martedì 15 ottobre 2024

Via Lauretana (Toscana)

 


La via Lauretana è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizzata dagli etruschi e venne poi sfruttata e ampliata, come molte altre, dai romani, con innovative tecniche di costruzione. Nacque per collegare la Lucumone alle consorelle tirreniche. La strada partiva da Cortona e il tracciato si distaccava dalla vecchia Via Cassia, costruita intorno al 125 a.C. forse dal censore Lucio Cassio Longino Ravilla, sul precedente percorso etrusco Veio-Orvieto-Chiusi-Cortona-Arezzo-Fiesole. Dopo aver attraversato Centoia (il nome del paese deriva dal latino centuria, unità di 100 soldati che formavano una legione e da qui la centuriazione romana che consisteva nella suddivisione di un territorio in 100 parti, poi assegnate ai coloni e calcolate secondo le linee incrociate delle strade) e il ponte murato sul fiume Clanis sotto Valiano, incrociava la nuova Cassia Adrianea, voluta dall'imperatore Adriano nel 123 d.C. costruita al centro della valle per raggiungere più velocemente Firenze e i passi appenninici. Da qui, procedendo verso ovest, il vecchio tracciato etrusco-romano ancora oggi passa per Gracciano (come indica il toponimo Podere Strada nelle vicinanze del Torrente Salarco), sale a Montepulciano ed entra in Val d'Orcia. Prosegue per le pendici dell'Amiata toccando Seggiano, Castel del Piano e Arcidosso, scende in Maremma per Roccalbegna, Murci, Scansano, Magliano in Toscana fino ad arrivare a Talamone e Orbetello.



Con l'irreversibile impaludamento della Val di Chiana (IX secolo), dal percorso iniziale si sviluppò la cosiddetta Via Lauretana, nata per collegare Cortona a Montepulciano e Siena. Il nome Lauretana (di probabile attribuzione settecentesca) deriva dal toponimo Loreto, localizzato nella piana sotto Cortona, nella zona del Sodo e che dà il nome anche al fosso locale. È da qui che partiva il primo ramo di questa strada che Emanuele Repetti nel suo Dizionario chiamò Antica Lauretana distinguendola dalla più importante Strada Regia Lauretana. La primitiva via, che con molte probabilità esisteva già in epoca romana come uno dei tanti diverticoli della Via Cassia e abbandonata per forza maggiore dopo l'allagamento della valle, passava per Fratta, Santa Caterina, Fratticciola, Creti, Ponti di Cortona, Foiano della Chiana, Lucignano, Rigomagno, San Gimignanello, Asciano e terminava a Siena. Nel 1775 per ordine del granduca Leopoldo II d'Asburgo-Lorena, la tratta più importante della Lauretana fu completamente ristrutturata e potenziata, nel tentativo di sviluppare il commercio del grano della Val di Chiana con il resto della regione. Caduta in disgrazia ormai da molti anni come la maggior parte delle strade toscane, fu oggetto di una vera e propria rinascita. I lavori della Strada Regia Lauretana terminarono nel 1787.
Dal punto di vista strategico, questa strada, dopo l'impaludamento della valle, fu per circa dieci secoli la più importante della zona. Da Cortona a Camucia la strada tagliava in linea retta la pianura fino a Centoia e con un percorso collinare arrivava al castello di Valiano. Attraversava la palude chianina tramite il ponte di Valiano che insieme a quello di Chiusi e ai 3 ponti di Arezzo, rappresentò un vitale punto di passaggio del vasto lago stagnante. Era l'unica strada che permetteva ai fiorentini di raggiungere Montepulciano, vera e propria enclave medicea incuneata nello Stato senese, un canale di territorio ben difeso da Valiano, per la chiesa della Maestà del Ponte, passando per la Parcese e la Corbaia, oggi Montepulciano Stazione, e il castello di Gracciano Vecchio, arrivava sul colle di Montepulciano. La diramazione della Lauretana per Siena si distaccava alla Parcese (zona soprapasso dell'Autostrada del Sole) e raggiungeva il Monastero di San Pietro d'Argnano, l'abbazia che darà il nome in epoca comunale alla villa e castello di Abbadia Argnano, località conosciuta anche come Badia de' Caggiolari o Badia in Crepaldo, oggi Abbadia di Montepulciano. Resiste ancora nella memoria popolare di alcuni abitanti del paese di Abbadia il toponimo strada vecchia (oggi Via Morandi) che sta ad indicare un breve tratto di via che si distaccava dalla Lauretana all'altezza dell'abitato di Santa Maria. Il toponimo non lascia dubbi sull'antichità di questa diramazione della Lauretana che proseguiva per il Palazzo (il toponimo potrebbe indicare la presenza nel Medioevo di una fattoria fortificata), le Tombe e Sambuono (due aree sepolcrali di età etrusca e romana), dove si congiungeva con l'importante strada che collegava Montepulciano al Castello di Ciliano e Torrita di Siena. Poco più avanti di Abbadia di Montepulciano la Via Lauretana entrava nello stato senese presso Torrita di Siena, lambiva le mura fortificate della cittadina fedele alla balzana, passava ai piedi del Castello di Guardavalle e vicino alle fattorie della Fratta e dell'Amorosa. L'antico tracciato da Abbadia di Montepulciano alle porta di Sinalunga è in pratica quello dell'odierna Strada Provinciale 326. La Lauretana attraversava poi il borgo di Rigaiolo, saliva a Collalto lambendo Sinalunga, raggiungeva Asciano e oltrepassato il fiume Ombrone, per le Crete Senesi, scendeva fino a Taverne d'Arbia, i Due Ponti e terminava alle porte di Siena.


Ara della Regina (Toscana)

 

L'ara della Regina posta sul "Pian di Cìvita", nei pressi di Tarquinia, è un tempio etrusco che veniva utilizzato in antichità per la celebrazione di riti e preghiere; si tratta di uno dei ritrovamenti archeologici più importanti della zona. È ben visibile il basamento e quello che si ipotizza fosse l'accesso alla cella interna del tempio, costruito con blocchi di nenfro, una roccia piroclastica tipica della regione.
La divinità alla quale era destinato il culto all'interno del santuario rimane ancora ignota, ma da studi recenti se ne ipotizza l'identificazione probabilmente con Artume, ossia Diana per i Romani.Grazie alle opere di restauro e di scavi svoltesi nel 1938 è possibile visitare quest'opera edilizia datata intorno al IV secolo a.C.. Il basamento, che è l'unico resto rimasto, è in macco, una pietra calcarea diffusa in Etruria.
I Cavalli alati, un'opera di laboriosa manifattura di arte etrusca, costituiscono il più importante ritrovamento avvenuto in questo sito. Questa lastra di terracotta, emersa nel 1938 durante i restauri condotti dall'archeologo Pietro Romanelli, rappresenta due equini alati e venne ritrovata interamente frammentata.
Per la ricostruzione è stato necessario un preciso lavoro di restauro. Anticamente erano però due le lastre che ornavano il frontone del tempio, una raffigurante i due cavalli alati e l'altra contenente una biga, andata perduta. La tavola di terracotta, databile tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C., è ora conservata al Museo Nazionale di Tarquinia.


Frontone di Talamone (Toscana)


Il frontone di Talamone è un raro esempio di frontone in terracotta risalente al 150 a.C., reperto di epoca etrusco-ellenistica venuto alla luce sul poggio Talamonaccio, nei pressi di Talamone, che costituiva la parte superiore frontale dell'antico tempio etrusco di Talamonaccio. Esso costituisce l'iconografia artisticamente più importante che ci sia pervenuta del mito della Tebaide o dei Sette contro Tebe, in quanto viene raffigurata la scena del combattimento finale tra i fratelli Eteocle e Polinice, figli di Edipo e Giocasta, durante l'assedio di Tebe. Al centro della scena i corpi morti dei due fratelli vengono portati via, mentre intorno è raffigurata la fine degli altri eroi della spedizione.
Rinvenuto alla fine dell'800, è patrimonio del Museo archeologico di Firenze, dove rimase esposto fino all'alluvione di Firenze e poi nuovamente dal 1982, fin quando fu inviato in una mostra a lungo termine a Orbetello (Grosseto), organizzata all'interno della Caserma Umberto I. Nell'ultimo decennio la Soprintendenza Archeologica della Toscana (Firenze) ne ha concesso il prestito e lo ha inviato ad alcune importanti mostre sia in Italia che all'estero, al termine delle quali è ritornato al Museo Archeologico fiorentino.

