovamenti vi è del vasellame, come le olle, le ciottole e i vasi di varie dimensioni.
Gli abitanti poi si spostarono presso il villaggio di Capo Graziano dove trovarono condizioni migliori per la difesa.
Dal villaggio di Filo Braccio proviene uno dei più interessanti reperti di tutta la cultura di Capo Graziano, si tratta di una tazza con decorazioni incise, rinvenuta presso la capanna F. L'importanza di questa tazza risiede nel fatto che probabilmente è il più antico esempio di raffigurazione della preistoria italiana (Graziano I). Per quanto faccia parte della cosiddetta cultura di Capo Graziano si può dire che si discosta rispetto ai comuni reperti. Il disegno rappresenta chiaramente un uomo a braccia aperte in cui è possibile notare anche le dita e il corpo. Chiaramente l'intera rappresentazione è stilizzata, così come le onde del mare rappresentate con delle linee a zig-zag e delle barche formate da linee orizzontali con altre minori verticali. Non è chiaro chi sia rappresentato, se un uomo o una divinità, se le barche partono o arrivano, tuttavia è importante dire che è l'unico esempio di rappresentazione complessa, rispetto alle semplici linee di decorazione che troviamo nelle ceramiche anche della seconda fase.

Teatro di Monte Jato (Sicilia)

 

Il Teatro di Monte Jato è un antico teatro della Sicilia posizionato in provincia di Palermo, nel comune di San Cipirello. È inserito nel sito archeologico di Iaitas.
Venne costruito alla fine del IV secolo a.C. in un luogo già abitato dagli Elimi. Il teatro aveva probabilmente come modello il teatro di Dioniso, edificato ad Atene all'inizio del secolo precedente.
Molti elementi furono utilizzati per la costruzione di edifici attigui o sovrastanti il complesso, che sarà infatti sepolto dalla rete viaria: in età romana una casa fu addossata al portico esterno dell'edificio, mentre furono gli Arabi a costruire un rione abitativo sulla cavea.
Come consueto negli antichi teatri fra i greci, il teatro di Monte Jato aveva una caratteristica forma semicircolare: la cavea divisa in sette settori e solcata da otto scalinate era composta da 35 gradinate e sfruttava il pendio naturale fornito dal versante dell'omonimo monte, offrendo così la capienza di 4.500 posti a sedere. Anteriormente erano poste delle gradinate riservate agli ospiti d'onore, quali ambasciatori, sacerdoti, politici: solo queste presentavano lo schienale e si pensa fossero decorate. Nella struttura era presente un sistema per lo scolo dell'acqua piovana.
L'edificio scenico vero e proprio, munito di parasceni laterali, risulta essere l'elemento meglio conservato nonostante le numerose ristrutturazioni subite: la prima venne effettuata verso il 200 a.C., mentre l'ultima risale al I secolo d.C. Durante gli scavi all'interno dell'edificio scenico sono stati trovati rinvenuti numerosi pezzi di pavimento provenienti dal piano superiore e tegole rotte.


giovedì 28 dicembre 2023

Stele di Mesha - GIORDANIA/FRANCIA

 
La stele di Mesha (nota nel XIX secolo come pietra moabita) è una pietra in basalto nero, situata in Giordania, che riporta un'iscrizione effettuata nel IX secolo a.C. da re Mesha dei Moabiti.
L'iscrizione, risalente all'840 a.C., ricorda le vittorie di Mesha su "Omri re di Israele" e sul figlio, che aveva oppresso i Moabiti. È la più lunga iscrizione mai rinvenuta tra quelle che si riferiscono all'antico Israele (la "Casa di Omri"). Riporta quello che è generalmente considerato come il più antico riferimento semitico extra-biblico al nome Yahweh (YHWH), i cui beni del tempio furono saccheggiati da Mesha e consegnati al proprio dio Chemosh. Lo studioso francese André Lemaire ha ricostruito una parte della riga 31 della stele, affermando che si tratta di un riferimento alla "Casa di Davide".