Museo Civico Archeologico di Fiesole (Toscana)

 

Il Museo Civico Archeologico di Fiesole si trova all'interno dell'Area Archeologica, in una posizione di eccezionale bellezza paesaggistica. Esso tramanda la lunga storia della città e del territorio fiesolano attraverso le testimonianze archeologiche che conserva.
I reperti archeologici esposti, infatti, permettono di seguire le tracce delle varie culture che si sono susseguite sul territorio, con particolare attenzione ai periodi etrusco, romano e longobardo. 
Il Museo, inoltre, possiede una vasta sezione antiquaria, formata da reperti donati da numerosi e importanti collezionisti e che consente di soffermarsi anche sul periodo greco.
Il Museo Archeologico di Fiesole nasce alla fine dell'Ottocento dalla necessità di raccogliere e conservare i reperti archeologici venuti in luce durante gli scavi del Teatro romano e, in generale, dei monumenti di quella che oggi è l'Area Archeologica.
La collezione museale, che dall’istituzione del Museo nel 1878 era ospitata all’interno dell’attuale Palazzo del Comune e che si era arricchita anche grazie alle donazioni da parte di privati e di altri enti culturali, trovò la sua sede definitiva nel 1914, quando venne inaugurato l'edificio dove si trova ancora oggi.
Il percorso espositivo
Si accede al Museo passando dalla terrazza che si apre sopra il Teatro romano e dalla quale è possibile cogliere con un unico sguardo tutta l’Area Archeologica. Nel portico sono esposti alcuni reperti, tra cui frammenti architettonici pertinenti al Tempio romano e un cippo confinario in pietra con iscrizione etrusca.
All'interno del Museo il percorso di visita si struttura su due livelli:
PIANO TERRA: ospita le sale dedicate alla sezione topografica, ovvero all'esposizione dei reperti recuperati in città e nel territorio divisi a seconda del luogo di ritrovamento.
Nella Sala 1 si trovano una selezione dei materiali più antichi recuperati a Fiesole (come le ceramiche villanoviane), le stele fiesolane (segnacoli di tombe etrusche, tipici del territorio fiesolano), i bronzetti votivi recuperati presso i templi etruschi della città e altri manufatti bronzei e in pietra di epoca romana.
Oltre al busto di lupa/leonessa in bronzo, uno dei più significativi reperti del Museo, nella sala 3 sono esposti i materiali rinvenuti negli scavi dell’Area archeologica, provenienti in particolare dal Teatro, dalle Terme e dal Tempio: tra questi, si segnala la stipe votiva del tempio con la piccola civetta in bronzo che suggerisce il legame tra questo edificio e la dea Minerva.
La piccola Sala 4, invece, raccoglie alcuni reperti del nucleo originario della primissima collezione del museo e prepara alla visita della sezione antiquaria al piano superiore. 
Il percorso al piano terra continua con le sale dedicate ai Longobardi e alle testimonianze che questo popolo ha lasciato a Fiesole. La ricostruzione di alcune sepolture e l'esposizione degli oggetti rinvenuti nei corredi funerari permettono di affrontare la cultura materiale e gli usi di questa popolazione di guerrieri e artigiani, che giunse in Italia stanziandosi anche a Fiesole a partire dalla fine del VI secolo d.C.
Lungo il percorso è inoltre possibile osservare da vicino i resti di alcuni muri di terrazzamento della città etrusca e altre strutture murarie di epoca romana rinvenute durante gli scavi archeologici effettuati alla fine degli anni Ottanta del Novecento in via Marini.
BALLATOI: al piano rialzato sono esposte le collezioni antiquarie, formate dai reperti (di vario tipo e provenienza) che nel corso del tempo alcuni collezionisti privati hanno donato al Museo. Tra i tanti oggetti di pregio, spiccano quelli della Collezione Costantini, che vanta numerose ceramiche greche, magno-greche ed etrusche. Tra le altre collezioni sono da segnalare quella dei buccheri etruschi e dei vasi italici della Società Colombaria di Firenze, quella numismatica e la Collezione Albites, composta di materiali greci, etruschi e romani di vario tipo, tra cui numerose sculture e urne cinerarie.


lunedì 14 ottobre 2024

Teatro romano di Anzio (Lazio)

 

Il teatro romano di Anzio si trova sul pianoro di Santa Teresa, poco a nord del centro dell'abitato: oggi è una zona residenziale, ma in passato fu occupata dall'antica Anzio, della quale rimangono solo poche tracce.
La cavea, del diametro di 30 metri, era suddivisa in 11 settori radiali a forma di cuneo interrotti da un corridoio semicircolare che permetteva l'afflusso degli spettatori o direttamente nella zona dell'orchestra o, tramite due rampe di scale, verso le parti superiori della cavea. Dietro la scena ci restano le tracce di quattro vani, probabilmente utilizzati dagli attori e una scala che conduceva evidentemente ad una balconata superiore al muro di scena. Subito dietro la scena una serie di basamenti di colonne sono i resti del porticato che serviva, in caso di piogge improvvise o di forte sole, per dare riparo agli spettatori. I resti dell'elevato a noi pervenuti sono molto scarsi, per questo è difficile capire l'effettiva capienza della struttura e il suo uso.
Sulla datazione della struttura gli studiosi hanno finora convenuto che la costruzione del teatro fosse da correlare con la deduzione neroniana di una colonia di veterani del pretorio nella seconda metà I secolo d.C..
La struttura, nel corso della sua lunga storia, non fu solo un teatro: cadde in disuso e fu reimpiegata come luogo di cottura delle ceramiche; le testimonianze del riuso ci vengono da una fornace ad archetti ritrovata all'estremità del corridoio anulare mediano che venne scavato sotto il vecchio piano di calpestio per circa 1,5 metri e lì fu installata la fornace. La nuova pavimentazione fu realizzata con lastre marmoree di riuso tra le quali sono state ritrovate monete del V-VI secolo, che permettono di datare la fase della fornace. Nella parodos opposta ci sono i resti di un'altra fornace di dimensioni minori. La completa defunzionalizzazione della struttura si ha con la sepoltura di alcuni individui nella zona della scena.
Le ricerche sul teatro cominciarono nel corso degli anni 1920 con uno scavo di cui non rimane alcuna documentazione.


Bovillae (Lazio)


Bovillae
(anche nota con le denominazioni corrotte di Bobellae, Rovillae, Buella, Boile, Boville) è un'antica città latina e poi romana che sorgeva a sud di Roma, ed oggi è convenzionalmente identificata con la frazione di Frattocchie del comune di Marino, nella città metropolitana di Roma Capitale, nell'area dei Castelli Romani.
Bovillae era la prima località abitata provenendo da Roma lungo la via Appia: gran parte della sua importanza nel corso dei secoli le fu data da questa posizione importante su una delle strade più trafficate dell'Impero romano. Dopo la distruzione della capitale latina di Alba Longa all'epoca di Tullo Ostilio, ubicata poco lontano dalla città, è attestato che gli albani longani si trasferirono a Bovillae portandovi le istituzioni religiose più importanti dei Latini, che qui sopravvissero durante il primo periodo della dominazione romana. La città, divenuta una delle più fiorenti dell'Agro Romano, venne saccheggiata dai Volsci nel 490 a.C. e iniziò così la sua decadenza: grazie all'onore attribuitole di aver dato origine alla Gens Iulia, attorno al 17 l'imperatore Tiberio istituì a Bovillae il collegio sacerdotale dei Sodales Augustales ("Sacerdoti di Augusto") e i Ludi Augustales, solenni giochi in onore di Augusto. Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, per secoli il nome della città cadde nell'oblio fino ai primi scavi archeologici eseguiti dall'archeologo Giuseppe Tambroni tra il 1823 ed il 1825, che riportarono alla luce i ruderi del circo, considerato uno dei più grandi di Roma.