La pietra è alta 124 cm e larga e profonda 71 cm, arrotondata in alto. Fu scoperta sul sito dell'antica Dibone (oggi Dhiban), nell'agosto del 1868 dal reverendo Frederick Augustus Klein (1827–1903), un missionario tedesco della Church Mission Society. Gli abitanti locali la ruppero durante un litigio riguardo alla sua proprietà, ma uno schizzo (un calco in cartapesta) era stato ottenuto da Charles Simon Clermont-Ganneau, e molti dei frammenti sono stati in seguito recuperati ed uniti dallo stesso Clermont-Ganneau. Lo schizzo (mai pubblicato) e la stele riassemblata sono ora esposte presso il Museo del Louvre.
La stele misura 124 per 71 cm. Le sue 34 righe descrivono:
Come i Moabiti furono oppressi da "Omri re di Israele", come risultato della rabbia del dio Chemosh
La vittoria di Mesha sul figlio di Omri (non citato) e sugli uomini di Gad ad Ataroth, ed a Nebo e Jehaz
I suoi progetti per gli edifici, il restauro delle fortificazioni della sua roccaforte e la costruzione di un palazzo e di una cisterna per l'acqua
Le sue guerre contro gli Horonaim.
È scritta in lingua moabita, con l'antico alfabeto fenicio, ed è "molto simile" all'ebraico biblico standard.
L'iscrizione è coerente con gli eventi storici riportati nella Bibbia. Eventi, nomi e luoghi citati nella stele di Mesha corrispondono a quelli citati nella Bibbia. Ad esempio, Mesha viene descritto come re di Moab nel secondo libro dei Re (3:4: "Mesa re di Moab era un allevatore di pecore. Egli inviava al re di Israele "centomila agnelli e la lana di centomila arieti" e Chemosh viene citato in molti passi della Bibbia come dio locale di Moab (primo libro dei re 11:33, 21:29, ecc.). Il regno di Omri, re di Israele, è descritto nel primo libro dei Re (16), e l'iscrizione cita numerosi territori (Nebo, Gad, ecc.) che appaiono anche nella Bibbia. Infine, il secondo libro dei Re (3) parla di una rivolta di Mesha nei confronti di Israele, a cui Israele rispose alleandosi con Giuda ed Edom per sedarla.
Secondo alcuni studiosi ci sarebbe un'incongruenza nei tempi della rivolta tra la stele di Mesha e la Bibbia. L'ipotesi si basa sul presupposto che la successiva frase della stele faccia riferimento al figlio di Omri, Acab.
«Omri era re di Israele, ed oppresse Moab per molti giorni, perché Chemosh era furioso con la sua terra. E suo figlio lo sostituì; ed egli disse, "Anche io opprimerò Moab"... E Omri prese possesso dell'intera terra di Madaba; e vi visse nei suoi giorni e metà dei giorni del figlio: quaranta anni: e Chemosh lo restaurò nei miei giorni»
In altre parole, secondo questi studiosi l'iscrizione afferma che la rivolta di Mesha avvenne durante il regno del figlio di Omri, Acab. Dato che la Bibbia parla di rivolta avvenuta durante il regno di Jehoram (nipote di Omri), questi studiosi affermano che i due racconti siano inconsistenti.
Altri studiosi hanno fatto notare che l'iscrizione non fa esplicito riferimento ad Acab. Nell'italiano moderno, il termine "figlio" fa riferimento ad un figlio maschio discendenza diretta dei genitori. Nell'antico vicino Oriente, però, il termine veniva utilizzato per indicare qualsiasi discendente maschio. Inoltre, "figlio di Omri" era un titolo comune per ogni discendente maschio di Omri e potrebbe anche fare riferimento a Jehoram. Supponendo che "figlio" significhi "discendente", i due racconti sarebbero consistenti. Ai tempi la definizione di "discendente di Omri" era "bît Humri", come confermato dai registri assiri.