I primi rinvenimenti archeologici effettuati nel territorio dell'antica città di Bovillae, dopo vari secoli di oblio, avvennero nel corso del Settecento e furono del tutto accidentali. Nel 1712 lungo l'Olmata del Papa, attuale Strada statale 140 del Lago Albano, presso la frazione di Due Santi, venne scoperta una catacomba sotterranea, ma se ne è persa ad oggi l'ubicazione. Durante i lavori per l'allargamento della via Appia, nel 1787, vennero rinvenuti resti di un oratorio paleocristiano alla convergenza tra la via Appia Antica e la via Appia Nuova, debitamente distrutti; nello stesso sito quasi un secolo più tardi, nel 1869, vennero alla luci altri resti dell'oratorio, anch'essi dispersi.
L'archeologo Giuseppe Tambroni, con l'ausilio del cavalier Vincenzo Colonna, visto il crescente interesse che maturava anche sul grande pubblico il costante rinvenimento di materiale archeologico nell'Agro Romano: prese nel 1823 la decisione di avviare una campagna di scavi per individuare il sito esatto dell'antica Bovillae.
Gli scavi raggiunsero in buona parte il loro scopo: vennero infatti individuati i resti dell'imponente circo e del teatro, un locale forse adibito a sala termale, e i siti probabili del sacrario della Gens Iulia e del tempio di Veiove. L'archeologo Luigi Canina studiò il sito attentamente ed elaborò una mappa archeologica di Bovillae; anche lo storico marinese Girolamo Torquati prese personalmente visione, in seguito, dei reperti individuati dal Tambroni.
Nel 1853, regnante papa Pio IX, il governo pontificio commissionò ad una lunga serie di studiosi, storici, artisti ed archeologi di chiara fama (Ennio Quirino Visconti, Antonio Canova, Carlo Fea, Antonio Nibby, Luigi Canina, Giovanni Battista de Rossi) di curare il ripristino archeologico della via Appia Antica. Così tutto il primo tratto dell'antica strada tra Roma e Marino, abbandonato dal nuovo tracciato, fu protetto e i ruderi ivi localizzati furono catalogati. La sistemazione della strada, che dopo il fallimento del progetto della "Passeggiata Archeologica" fu proseguita solo nel 1988 con la costituzione del Parco regionale dell'Appia antica, arrivò fino a Frattocchie, senza però che anche l'area urbana di Bovillae fosse lambita.
Nel primo decennio del Novecento il Comune di Marino sovvenzionò l'inizio di alcuni scavi archeologici presso la località Tor Messer Paolo e Colle Licia, per individuare il sito della Bovillae pre-romana; infatti, si era diffusa l'opinione dello "slittamento" progressivo dell'abitato verso valle verificatosi nel corso dei secoli. Lo studioso Giuseppe Tomassetti in persona poté vedere gli scavi e riscontrare che erano stati fatti ritrovamenti ricollegabili a una struttura termale o a delle abitazioni. Tuttavia la cronica carenza di fondi e il disinteresse verso un'operazione del genere segnarono la conclusione dell'operazione archeologica, proprio mentre il Comune costituiva l'Antiquarium Comunale.
Nel 1930, durante il regime fascista, gli scavi archeologici di Bovillae furono curati di un minimo di attenzione: vennero infatti consolidati e risistemati i tre archi dei carceres del circo: tuttavia l'interesse durò poco. Infatti già dal secondo dopoguerra l'intensificarsi dell'urbanizzazione di Frattocchie e Santa Maria delle Mole soffocò i monumenti faticosamente portati alla luce.
I rinvenimenti sparsi effettuati in varie epoche nel territorio bovillense sono numerosissimi. La maggior parte di essi non sono neppure documentati correttamente, e molti reperti sono conservati presso il Museo civico Umberto Mastroianni di Marino o nei depositi dell'Istituto statale d'arte Paolo Mercuri senza indicazione di luogo di rinvenimento o data perché indisponibile. Le opere più pregiate, purtroppo, sono state portate all'estero: un esempio è l'Apoteosi di Omero conservata al British Museum di Londra (nella foto a sinistra).
Lo storico marinese Girolamo Torquati riferisce di essere stato personalmente presente in almeno due casi di ritrovamenti accidentali di reperti archeologici nell'area dell'antica Bovillae. Il 13 marzo 1891 nella vigna di Ernesto Terribili, alla convergenza tra via Appia Nuova e via Nettunense, furono rinvenuti, mentre veniva scassato un canneto, alcuni blocchetti di peperino parte di una recinzione funebre e due sarcofagi in marmo bianco lavorati rozzamente, uno lungo 2.30 metri e l'altro 2.16, con all'interno due scheletri. I sarcofagi erano contenuti nei resti di un edificio a volta che era stata una cripta. Non furono ritrovate iscrizioni. Il 14 febbraio 1886 invece, nella vigna dei fratelli Giuseppe ed Antonio Vitali presso le Frattocchie, fu scoperta una Venere in marmo, che il Torquati immediatamente provvide a segnalare alle autorità competenti.
Nel 2011-2012 rilevamenti archeologici preventivi nella zona di vicolo del Divino Amore hanno permesso di individuare una strada basolata, quasi perfettamente conservata, di accesso al circo, tagliata trasversalmente dalla via Nettunense nuova.

Il circo
I resti archeologici più importanti rinvenuti a Bovillae nel corso degli scavi di Giuseppe Tambroni (1823-1825) sono quelli appartenenti al circo. Voluto dall'imperatore Tiberio dopo la morte del patrigno e predecessore Augusto (14) per onorarne la memoria con degli speciali giochi circensi, i Ludi Augustales, la lunghezza del circo era di 337,50 metri per una larghezza di 68,60, ed era uno dei più grandi circhi di Roma, superando sia il Circo Vaticano sia il Circo Agonale (oggi piazza Navona).
Del circo oggi rimangono solo tre arcate in blocchi di peperino, appartenenti alla struttura dei carceres, più una quarta arcata inglobata in un cascinale. In origine dovevano esserci dodici arcate. La spina del circo era lunga 197 metri, e decorata con statue ed altri ornamenti: parti della spina furono rinvenute durante gli scavi ottocenteschi. La capienza della struttura si aggirava tra gli 8.000 ed i 10.000 spettatori. I Ludi Augustales furono celebrati almeno durante tutta la dinastia giulio-claudia, poiché un'iscrizione del 53 ricorda un tale auriga Fuscus della factio prasina vincitore dei giochi bovillensi (Ludi Augustales).

Il teatro
I ruderi del teatro di Bovillae sono stati individuati alle spalle del circo. La data di fondazione del complesso, costruito comunque secondo tutte le norme classiche, è ignota. Presso il teatro era presente una scola actorum di mimi, come è attestato da una iscrizione in memoria dell'archimimo Acilio.
Lo studioso Antonio Nibby afferma che la scena del teatro aveva ventisette piedi di raggio e quarantasette di diametro. Inoltre, furono rinvenuti anche i gradini del teatro.

Il tempio di Veiove
Durante gli scavi archeologici del 1823-1825, venne rinvenuta nell'area tra Frattocchie e Due Santi un'ara sacra pagana con sopra iscritta la seguente iscrizione: VEDIOVEI.PATREI / GENTILES.IULEI
Questo ritrovamento farebbe supporre la presenza presso l'antica città di un tempio pagano dedicato a Veiove, divinità locale latina la cui funzione non è molto chiara, ma che era titolare di un tempio sul Campidoglio a Roma posto inter duos lucos, ovvero tra i due boschi sacri dove trovavano immunità i malfattori o i supplici. Il tempio di Bovillae venne probabilmente eretto dalla Gens Iulia, originaria della città, in un'epoca non meglio definita, collocata approssimativamente dall'archeologo Antonio Nibby attorno al I secolo a.C.

Il sacrario della Gens Iulia
In Bovillae fu dedicato un sacrario alla Gens Iulia. La sua costruzione avvenne nel 17, alcuni anni dopo la morte di Augusto su iniziativa del suo successore Tiberio. Secondo lo scopritore della città, l'archeologo Giuseppe Tambroni, in questo sacrario sarebbe stato sepolto Augusto dopo le solenni esequie di stato celebrate a Roma: tuttavia, è un'ipotesi non supportata da alcun fatto.
Lo studioso Antonio Nibby descrive una struttura ottagona rinvenuta durante gli scavi del 1823-1825 e pensata dagli scopritori come il sacrario: costruita interamente in peperino, dista circa ducento metri dal teatro e la struttura aveva quindici piedi di diametro e venti di altezza; tutto intorno all'ottagono correva un recinto quadrangolare.

I sepolcri lungo la via Appia

Lungo la via Appia Antica, soprattutto nel primo tratto, tra porta San Sebastiano e Bovillae, sono stati ritrovati un numero impressionante di sepolcri monumentali di età romana: la maggior parte di essi sono conservati all'interno del Parco regionale dell'Appia antica, tuttavia almeno due sono localizzati in territorio marinese presso gli scavi dell'antica città.
Il primo è il sepolcro a base quadrata su cui, nella seconda metà dell'Ottocento, venne realizzata una torretta per le misurazioni geodetiche di padre Angelo Secchi: da questo episodio deriva il nome con cui è attualmente conosciuta la struttura, "Torre Secchi".
Il Torraccio di Due Santi invece si è conservato meglio: reso celebre da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, che descrive magistralmente la grama vita dell'Agro Romano fino agli anni cinquanta, è solo il nucleo cementizio di un antico sepolcro romano.
Poco distante dalla Via Appia Antica, in Via Costa Rotonda, all'interno della proprietà che attualmente appartiene ai padri Trappisti, pertinente alla seicentesca Villa della Sirena, si trova un sepolcro romano, sopra al quale nel Medioevo venne edificata una torre ottagonale chiamata Tor Leonardo. Tor Leonardo sorse nel corso del Medioevo sulle rovine di un sepolcro romano di età imperiale, anche se viene menzionata per la prima volta nel Quattrocento -con il nome di Turris Leonarde- come possesso dell'Abbazia territoriale di Santa Maria di Grottaferrata, ed in seguito passò ai Colonna.

Altri reperti sparsi
Davanti al Torraccio, un antico sepolcro romano situato al miglio XII della strada statale 7 Via Appia, nel 1823 fu scoperto un diverticolo in basolato di peperino che evidentemente conduceva alle strutture dell'antica città, e che oggi corrisponde all'attuale vicolo del Divino Amore. Il diverticolo, descritto da Antonio Nibby, era sepolto per circa sei piedi di terra e largo dodici piedi, ed aveva impresse le impronte del continuo passaggio delle ruote dei carri.
Accanto al diverticolo, vennero trovati i resti di quella che venne definita "camera da bagno" o parte di un impianto termale. Accanto ad essa, venne rinvenuta una piscina in opera laterizia fatta risalire al II secolo, larga due piedi, lunga quarantotto piedi e alta nove.
Nell'area del diverticolo descritto dal Nibby, in tempi più recenti sono affiorati, nel corso dei lavori per la costruzione della fognatura in via delle Giostre, alcuni reperti romani in peperino.

Luni sul Mignone (Lazio)


Luni sul Mignone è un insediamento preistorico e tardo-etrusco, in cui si protrasse un'attività di culto in epoca medievale, situato nel territorio comunale di Blera a circa 5 km dall'abitato antico di San Giovenale, e accessibile attraverso vie campestri a partire dalla strada che unisce Blera e Monte Romano. La struttura e la posizione delle alture tufacee di Luni e Fornicchio, tra il torrente Vesca ed il fiume Mignone a sud (la confluenza tra i due corsi d'acqua si trova proprio presso l'altura di Luni), ed il fosso Canino a nord, ne fanno luoghi naturalmente fortificati e di notevole suggestione.
Luni sul Mignone è un complesso abitativo dell'età del bronzo di rango primario che, nell'ambito della classe dei centri maggiori dell'area medio tirrenica, si può tuttavia considerare eccezionale solo perché sfuggito all'indifferenza e quindi alla dispersione del suo potenziale informativo grazie alla indimenticata corrusca stagione dell'archeologia regale svedese degli anni '50 e ‘60 del XX secolo.
La natura litologica e l'aspetto morfologico del supporto orografico hanno costituito la condizione di maggiore attrazione per le comunità protostoriche; si può sostenere che la formazione tabulare che l'erosione ha ritagliato dai vasti pianori originali - il Pian di Luni - rappresenta in modo esemplare le castelline dell'Etruria meridionale.

La località è occupata già nel Neolitico, per motivi in parte diversi da quelli che determinano l'occupazione dell'età del bronzo; infatti gli abitati neolitici del circondario si trovano per la maggior parte in pianura o su pendii e terrazzi; quelli su area difesa non si connotano come particolari per quantità e qualità dei ritrovamenti e in ogni caso non rivelano continuità per più fasi. A Luni, in particolare, le tracce di abitato neolitico riguardano solo un settore marginale dell'area difesa, il terrazzo dei Tre Erici.
Nell'età del bronzo l'occupazione attestata da frammenti dell'aspetto ceramico di Norchia è stata, sia pure problematicamente, ritenuta un precedente significativo dell'occupazione protostorica protrattasi per quasi un millennio, dall'inizio del Bronzo Medio fino al Bronzo Finale.
Sono visibili le fondamenta di abitazioni risalenti alla Cultura Appenninica, lunghe capanne quadrangolari con tetti a due falde fogliate e fondi parzialmente scavati nel tufo, abitate da diversi gruppi di famiglie. Queste capanne si trovavano al centro del pianoro, che era delimitato da lunghi e profondi fossati difensivi. Numerosi frammenti di ceramica micenea attestano i contatti con i popoli dell'Egeo.
Come per San Giovenale, San Giuliano, Blera e numerosi altri insediamenti circostanti, il consolidamento e la crescita demografica si arrestano nell'età del bronzo finale, allorché il loro abbandono corrisponde alla nascita degli stati della prima età del ferro, i cui centri gravitazionali (Cerveteri e Tarquinia) distano qualche decina di chilometri da questo settore delle valli del Mignone e della Vesca.
L'area difesa di Luni, le cui dimensioni sono tra i sette e gli otto ettari (nell'accezione estensiva che comprende nel perimetro dell'insediamento anche la castellina minore del Fornicchio), è dotata di una buona posizione rispetto alle principali vie idrografiche, compreso il collegamento con il mare, e al controllo visivo del territorio circostante. La distanza tra Luni e San Giovenale, che corrisponde a 5 km, deve ritenersi esemplificativa di un modulo che viene a ripetersi costantemente tra i maggiori abitati dell'età del bronzo di questo territorio. La morfologia dei rilievi di Luni venne in parte deformata dal passaggio della ferrovia Capranica-Civitavecchia che ha tranciato l'istmo che collegava Luni a Monte Fortino, il quale, in passato ha a volte dato nome all'intera area. Il toponimo corretto e mai dimenticato nell'uso locale è Luni e più precisamente Pian di Luni quando ci si voglia riferire al pianoro che gli archeologi svedesi hanno chiamato "acropoli".
In contrapposizione alle ipotesi secondo cui si tratterebbe di un abitato a due poli o addirittura di due distinti abitati, Luni e Fornicchio, gli archeologi propendono per la ricostruzione di un insediamento unitario il cui perimetro, decorrente lungo un ciglio pressoché ininterrotto, racchiude il Pian di Luni e il Fornicchio con la sella e il terrazzo intermedi. Sul Pian di Luni fu tracciata dagli archeologi svedesi una trincea esplorativa nel senso della lunghezza; questa rivelò lo stato di abrasione del banco di tufo litoide e la perdita della maggior parte dei depositi e delle strutture che pure dovevano essere state numerosissime come dimostrano i moltissimi buchi da palo venuti in luce nell'occasione. In condizioni peggiori, a causa di antiche attività di cava, versava la sommità del Fornicchio, altresì cosparsa di "post holes".
In epoca etrusca non vi furono insediamenti di particolare rilievo fino a quando, nel IV secolo a.C. in occasione della guerra mossa da Roma per la conquista di Tarquinia, l'altura fu fortificata ed ospitò probabilmente un presidio militare.
Sul Pian di Luni vi è anche una piccola chiesa cristiana, impiantata in una struttura monumentale dell'età del bronzo finale e circondata da tombe a fossa.
L'Istituto Svedese di Studi Classici di Roma vi ha condotto campagne di scavo archeologico nei primi anni sessanta del 1900 quando il sostegno alle ricerche proveniva dal diretto coinvolgimento del sovrano Gustavo VI Adolfo, appassionato di archeologia fin da età giovanile.