Nel 1994, dopo aver esaminato sia la stele di Mesha che la cartapesta del Louvre, lo studioso francese André Lemaire disse che la riga 31 della stele di Mesha riportava la frase "la casa di Davide". Lemaire dovette immaginare una lettera distrutta, la prima "D" di [D]VD ("di [D]avide") per ricostruire la frase. La frase completa della riga 31 sarebbe quindi "Riguardo a Horonen, qui vi visse la casa di [D]avid", וחורננ. ישב. בה. בת[ד]וד. (le parentesi quadre [ ] racchiudono le lettere o le parole inserite dove furono distrutte e dove i frammenti sono tuttora irreperibili). Baruch Margalit ha tentato di utilizzare una lettera diversa, la "m", trasformandola in: "Ora Horoneyn fu occupata alla fin[e] del [regno del mio pre]decessore dagli [Edom]iti". Nel 2001 un altro francese, Pierre Bordreuil, scrisse che egli ed altri studiosi non potevano confermare l'ipotesi di Lemaire. Se Lemaire avesse ragione, esisterebbero due antichi riferimenti alla dinastia di Davide, uno sulla stele di Mesha (metà del IX secolo a.C.) e l'altra sulla stele di Tel Dan (metà del IX secolo a.C. - metà dell'VIII secolo a.C.).
Nel 1998 un altro studioso, Anson Rainey, tradusse una difficile coppia di parole nella riga 12 della stele di Mesha, אראל. דודה, come ulteriore riferimento a Davide. La riga in questione recita: "Io (Mesha) portai da qui (la città di Ataroth) l'ariel del suo DVD (o: il suo ariel di DVD) ed io lo trascinai davanti a Chemosh a Qeriot". Il significato di "ariel" e "DWDH" non è chiaro. "Ariel" potrebbe derivare etimologicamente da "leone d'oro" o "altare-cuore"; "DWDH" significa letteralmente "il suo amato", ma può anche significare "il suo (X) di Davide". L'oggetto preso da Mesha nella città israelita potrebbe quindi essere "l'immagine leonina del loro amato (dio)", identificando "ariel" con il culto del leone associato all'amato dio Ataroth; o, secondo la lettura di Rainey, "il suo altare-cuore davidico".
Nel 2019 gli studiosi Israel Finkelstein, Nadav Na'aman e Thomas Römer pubblicarono uno studio nel quale sostennero invece che la riga 31 non si riferisse a Davide, bensì a Balak, leggendario re di Moab menzionato nel Libro dei Numeri. Rispondendo a tale proposta, lo studioso di epigrafi Michel Langlois ha invece pubblicato un suo studio, nel quale ha sostenuto la originaria teoria di Lemaire.
Charles Montagu Doughty, nel suo studio pubblicato nel 1888, dice che gli fu detto che lo sceicco di Kerak, Mohammed Mejelly, aveva venduto la pietra ai crociati Franchi a Gerusalemme, e che il Beni Haneydy, il clan sulla cui terra si trovava Dibone, chiesero a Mejeely una quota del ricavato. Quando la richiesta fu rifiutata, i Beni Haneydy attaccarono la spedizione che stava trasportando la pietra a Gerusalemme, uccidendo cinque componenti della scorta e perdendo tre dei loro uomini. Riportarono la pietra a casa loro. A Doughty fu anche detto che i Franchi pagarono 40 sterline per la morte dei cinque uomini.
Sei anni dopo il reverendo Archibald Henry Sayce disse che il consolato francese di Gerusalemme aveva saputo della scoperta del reverendo F. Klein e che, l'anno successivo, il loro dragomanno Clemont-Ganneau inviò Selim el-Qari a fare un calco in cartapesta e ad offrire 375 sterline per la pietra. Sfortunatamente era già stato raggiunto un accordo con i Prussiani per 80 sterline. Sentendo che la pietra era aumentata di valore, il governatore di Nablus minacciò di riprenderne il possesso. Piuttosto che non avere niente, la pietra fu scaldata e poi distrutta bagnandola con acqua fredda. I vari pezzi finirono in famiglie diverse, che le nascosero nei granai per "fungere da talismani per proteggere il grano dal degrado".
Nel 1958 i resti di un'iscrizione simile furono trovati nei pressi di Al-Karak.

Ain Ghazàl - GIORDANIA

 

Ain Ghazàl (in arabo "Fonte della gazzella") è un insediamento neolitico rinvenuto nella parte nord-orientale dell'odierna Giordania, presso Amman.
Fu abitato tra il 7250 a.C. e il 5000 a.C. circa, nel neolitico preceramico B, e si estende per 15 ettari, costituendo uno dei più ampi abitati preistorici conosciuti nel Medio Oriente.