Castra Albana (Lazio)

 

Castra Albana erano un accampamento fortificato stabile della Legio II Parthica in Italia fondato dall'imperatore Settimio Severo (193-211) nel sito dell'attuale centro di Albano Laziale. Attualmente, le rovine delle strutture interne ai castra, delle terme di Caracalla e dell'anfiteatro romano di Albano Laziale rappresentano una delle maggiori concentrazioni urbane di resti archeologici di età romana nel Lazio fuori da Roma.
La cerchia muraria

Come tutti i castra romani, i Castra Albana seguono uno schema urbanistico rigoroso: si presentano come un grande rettangolo fortificato, dotato di quattro porte (praetoria, decumana, principalis sinixtra e principalis dextra), con gli angolo arrotondati e rinforzati da torrette circolari (caratteristica anomala, simile ai castra del Vallo di Adriano nel Regno Unito). La tecnica di costruzione è l'opus quadratum, in una delle sue più tarde comparse nell'Agro Romano (sarà sostituita dall'opus latericium). Il materiale da costruzione è il peperino, estratto in situ dal suolo vulcanico su cui sorgono i castra, con notevole risparmio di tempo e denaro: la costruzione fu resa difficile dall'infelice posizione dell'accampamento, posto su un declivio con pendenza all'11%, situazione che richiese alcune soluzioni tecniche come una diversa disposizione dei blocchi secondo la pendenza dei vari punti delle mura. Il perimetro della cerchia è di 1 334 metri: il lato nord-ovest misura 434 metri, mentre il parallelo lato sud-est misura 437 metri, ed i lati corti misurano 224 metri quello a nord-est e 239 quello a sud-ovest. L'area complessiva si aggira di conseguenza sui 95 000 metri quadrati.
Lato nord-est

All'inizio del lato nord-est della cerchia muraria si trova subito traccia di una probabile torretta circolare di rafforzamento, inglobata nell'edificio della Società del Sacro Cuore di Gesù presso la chiesa di San Paolo fino alla completa distruzione dello stesso in un bombardamento aereo anglo-americano durante la seconda guerra mondiale: oggi l'edificio ricostruito ospita il seminario vescovile ed un centro di formazione professionale. La stanza rotonda all'interno del convento, descritta prima della guerra, misurava 3,63 metri di diametro ed era coperta da una cupola bassa in opera a sacco di cattiva fattura, probabilmente un rifacimento moderno.
Andando oltre il muro romano è nel suo tratto meglio conservato per una cinquantina di metri, poiché funge da divisione tra le proprietà del seminario vescovile e dei Missionari del Preziosissimo Sangue che reggono la chiesa di San Paolo. Questo tratto fu costruito con la massima cura, poiché doveva fungere anche da muro di sostruzione del terrapieno esterno, alto fino a quattro metri: per questo è anche il più monumentale e robusto. Non rimane traccia della porta decumana che si doveva aprire circa alla metà di questo tratto, e che probabilmente aveva accesso attraverso una scala o un piano inclinato.
Oltrepassata via San Francesco d'Assisi, sulla quale fino alla seconda metà dell'Ottocento si apriva la medioevale porta dei Cappuccini, il muro prosegue lungo via Tacito, nella proprietà delle Figlie di Maria Immacolata: all'angolo della proprietà coincide l'angolo arrotondato del muro antico, ancora visibile, che non presenta segni della presenza di una torretta circolare, ma solo di una disposizione dei blocchi di peperino più accurata e più forte.
Lato sud-est

Questo è il lato meglio conservato, sul quale rimangono anche i resti di una torretta di guardia rettangolare e della porta principalis sinixtra, oltre al tratto più lungo di muro, conservato per ben 142 metri su via Castro Partico.
Ancora nella proprietà delle Figlie di Maria Immacolata, stavolta su via Castro Partico, ad una sessantina di metri dall'angolo arrotondato il muro ingloba una torretta di guardia rettangolare adibita attualmente ad uso colonico: il vano misura all'interno 5,90 metri per 3,85, lo spessore dei muri è di 0,90 metri (tranne quello esterno, spesso inspiegabilmente 0,59) e l'ingresso è rimasto lo stesso antico, verso l'interno dei castra, largo 1,78 metri. Oltre, il muro continua nella recinzione moderna del cortile del Liceo classico statale Ugo Foscolo, e circa duecento metri più a valle si trovano i resti della porta principalis sinixtra, l'unica delle due portae principales di cui ad oggi siano visibili resti.
La porta, considerata dall'archeologo Giuseppe Lugli uno degli avanzi più belli dei castra, consta di un unico fornice dove i conci si riuniscono ad incastro con i blocchi orizzontali del muro: è larga 3,85 metri e non si trovano tracce di torrette di guardia ai suoi lati. A valle della porta, situata accanto all'edificio del vecchio ospedale civico, attuale caserma dei vigili urbani, non è possibile riconoscere alcuna traccia del muro: non rimane traccia neppure dell'angolo arrotondato rinforzato con una torretta circolare che doveva essere situato all'imbocco dell'attuale via San Francesco d'Assisi.
Lato sud-ovest

Alcuni resti del muro in questo lato furono rinvenuti nel 1913 durante dei lavori nell'attuale piazza Giosuè Carducci, ed altri sono inglobati nelle fondazioni delle case moderne: gli avanzi più sostanziosi del lato sono tuttavia quelli della porta praetoria, proprio davanti a palazzo Savelli. Situata al centro del muro, la porta era inglobata in un edificio moderno fino a che il devastante bombardamento aereo anglo-americano del 1º febbraio 1944 non permise la "liberazione" del monumento romano: esso consta di tre fornici e due ambienti laterali, supposti come torrette di guardia. Il fornice centrale misura circa 3 metri per 5 ed è alto 14 metri, mentre i due fornici laterali misurano poco più di 1 metro per 5. I due ambienti laterali misurano 5,40 metri per 5 ciascuno.
Più oltre verso nord, il muro è visibile a tratti nei locali terreni con affaccio su via San Pancrazio: dalla stessa strada, parallela al "corso di sopra", si accede ai resti dell'unica torretta di guardia circolare ben conservata, situata 3,40 metri sotto l'attuale piano di calpestìo di via Alcide de Gasperi. In realtà l'edificio si presenta di problematica decifrazione: la volta dell'unica stanza è situata solo 1,60 metri sopra il piano dell'intervallum, ed anche ammettendo che esistesse un secondo piano per Giuseppe Lugli, la torre non avrebbe raggiunto un'altezza plausibile per essere una torre di guardia. La conclusione è pertanto che questa sia una costruzione speciale, simmetrica forse solo alla torre dell'angolo sud-est oggi perduta. Ad ogni modo il locale misura 1,20 metri di diametro e 2,10 di altezza, e lo spessore dei muri è di 0,90 metri.
Lato nord-ovest
La maggior parte del muro di questo lato dopo la summenzionata torretta circolare è interrata sotto alla case moderne: si può intuire il sito della porta principalis dextra, situato in un cortile interno su via don Giovanni Minzoni. Il muro poi procedeva a filo delle facciate delle case sul lato sinistro dell'attuale via san Gaspare del Bufalo, braccio di mezzo del "tridente di strade" seicentesco, ed arrivava nel sito dell'attuale piazza San Paolo, dove durante alcuni lavori idrici nel 1904 furono rinvenuti alcuni resti, disposti a strati orizzontali per vincere la fortissima pendenza del terreno. Quindi, il muro si ricollega con l'angolo descritto nel lato nord-est.
La rete stradale
La viabilità dei castra romani era estremamente schematica e razionale, e prevedeva un sistema basato su due assi ortogonali e sulle loro strade parallele. Gli assi erano la via praetoria e la via principalis: la prima attraversava per tutta la lunghezza il castra congiungendo la porta praetoria alla porta decumana, passando anche per il praetorium, mentre la seconda lo attraversava per tutta la larghezza congiungendo le portae principales.
Ad Albano sono stati scavati tratti di entrambe queste strade: della via praetoria solo un breve tratto, presso la porta omonima in via Alcide De Gasperi, mentre della via principalis restano due tratti, uno prossimo alla porta principalis sinixtra, l'altro in via San Francesco d'Assisi, rinvenuto durante gli scavi archeologici del 1915-1916 a 1,10 metri sotto il piano di calpestìo attuale: è questo il tratto più importante, perché dotato tanto di crepidini laterali che di canaletti di scolo. Negli anni ottanta alcuni scavi eseguiti dal museo civico di Albano Laziale e dalla ditta Ramacci nel sito del demolito seminario in via Castro Pretorio hanno portato alla luce l'incrocio tra la via principalis ed una parallela della via praetoria: interessante il particolare che in età medioevale la strada era stata ostruita con alcuni pilastri in peperino, segno del restringimento dell'area abitata.
Oltre alle tre strade menzionate, è stato possibile individuare l'ubicazione solo di un'altra strada interna ai castra, la via quintana, che collegava le torri di guardia rettangolari: dato il sito di una di queste in via Castro Partico, i resti di una strada sono stati rinvenuti perpendicolarmente alla stessa in via San Francesco d'Assisi, poco più a monte del liceo ginnasio statale Ugo Foscolo.
Resti abbastanza abbondanti appartengono alla circumductio, la strada che girava attorno alle mura all'esterno, e all'intervallum, la strada che invece girava attorno alle mura all'interno.
Per quanto riguarda la circumductio, i tratti affiorati si trovano: lungo il lato nord-est sull'attuale via Tacito; lungo il lato sud-ovest presso la summenzionata torre di guardia rettangolare in via Castro Partico, presso la porta principalis sinixtra, a 18 metri dalla porta ed a 1,50 sotto al piano di calpestìo, e più a valle nel parcheggio pubblico a pagamento; lungo il lato sud-est in via San Pancrazio a 0.50 metri sottoterra; lungo il lato nord-ovest in piazza della Rotonda, in via San Gaspare del Bufalo ed in piazza San Paolo. Dell'intervallum restano un terrapieno sul lato nord-est, un buon tratto presso la porta praetoria e all'inizio di via Aurelio Saffi sul lato sud-est, poi alcuni tratti in piazza San Paolo sul lato nord-ovest.
All'esterno dei castra, sotto l'attuale corso Giacomo Matteotti, sono stati rinvenuti ampi tratti del basolato della via Appia Antica, ed alcuni tratti alla fine di viale Risorgimento ed in viale Europa.
Ignoto è in che modo venisse superato il dislivello (sei metri di differenza su una distanza di venti metri) tra la via Appia Antica e la porta praetoria: si suppone che esistesse una gradinata per i pedoni assieme ad una o due strade carrabili che dalla porta raggiungevano la regina viarum con una curva, come fa pensare un tratto di strada rinvenuto negli anni ottanta sotto palazzo Savelli, durante la realizzazione dei bagni pubblici, orientato in direzione nord-sud.
Gli edifici interni
L'"edificio rotondo"