Il sito venne individuato nel 1974, durante la costruzione di una strada nella zona. Gli scavi archeologici furono condotti negli anni 1982-1985, 1988-1989 e 1993-1996 e ancora nel 1998, sotto la direzione di Gary O. Rollefson.
Ai suoi inizi, intorno al 7000 a.C., il sito si estendeva per 10-15 ettari ed era occupato da circa 3000 abitanti, da quattro a cinque volte il numero della contemporanea Gerico. Intorno al 6500 a.C., tuttavia, la popolazione decrebbe nel giro di poche generazioni a circa un sesto, a causa delle mutate condizioni ambientali provocate dal disboscamento.
Alle sue origini si trattava di un tipico villaggio del neolitico preceramico, collocato su una terrazza naturale affacciata sulla valle. Le abitazioni erano costruite con mattoni di fango di forma parallelepipeda ed erano costituite da un ambiente quadrato preceduto da una piccola anticamera. I muri erano intonacati con fango all'esterno e con intonaco a calce all'interno, rinnovato ogni pochi anni.
Era praticata l'agricoltura, con la coltivazione di cereali (orzo e specie antiche di grano) e legumi (piselli, fagioli, lenticchie e ceci) in campi fuori dal villaggio, ed erano allevati greggi di capre. Il cibo era integrato anche dalla caccia (daini, gazzelle, maiali selvatici e altri).
Gli abitanti di 'Ain Ghazal seppellivano alcuni dei loro morti al di sotto del suolo delle loro case, spesso con il cranio deposto in un profondo pozzetto separato, altri nei terreni che circondavano il villaggio. Resti umani sono stati trovati anche nei pozzetti scavati per la deposizione dei rifiuti, dimostrando che cerimonie di sepoltura erano riservate solo ad alcuni defunti, ma non è chiaro in base a quali criteri.
Nelle vicinanze di alcune strutture, che potrebbero aver avuto una funzione differenziata e rituale, sono state rinvenute seppellite ritualmente in pozzetti delle sculture che raffigurano figure umane di grandezza circa metà del naturale. Le sculture erano modellate con gesso bianco, su una struttura interna fatta con fasci di ramoscelli, ed hanno abiti e capelli dipinti e in alcuni casi tatuaggi o pittura corporea. Gli occhi erano realizzati con conchiglie di Cypraea e pupille in bitume. Sono state rinvenute 32 figure in gesso (15 a figura intera, 15 busti e 2 teste frammentarie). Tre dei busti avevano una doppia testa, ma il significato di questa raffigurazione non è chiaro.

Acquedotto Eifel - GERMANIA

 
L'acquedotto Eifel fu uno dei più lunghi acquedotti dell'impero romano.
Costruito nell'80 d.C., trasportava acqua per circa 95 km dalle colline della regione di Eifel, nell'attuale Germania, all'antica città di Colonia Claudia Ara Agrippinensium (l'odierna Colonia). Se si includono anche le sorgenti secondarie, la lunghezza complessiva raggiunge i 130 km. La costruzione era quasi interamente costruita al livello del suolo, ed il flusso dell'acqua era provocato solamente dalla forza di gravità. Pochi ponti, tra cui uno lungo 1400 metri, erano necessari per attraversare la vallata. A differenza di altri famosi acquedotti, l'Eifel venne appositamente progettato per minimizzare il tragitto sopraelevato rispetto al suolo, al fine di metterlo al riparo da danneggiamenti e dal congelamento dell'acqua.
Prima della costruzione dell'acquedotto Eifel, Colonia riceveva l'acqua dall'acquedotto Vorgebirge, la cui sorgente si trovava nella regione di Villé ad ovest della città. Con il crescere della città, l'acquedotto non fu più in grado di fornire acqua di qualità sufficiente; la sorgente conteneva tracce di limo in estate, e a volte si prosciugava completamente. Venne quindi costruito un nuovo acquedotto per portare in città l'acqua dalla sorgente dell'Eifel.
L'acquedotto Eifel venne costruito nella parte settentrionale della regione. La costruzione era fatta in calcestruzzo con pietre che formavano una copertura ad arco. Aveva una portata massima di circa 20 000 m³ di acqua al giorno. L'acquedotto era in grado di fornire acqua per fontane, bagni e case private di Colonia Claudia Ara Agrippinensium. Venne utilizzato fino al 260 circa, quando la città venne per la prima volta saccheggiata dai Germani. In seguito non venne più utilizzato, e si tornò all'uso del vecchio acquedotto Vorgebirge.
L'acquedotto inizia dalla sorgente situata nell'area di Nettersheim, nella valle del fiume Urft. Percorre tutta la valle fino a Kall, dove oltrepassa lo spartiacque che divide i bacini della Mosa e del Reno. Gli ingegneri romani decisero questo percorso per il fatto che erano in grado di superare lo spartiacque senza dover creare un tunnel o installare una pompa. L'acquedotto correva parallelo alla catena montuosa settentrionale degli Eifel, incrociando l'Erft vicino a Kreuzweingarten (nel circondario di Euskirchen) e lo Swist con un ponte ad archi. A Kottenforst, a nord-ovest di Bonn, attraversava l'altopiano di Vorgebirge. infine attraversava Brühl e Hürth prima di arrivare a Colonia. Altre sorgenti secondarie, giudicate sufficienti per quantità e qualità dagli ingegneri, vennero equipaggiate con acquedotti minori al fine di rifornire lo stesso Eifel.
Per proteggersi dal congelamento dell'acqua, buona parte dell'acquedotto scorre un metro sotto terra. Gli scavi archeologici hanno mostrato che, al livello più basso, gli ingegneri romani posero un'ampia base di pietre. Su questa base costruirono una scanalatura in calcestruzzo e pietra a forma di U per l'acqua e, sopra a questo, pietre squadrate e malta vennero usate per costruire un arco protettivo.
Per i lavori con il calcestruzzo e per l'arco gli ingegneri usarono tavole di legno per dare la forma. I segni delle nervature del legno sono ben visibili nel calcestruzzo anche dopo 2000 anni. L'acquedotto ha una larghezza interna di 70 cm ed un'altezza di 1 metro, in modo che gli operai potessero entrare in caso di necessità. L'esterno era sigillato con intonaco in modo da tenere all'esterno l'acqua sporca. In vari posti venne creato un sistema di drenaggio per tenere lontana l'acqua presente nel suolo. I corsi minori incrociano l'acquedotto attraverso dei cunicoli; molto vicino alla sorgente ne è rimasto un ben conservato.
Anche l'interno dell'acquedotto era intonacato con una sostanza rossa chiamata opus signinum. Questa pasta era composta da calce viva e da mattoni rotti. Questo materiale era resistente all'acqua ed evitava perdite. Le piccole crepe venivano sigillate con legno di frassino, particolarmente diffuso nel periodo in cui l'acquedotto venne costruito.
Molte sorgenti dell'area sono state dotate di costruzioni che permettevano di incanalare l'acqua nell'acquedotto. La prima si trovava alla sorgente, Grüner Pütz, vicino a Nettersheim. La più studiata è la "fontana Klaus" di Mechernich. Questo sito è stato archeologicamente ricostruito e conservato. Le costruzioni di varie sorgenti vennero progettate per rispettare le caratteristiche dell'area, e potrebbero rispettare anche i moderni requisiti architettonici.
Sono state riconosciute quattro principali aree sorgive:
  • Grüner Pütz (Pieno di verde) vicino a Nettersheim
  • Klausbrunnen (fontana Klaus) vicino a Mechernich
  • Un'area sorgiva a Mechernich-Urfey
  • La Hausener Benden a Mechernich-Eiserfey
L'area di Hausener Benden, anch'essa nei pressi di Mechernich, è interessante perché scoperta piuttosto tardi, e rimessa in funzione. Nel 1938, durante le ricerche di una fonte d'acqua potabile nei pressi di Mechernich, gli operai scoprirono una parte dell'acquedotto che partiva da questa zona. L'acqua che scorreva al suo interno venne semplicemente convogliata nel moderno sistema idrico. Non essendo per nulla danneggiato, non vennero svolte ricerche archeologiche per la costruzione attorno alla sorgente.