L'"edificio rotondo" oggi noto come santuario di Santa Maria della Rotonda è la struttura romana meglio conservata di Albano: l'interno, circolare, della circonferenza massima di 49,10 metri, imita in scala ridotta, il Pantheon di Roma. Tuttavia, l'edificio non venne edificato contemporaneamente ai castra, ma precedentemente, in età domizianea, probabilmente come ninfeo della villa di Domiziano a Castel Gandolfo. In seguito fu restaurato ed inglobato nel complesso severiano, ed adibito o ad uso termale, o a luogo di culto: la prima ipotesi sarebbe indotta dal pavimento a tessere musive bianche e nere con figure mitologiche, oggi collocato nel portico del santuario, la seconda da un'ara pagana di peperino e da alcune sepolture rinvenute durante gli scavi archeologici del 1935-1938. Dopo l'età severiana, la struttura fu usata come granaio o luogo di culto, prima della conversione ad uso cristiano databile all'VIII secolo circa.
Le "thermae parvae"
Alcuni avanzi individuati nel sottosuolo presso piazza della Rotonda e via don Giovanni Minzoni sono stati chiamati in alcune ricostruzioni dei castra "thermae parvae", "terme piccole", per distinguerle dalle "thermae magnae", le "terme grandi" ovvero le terme di Caracalla. Questi resti termali si hanno sotto alcune case in via don Giovanni Minzoni: si tratta di due corridoi alti circa due metri, e larghi 2.70 metri il primo e 3.29 il secondo, sui quali si aprono una serie di nicchie. La costruzione è stata completamente realizzata in opera reticolata in peperino durante l'età severiana, ed è una delle ultime costruzioni realizzate con questa tecnica nell'Agro Romano: probabilmente è un criptoportico termale, collegato ad altri locali ad uso termale siti in piazza della Rotonda, presso il moderno palazzo Vescovile.
Gli alloggiamenti dei soldati
Degli edifici interni ai castra non resta granché: alcuni terrazzamenti, probabilmente appartenenti ad alcune caserme o alloggiamenti dei soldati, sono state scoperte nell'area della retentura (la parte dei castra situata tra il praetorium e la porta decumana), all'interno delle proprietà del seminario vescovile e delle Figlie di Maria Immacolata in via San Francesco d'Assisi. Questi ultimi avanzi constano di cinque muri sostruttivi disposti su livelli, ed il secondo di essi conserva ancora tracce di una tramezzatura che originava stanze ampie circa 6 metri.
Durante gli scavi archeologici del 1915-1916 vennero alla luce lungo tutta via San Francesco d'Assisi dalla torretta rettangolare fino alla porta principalis sinixtra muri di stanze larghe 4.50 metri per 4.50, in varie tecniche costruttive, soprastanti a muri anteriori risalenti circa al I secolo a.C.
Altri resti indecifrabili di muri paralleli tra loro furono rinvenuti nel 1914 presso il lato nord-ovest, in piazza della Rotonda: dalla loro posizione non allineata con i castra e da un bollo di età adrianea si suppone che siano degli edifici anteriori ai castra rasi al suolo per costruire le mura e gli alloggiamenti. "Un complicato intrico di muri" è quanto si trova sotto piazza della Rotonda, dove nel 1915-1916 gli scavi misero in luce resti di stanze misti a blocchi di peperino caduti dalle vicine mura del lato nord-ovest. Altre stanze furono individuate in piazza San Paolo nello stesso periodo. In generale, gli alloggiamenti erano realizzati in opus latericium della fine del II secolo intercalata da blocchetti di peperino. Negli anni ottanta sono stati individuati nuovi resti di alloggiamenti, ed anche un edificio porticato, scavando il sito archeologico di via Castro Pretorio.
"I Cisternoni"

La cisterna più monumentale dei castra si trova sotto la proprietà del seminario vescovile, con accesso sia da piazza San Paolo che da via San Francesco d'Assisi: viene confidenzialmente chiamata dagli albanensi "i Cisternoni". I lati lunghi misurano 45,50 e 47,90 metri, mentre i lati corti sono di 29,62 e 31,90: la superficie è di 1 436,50 metri quadrati, con una capacità di 10 132 metri cubi d'acqua. La struttura, a cinque navate, è scavata il più possibile nel peperino, per una profondità tra i 3 ed i 4 metri: l'altezza oscilla intorno ai 6,50 metri. Da alcuni elementi ornamentali rinvenuti nel 1830 e nel 1884 si suppone che almeno il fronte della monumentale struttura fosse ornata. Fino agli anni venti si conosceva un solo cunicolo di alimentazione per la cisterna, situato nel lato nord-est: l'archeologo albanense Giuseppe Lugli, ne scoprì un secondo, più antico, sullo stesso lato, che serviva la cisterna attraverso un complesso sistema a caduta. L'acqua arrivava ai "Cisternoni" dalle sorgenti di Malafitto e Palazzolo, presso il lago Albano. La cisterna fu rimessa in uso nel 1884 dal Comune di Albano, ma per motivi di igiene ridotta ad uso di irrigamento nel 1912: attualmente l'interno è visitabile.
Altre cisterne, condutture d'acqua e fogne
Una particolare cisterna dalla forma allungata (lunghezza 30 metri circa, larghezza 4,16 metri) con volta a botte fu rinvenuta sotto via Aurelio Saffi: probabilmente è una parte di una cisterna più vasta, non ancora individuata. Della cisterna, resta ancora un buon tratto del cunicolo di alimentazione, orientato in direzione nord-est.
La rete fognaria dei castra doveva essere capillare, e scaricava secondo il pendio della collina verso la fogna principale che correva sotto l'intervallum in via Alcide De Gasperi: il primo tratto della fogna principale, larga 0,90 metri, fu rinvenuto nel 1915-1916 all'incrocio con via San Francesco d'Assisi.
Il "praetorium"
Non si conosce nulla del praetorium, l'edificio principale dei castra: è noto solo che, dovendo trovarsi all'incrocio tra la via praetoria e la via principalis, doveva trovarsi sotto un isolato di case all'inizio di via Aurelio Saffi.
Le terme di Caracalla