I romani preferivano acqua potabile con un alto contenuto minerale, preferendone il sapore a quello dell'acqua dolce. L'architetto romano Vitruvio descrisse il processo di analisi di una sorgente d'acqua potabile:
«Le sorgenti dovrebbero essere testate e provate nei seguenti modi. Se sono all'aperto, ispezionare ed osservare il fisico delle persone che abitano nelle vicinanze prima di iniziare a lavorare, e se le loro ossa sono forti, l'aspetto vivo, le gambe sane, e gli occhi lucidi, la sorgente merita completa approvazione. Se la sorgente è stata appena scavata, la sua acqua è eccellente se si può versare in un vaso corinzio o bronzeo senza che lasci sedimenti. Inoltre, l'eccellenza dell'acqua può essere dimostrata facendo bollire l'acqua in un calderone di bronzo, lasciandola riposare qualche tempo, e versandola senza che essa lasci sabbia o fango sul fondo
(Vitruvio, De architectura, 8,4,1)
Vitruvio insistette (8,3,28) sul fatto che "conseguentemente dobbiamo fare molta attenzione nella ricerca di sorgenti e nella loro selezione, tenendo in primo piano la salute delle persone". L'acqua proveniente dall'Eifel era considerata una delle migliori dell'impero.
Sfortunatamente l'acqua dura tende a produrre depositi di carbonato di calcio, ed infatti buona parte dell'acquedotto è oggi ricoperto da uno spesso strato di calcare, fino a 20 cm. Nonostante la riduzione dello spessore interno causato dal calcare, l'acquedotto era ancora in grado di trasportare acqua a sufficienza per soddisfare i bisogni di Colonia. Nel Medioevo lo strato di "marmo Eifel" che faceva parte dell'acquedotto venne riutilizzato come materiale da costruzione.
Per vari motivi l'Eifel è composto da pochi tratti esposti, a differenza di altri acquedotti romani quali il Ponte del Gard della Francia meridionale:
  • Il percorso dell'acquedotto venne scelto in modo da evitare di dover erigere costruzioni.
  • I tratti sotterranei erano riparati dal congelamento invernale.
  • L'acqua che raggiungeva Colonia aveva una temperatura ideale grazie all'isolamento garantito dal terreno.
  • In caso di guerre l'acquedotto avrebbe subito meno danni.
Nonostante questo, esistono punti in cui fu obbligatoria la costruzione di ponti o altro. Il più importante è un ponte ad archi che attraversa lo Swist nella valle del Reno; tale ponte è lungo 1.400 metri e raggiunge i 10 metri di altezza. Gli archeologi calcolano che il ponte originale fosse composto da 295 archi, ognuno dei quali largo 3,56 metri. Il ponte è stato però ridotto in macerie dal passare degli anni.
Un piccolo ponte ad archi attraversa la valle vicino a Mechernich-Vussem. Questo ponte era alto 10 metri e lungo 80. I resti archeologici ritrovati erano in condizioni sufficienti da permetterne una ricostruzione parziale, in modo da mostrare come dovesse essere in origine.
La costruzione dell'acquedotto mise alla prova le capacità e la conoscenza degli ingegneri romani. I romani soffrivano a volte di bassa qualità nelle grandi opere, come testimoniato da Sesto Giulio Frontino, responsabile delle risorse idriche della città di Roma che scrisse:
«Nessun'altra costruzione richiede maggiore cura di una che è destinata a contenere acqua. In ogni caso è necessario supervisionare tutti gli aspetti del progetto con grande attenzione - seguendo rigidamente le regole, che tutti conoscono, ma che pochi seguono»
Considerando la quantità di studi topografici, costruzione sotterranea, e lavori di muratura, una costruzione di queste dimensioni non si sarebbe potuta costruire in un blocco unico. Al contrario, gli ingegneri divisero l'intero tratto in lotti più piccoli. Attraverso ricerche archeologiche sono stati determinati i confini di queste zone. Ogni lotto comprendeva un tratto di 15.000 piedi romani (4.400 metri). È stato dimostrato anche che gli studi topografici vennero svolti in momenti diversi da quelli della costruzione stessa, proprio come accade per le odierne grandi opere.
Ogni metro dell'acquedotto ha comportato lo scavo di circa 3–4 m³ di terra, e la costruzione di 1,5 m³ di struttura in mattoni e calcestruzzo, oltre a 2,2 m² di intonacatura. Il costo complessivo del lavoro è stato stimato in 475 000 giorni di lavoro: considerando una media di 180 giorni di lavoro all'anno a causa delle condizioni atmosferiche, 2.500 lavoratori impegnati per 16 mesi avrebbero completato il progetto. La reale durata dei lavori sembra essere stata molto maggiore, soprattutto per il fatto che a questo calcolo va aggiunto il tempo necessario per gli studi topografici e la produzione del materiale edile.
Dopo il completamento della costruzione, i vari tratti vennero uniti, la superficie del suolo riappiattita, e venne creato un percorso di manutenzione. Questo percorso serviva anche a delimitare le aree in cui era vietata l'agricoltura. Altri acquedotti romani sono dotati delle stesse strutture. Quello di Lione in Francia venne contrassegnato dalla seguente iscrizione:
«Per volere dell'imperatore Publio Elio Traiano Adriano, a nessuno è permesso di arare, seminare o piantare all'interno del terreno predisposto alla protezione dell'acquedotto»
Dopo aver scelto una buona posizione per l'acquedotto, fu necessario garantire una pendenza costante per tutto il percorso. Usando arnesi simili alle attuali livelle gli ingegneri romani erano in grado di mantenere una pendenza che si aggirava attorno allo 0,1% (un metro di dislivello per ogni chilometro). Oltre alla pendenza, era necessario unire tratti diversi dell'acquedotto senza sbalzi.
I costruttori dell'Eifel fecero attentamente uso della pendenza naturale del terreno. Se i lavori di un segmento arrivavano troppo vicino a quello successivo, veniva creata una piscina in modo da rallentare il flusso dell'acqua.
Il calcestruzzo usato per l'Eifel era una combinazione di calcare, sabbia, pietre ed acqua. Vennero usate delle tavole per dare al forma al calcestruzzo. Le analisi moderne svolte per testare la qualità del calcestruzzo hanno dimostrato che sarebbe in grado di rispettare gli attuali standard. Questo particolare calcestruzzo veniva chiamato opus caementicium in lingua latina.
L'acquedotto venne usato per 180 anni, dall'80 al 260, richiedendo manutenzione continua, miglioramenti, pulizia e raschiatura dei depositi di calcare. I lavori di manutenzione erano facilitati da pozzi disposti a distanza regolare, attraverso i quali gli operai scendevano nell'acquedotto. Altri pozzi vennero costruiti nei punti in cui si effettuavano delle riparazioni e nei punti di confine tra diversi lotti di costruzione. C'erano anche piscine nei punti in cui varie sorgenti si univano al corso principale, in modo che i manutentori potessero tenere sott'occhio le aree problematiche.
Nei chilometri che precedevano l'antica città, l'acquedotto lasciava il terreno supportato da un ponte alto circa 10 metri. Questa costruzione permetteva all'acqua di essere consegnata anche alle zone cittadine sopraelevate tramite tubi pressurizzati. I tubi del tempo erano costruiti con lastre di piombo piegate ad anello, saldate o con flange che permettevano di unire porzioni diverse. I romani usavano arnesi in bronzo come rubinetti.
L'acqua arrivava alle varie fontane pubbliche cittadine, sempre in funzione. La rete di fontane era talmente fitta che nessun cittadino doveva fare più di 50 metri per prelevare l'acqua. Inoltre varie abitazioni e bagni pubblici, come i sanitari pubblici, erano riforniti di acqua. L'acqua persa era raccolta in una rete di canali che scorreva sotto la città portando fino al Reno. Una parte del sistema fognario è aperto ai turisti sotto via Budengasse, a Colonia.
L'acquedotto Eifel venne distrutto dalle tribù germaniche nel 260, durante un attacco a Colonia, e non venne mai più rimesso in funzione, anche se la città continuò ad esistere. Nel corso della migrazione di varie tribù attraverso la regione, la tecnologia degli acquedotti cadde in disuso. L'intero acquedotto rimase interrato per 500 anni, finché i Carolingi iniziarono una nuova costruzione nella valle del Reno. Dal momento che questa zona era particolarmente povera di pietre, l'acquedotto divenne una fonte di materiale edile. Sezioni intere dell'acquedotto vennero usate per costruire varie mura nella valle del Reno, ad esempio. Alcune di queste sezioni sono tuttora coperte dall'intonacatura che ricopriva l'acquedotto. Tutte le parti esposte dell'acquedotto, e buona parte di quelle interrate, vennero usate durante il Medioevo per altre costruzioni.