Le terme di Caracalla o di Cellomaio sono ancora oggi una delle testimonianze più vistose dei castra nel loro periodo di massimo splendore: fondate dall'imperatore Caracalla ad uso della legione in età successiva alla costruzione dei castra ma anteriore alla costruzione dell'anfiteatro, oggi ospitano al loro interno un intero quartiere medioevale: il locale meglio conservato delle terme è l'aula rettangolare di 37 metri per 12 che ospita la chiesa di San Pietro (nella foto).
Nel sottosuolo della sagrestia della chiesa e della vicina via Cellomaio si trova un pavimento a tessere musive bianche e nere: altri cospicui resti si trovano nel giardino delle Suore di Gesù e Maria, sotto al cui convento si trova probabilmente l'ipocausto di riscaldamento delle acque.
La struttura dell'edificio è costituita da un nucleo cementizio di scaglie di peperino, interrotto a tratti da laterizi, rivestito da mattoni.
Il sepolcreto della Selvotta
I primi ritrovamenti presso la Selvotta, una località situata ai confini comunali tra Albano Laziale ed Ariccia, furono effettuati nel 1866 da un contadino, tale Lorenzo Fortunato, ed analizzati dal giovane archeologo russo Nicola Wendt. L'archeologo tedesco Wilhelm Henzen fu il primo ad ipotizzare che i frequenti riferimenti alla Legio II Parthica trovati nelle epigrafi rinvenute alla Selvotta dovessero ricollegarsi ad un sepolcreto della stessa legione, situato a poca distanza dai castra. Campagne di scavo e di ricognizione nella zona furono promosse alla fine dell'Ottocento dallo stesso Henzen, da Hermann Dessau, da Rodolfo Lanciani, e poi nel Novecento da Giuseppe Lugli nel 1908, nel 1910, nel 1913, nel 1945 e nel 1960-1962 e da Maria Marchetti Longhi nel 1916.
Negli anni sessanta si erano rinvenute così una cinquantina di tombe, di cui due terzi provviste di iscrizione sepolcrale: tutte presentavano la stessa tipologia di realizzazione, con le casse scavate nella roccia viva di peperino ed i coperchi realizzati in un blocco monolitico della stessa pietra, in genere a forma di tetto o di coperchio. Nella campagna di scavi del 1960-1962 si rinvennero due anomalie tra le sepolture: un cippo sepolcrale a colonna spezzata, caratteristico delle sepolture orientali, ed una tomba a cremazione, l'unica del sepolcreto. Assieme ai soldati, erano sepolti anche le loro mogli ed i loro figli: non c'era ordine nella disposizione delle tombe, anche se spesso sono riunite in gruppi. Dall'analisi delle epigrafi sepolcrali, si evince che la maggior parte dei soldati porta il praenomen Aurelius, sicché si deduce che furono arruolati nel periodo di massimo splendore della legione, tra Caracalla (211-217) ed Eliogabalo (218-222). Le donne, invece hanno nomi italici.
Documentazione epigrafica
Sono rari i testi epigrafici riguardanti la Legio II Parthica, ed una grande quantità di essi fu rinvenuta proprio presso il sepolcreto sito in località Selvotta: questa grande concentrazione di iscrizioni (CIL XIV, 3367, CIL XIV, 3368, CIL XIV, 3369, CIL XIV, 3370, CIL XIV, 3371, CIL XIV, 3372, CIL XIV, 3373, CIL XIV, 3374, CIL XIV, 3375, CIL XIV, 3376, CIL XIV, 3377, CIL XIV, 3400 e molte altre)[67] ha permesso agli archeologi, primo fra tutti Wilhelm Henzen, di collocare senza esitazione i Castra Albana presso l'attuale Albano Laziale.
Tra le iscrizioni afferenti alla legione ed ai castra, la più notevole è quella del CIL XIV, 2255, mentre CIL XIV, 2257 è un augurio di "vittoria eterna" ad Eliogabalo, dove la legione viene chiamata "Antoniana" dal nome completo dell'imperatore regnante: lo stesso era avvenuto anche sotto il principato di Settimio Severo o di Alessandro Severo, quando la legione era chiamata "Severiana" (denominazione più ricorrente, in CIL XIV, 2274, CIL XIV, 2276, CIL XIV, 2285, CIL XIV, 2290, CIL XIV, 2291, CIL XIV, 2293, CIL XIV, 2294, CIL XIV, 2296) e sarebbe avvenuto sotto il principato di Filippo l'Arabo con la legione chiamata "Philippiana" (CIL XIV, 2258).
Se nella summenzionata iscrizione del CIL XIV, 2255 si parla di un tempio consacrato a Minerva, in ben due iscrizioni (CIL XIV, 2253 e CIL XIV, 2254) viene citato un sacello dedicato a Giove ed in una (CIL XIV, 2256) di un altare dedicato al Sole ed alla Luna. Gli ultimi ritrovamenti epigrafici riguardanti la legione partica ad Albano sono una serie di latercoli ("piccoli mattoni, piastre o tavolette di terracotta") che riportano alcuni nomi di legionari (CIL XIV, 2267, CIL XIV, 2268, CIL XIV, 2293): il più antico di questi reperti risale al 226, il più tardo venne riutilizzato nelle fondazioni della cattedrale di San Pancrazio in età costantiniana.
Esistono unicamente tre menzioni della Legio II Parthica in Italia ritrovate fuori dal territorio albanense: una (CIL XIV, 4090) presso il tempio di Diana Aricina sul lago di Nemi, nel vicino comune di Nemi, dove nel 1884 fu ritrovata una tegola dedicata dalla legione alla dea, finora unico esempio di tegola votiva di un corpo militare nel Lazio assieme ad un altro esemplare scoperto nel 1910 ad Ostia, e dedicato dalla VI coorte dei vigiles urbani;[72] le altre due (CIL V, 865, CIL V, 866) presso Aquileia, nella Regio X Venetia et Histria. In Oriente, iscrizioni concernenti la legione si trovano in Mesopotamia (Iraq settentrionale) ed in Siria (Palestina).

domenica 13 ottobre 2024

Hydriai ceretane

 

Le hydriai ceretane sono un gruppo di ceramiche datate, in base al confronto dei drappeggi dipinti con quelli della ceramica attica, all'ultimo terzo del VI secolo a.C. Le circa quaranta hydriai che compongono questa serie sono state restituite in gran parte dagli scavi della necropoli etrusca di Caere.
Si tratta del prodotto di un'unica officina che è stata variamente situata sulle coste dell'Asia Minore o in una colonia greca del sud Italia. È probabile che l'origine delle hydriai ceretane sia da porre a Caere, ma ad opera di maestri di origini greco-orientali e più precisamente provenienti dalla Ionia settentrionale o dall'Eolide: lo stile, i soggetti, e l'alfabeto ionico sull'hydria di Odios al Museo del Louvre, epigraficamente databile al 530 a.C., sembrano essere indicazioni sufficienti al riguardo. Le influenze ioniche sul mondo attico erano state facilitate in questo stesso periodo dalla migrazione degli artisti ionici che sfuggivano alla dominazione persiana; alcuni di questi artisti devono essersi stabiliti in occidente.
Le hydriai ceretane sono alte circa 40 cm e hanno una forma che sembra derivare da prototipi metallici. L'ampia spalla è divisa dal collo tramite un filetto rialzato, il colore dell'argilla varia dal giallo scuro al marrone, tendente al rosa o all'arancio, un tipo di colorazione più usuale in Etruria che in Grecia. L'interno del collo e le anse sono verniciati di nero. Il labbro è internamente decorato
con linguette di colore alternato bianco e porpora steso su base nera; l'esterno invece presenta un meandro, una spina di pesce o altri motivi astratti. Sul collo si trovano motivi decorativi come svastiche o fiori di loto intrecciati con stellette.
Solitamente, la spalla è separata dal corpo tramite una linea di vernice nera ed è decorata con foglie d'edera o altro ornamento fitomorfo stilizzato, come le rosette protocorinzie. La parte posteriore è divisa in due campi dal manico verticale che reca
una palmetta policroma all'attaccatura inferiore. I campi di questa zona posteriore ospitano solitamente figure in posizione simmetrica, piccole scene a soggetto animalistico, cavalli e cavalieri, raramente una seconda narrazione mitologica affianca quella principale che si trova sul lato anteriore del vaso. La decorazione a linguette policrome si ripete presso l'attaccatura delle anse orizzontali e sul piede. Il ventre è diviso in zone da altre due linee di vernice nera: nella zona superiore trova posto la scena figurata principale, nella zona mediana si trova un fregio fitomorfo e in quella inferiore una fascia di raggi.
Lo stile è vivace e colorato, con inserti decorativi contenuti e controllati; le aggiunte bianche e rosse sono solitamente poste su un fondo di vernice nera di preparazione. I contorni e i dettagli interni delle figure sono incisi accuratamente. Una grande capacità di
osservazione diretta si mostra nel trattamento delle figure, solitamente solide e carnose. I dettagli paesistici e l'attenzione alla rappresentazione della natura ricordano il gusto che informa certe produzioni ioniche (si pensi alla Coppa dell'uccellatore, Louvre F68). L'aspetto narrativo è ispirato ai maestri attici; oltre alle scene a contenuto dionisiaco o alle scene di caccia, si trovano narrazioni mitologiche, spesso ispirate alla figura di Eracle, ma trattate con originalità e animazione e con intento umoristico, evidente anche nella esagerazione dei gesti delle figure; ne sono esempio, oltre alla già citata hydria con Eracle e Busiride, l'hydria del Louvre E701 con Euristeo che, spaventato da Cerbero condotto da Eracle, si nasconde in un pithos, e la E702 sempre al Louvre con il furto delle mandrie di Apollo da parte di un Ermes fanciullo.
Jaap M. Hemelrijk ha ricondotto l'intera produzione a due pittori,
distinti in base a particolarità grafiche: il Pittore dell'aquila, forse il più anziano, e il Pittore di Busiride la cui attività non sembra poter essere anteriore al 525 a.C. e il cui vaso eponimo è la nota hydria del Kunsthistorisches Museum di Vienna (n. inv. 3576). Con la presenza nella bottega di alcuni discepoli si spiega la presenza all'interno del gruppo di esemplari di qualità inferiore come l'hydria del Museo dei Conservatori con il ritorno di Efesto sull'Olimpo.
La cronologia relativa delle hydriai si basa sull'analisi dell'evoluzione di alcuni elementi decorativi e in particolare delle palmette alla base dell'ansa verticale. La datazione assoluta per l'inizio della produzione è posta, come già accennato, al 530 a.C. Sulle ultime opere del gruppo è rintracciabile una dipendenza dai Pionieri delle figure rosse attiche nel trattamento dei panneggi, il che pone queste creazioni al 510 a.C. circa. L'aderenza alla contemporanea moda ateniese si mostra anche nella diminuzione della vivace policromia,
tipicamente ionica, nelle opere dell'ultimo periodo.