In particolare era ricercato il calcare situato all'interno. Durante gli anni in cui l'acquedotto venne usato, alcuni tratti si ricoprirono di strati di calcare spessi fino a 20 cm. Il materiale aveva una consistenza simile al marmo rosso, ed era facilmente estraibile. Dopo la lucidatura mostrava venature, e poteva essere usato per tavole di pietra una volta tagliato. Queste pietre artificiali vennero usate per tutta la valle del Reno, ed era particolarmente popolare per la costruzione di colonne, infissi ed altari. Si trovano prove dell'uso di "marmo Eifel" molto ad est, fino a Paderborn e Hildesheim, dove vennero usati nella costruzione delle cattedrali. La Cattedrale di Roskilde, in Danimarca, è il punto più settentrionale raggiunto da questo materiale, sotto forma di pietre tombali.
Secondo una leggenda medievale l'acquedotto rappresentava un passaggio sotterraneo da Treviri a Colonia. Secondo la leggenda il diavolo scommise con l'architetto del Duomo di Colonia che sarebbe riuscito a costruire questo passaggio prima del termine della sua costruzione. L'architetto accettò la scommessa e fece lavorare duramente i suoi sottoposti. Un giorno la costruzione del Duomo causò la rottura dell'acquedotto, e si vide l'acqua scorrere al suo interno. Si dice che il diavolo costrinse poi l'architetto a suicidarsi saltando dal campanile incompleto della cattedrale. Si crede che la morte dell'architetto (e non la mancanza di fondi) fu la causa di un ritardo secolare nel suo completamento.
Un po' di scritti medievali sull'acquedotto non riescono a spiegarne il motivo della costruzione. Secondo alcuni non trasportava acqua in città, ma vino; è questo il caso del Gesta Treverorum di Maternus, vescovo di Colonia (IV secolo), e del Hymn to Saint Anno dell'XI secolo.
Il Römerkanal-Wanderweg (percorso escursionistico dell'acquedotto Eifel) percorre circa 100 km lungo il percorso originario da Nettersheim a Colonia. I collegamenti del trasporto pubblico sono buoni, e permettono di fare a piedi diversi tratti. Può essere usato anche come pista ciclabile. Ci sono circa 75 stazioni informative lungo il percorso, fornendo un'ottima vista dell'acquedotto.
Ricerche archeologiche vennero svolte sull'acquedotto Eifel a partire dal XIX secolo. CA Eick fu lo scopritore della sorgente più distante da Colonia, la Grüner Pütz presso Nettersheim (nel 1867). Studi sistematici vennero svolti tra il 1940 ed il 1970 da Waldemar Haberey. Il suo libro del 1971 è ancora un'ottima guida lungo tutto il percorso. Nel 1980 l'archeologo Klaus Grewe ne completò la mappatura aggiungendola alla mappa catastale ufficiale tedesca. Il suo Atlas der römischen Wasserleitungen nach Köln (Atlante degli acquedotti romani di Colonia) è molto utilizzato dai ricercatori specializzati in architettura romana.
L'Eifel è un sito di alto valore archeologico, particolarmente per lo studio della topografia romana, della loro abilità organizzativa, e della conoscenza ingegneristica. È anche un simbolo struggente della perdita della conoscenza durante il declino della civiltà tra il Medioevo e l'era moderna, in cui il miglior uso trovato per l'acquedotto fu quello di cava di pietre. Il livello raggiunto dalla tecnologia romana in questa zona non è stato più eguagliato prima del XIX-XX secolo

(nelle foto, dall'alto in basso:
- piccola sezione dell'acquedotto conservata a Buschhoven, vicino a Bonn
- acquedotto ricostruito nei pressi di Mechernich-Vussem
- la sorgente di Grüner Pütz che contiene una piscina romana
- pozzo attraverso il quale il personale della manutenzione poteva entrare nel canale
- parte di acquedotto a Euskirchen Kreuzweingarten che mostra la formazione di carbonato di calcio sul fianco del canale  
- colonna della chiesa dei Santi Chrysanthus e Daria, a Bad Münstereifel, che venne scolpita con il calcare estratto dai depositi dell'acquedotto
)  

Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...