Ceramica cicladica

 


La ceramica cicladica descrive la produzione vascolare e ceramica delle isole Cicladi nell'età del bronzo e nell'età del ferro.
La produzione delle officine cicladiche era destinata prevalentemente ad uso locale; numerosi reperti sono stati ritrovati nell'isola sacra di Delo che raccoglieva le offerte dalle isole vicine, molti altri nella vicina isola di Rheneia, o Grande Delo, dove furono portati i materiali provenienti dalle tombe della Piccola Delo in seguito alla purificazione ordinata dagli Ateniesi nel 426-425 a.C. (Tucidide I, 8; III, 104); il racconto dello storico greco è stato confermato dagli scavi del 1898-99. 
La fase orientalizzante del VII secolo a.C. è subito recepita nelle isole mischiandosi al subgeometrico, non vi fu invece alcuna accoglienza per la tecnica a figure nere; gli ottimi ma isolati artigiani cicladici non riuscirono a fondare una scuola che fosse autonoma e allo stesso tempo aperta agli stimoli provenienti dagli altri centri di produzione, l'unica eccezione fu la "scuola melia" che tra VII e VI secolo a.C. riuscì a trarre ispirazione dalle maggiori scuole contemporanee. La "ceramica melia" a differenza degli altri gruppi della ceramica cicladica, è stata regolarmente esportata.
L'argilla cicladica è generalmente tendente al rosa ed è ricoperta da un ingubbio color crema; le figure sono dipinte con una vernice marrone scura. Tipiche e note sono le anfore cicladiche caratterizzate da un aspetto slanciato con corpo ovoidale e ampio collo cilindrico, dalle quali si differenziano le anfore a corpo globulare prodotte a Paro.
Dopo un periodo di influenza cretese (1600-1200 a.C.) la civiltà cicladica subì una fase piuttosto lunga di decadenza e di arresto. Durante la fase protogeometrica le influenze attiche si unirono alla ceramica locale submicenea dando vita a vasi di piccole dimensioni le cui forme più diffuse sono l'oinochoe, la lekythos, lo skyphos e l'anfora con anse sul ventre; la decorazione astratta era costituita da triangoli reticolati, cerchi concentrici, semicerchi e strisce ondulate che a volte si presentano a rilievo insieme a punti a pressione e a tratti incisi. La preminenza dell'influenza attica continuò nel periodo geometrico quando la tipologia più importante divenne l'anfora con anse orizzontali e decorazioni a pannelli e a cerchi concentrici o iscritti con croci (Milo e Nasso). A partire dalla seconda metà dell'VIII secolo a.C. (tardo geometrico) l'introduzione di nuovi elementi decorativi fu conseguenza di una suddivisione degli spazi indipendente dai modelli attici che favorì il differenziarsi di quattro scuole principali localizzate a Nasso, a Paro, Milo e Thera. Tipici di Nasso sono gli skyphoi a tre metope con al centro la clessidra quadrettata, o il quadrifoglio, e con uccelli ai lati.
Thera

La ceramica geometrica di Thera (750-650 circa a. C.), rinvenuta quasi esclusivamente nella necropoli dell'isola, è decorata con motivi lineari che ricoprono interamente il collo e la spalla, mentre nella parte inferiore del corpo le linee orizzontali si diradano. I motivi astratti sono costituiti da meandri, false spirali, zig-zag e cerchi con disegno iscritto (rosette o stelle); il motivo figurato tipico è costituito da una serie di uccelli simili a gru. Appartengono alla fase orientalizzante i rinvenimenti della classe Linear Island con cavalli al pascolo, leoni ed esseri fantastici come sfingi, sirene e grifi.
Paro .
Linear Island
La classe ceramica che Humfry Payne nel 1926 ha chiamato Linear Island corrisponde a quella che Ernst Buschor nel 1929 ha localizzato a Paro e di cui ormai si sostiene la provenienza da Nasso. L'origine resta discussa; quasi tutti i ritrovamenti importanti sono stati fatti a Thera, dove si differenziano sostanzialmente dal contemporaneo subgeometrico del luogo. Si tratta principalmente di anfore a collo separato e con corpo ovoide alte circa mezzo metro. Alla fine dell'VIII sec. a.C. la spalla viene divisa in tre pannelli allungati in senso orizzontale riempiti inizialmente da motivi geometrici e in seguito orientalizzanti sia vegetali sia animali, questi ultimi privati di una struttura corporea per adattarli al pannello. Questo tipo di decorazione, dallo stile elegante e semplice, si trova anche su alcuni crateri. Anche la fase finale del Linear Island è discussa; vi si attribuiscono tre anfore conservate a Leida, Stoccolma (Medelhavsmuseet, con la figura di cervo pascente disegnata a silhouette e a linea di contorno)[ e Parigi (Cabinet des médailles), datate tra il 675 e il 625 a.C. e caratterizzate dalla decorazione con un unico animale sulla spalla.
Ad Group

Il gruppo denominato Ad è contemporaneo del precedente, ma è più contrastato nei toni della decorazione e ha uno stile meno evoluto. L'anfora dal collo separato è di tipo globulare; la decorazione, comprendente cavalli o altri animali, si estende lungo tutta la superficie del collo e della spalla mentre nella parte inferiore del vaso si trovano fasce ornamentali e raggi presso il piede. La decorazione di riempimento, costituita da losanghe e zig zag, riempie gli spazi anche nei pannelli figurati. Oltre all'anfora il gruppo Ad comprende l'hydria, il cratere, l'oinochoe, lo skyphos. Questa classe è stata trovata a Rheneia, Sifno e Paro, ma non a Thera. I dettagli decorativi sono simili allo stile geometrico di Paro e anche l'argilla è simile. È un gruppo compatto in cui molti pezzi sono riconducibili ad una stessa mano. Gli animali hanno affinità con il protoattico e per questa ragione il gruppo è stato datato intorno al primo quarto del VII secolo a.C.
Nasso
The Heraldic group
A Nasso, per una somiglianza con il tardo geometrico del luogo e per le caratteristiche dell'argilla bruno-rossastra, è stato attribuito uno dei gruppi più caratteristici dell'influsso orientale nella ceramica cicladica durante il VII secolo a.C.: il gruppo delle "anfore araldiche" così chiamate per la coppia di animali in posizione araldica dipinta sul collo. La parte inferiore del vaso è decorata a fasce e il retro riporta solo motivi decorativi semplici. 4
Le parti frontali del collo e della spalla ricevono la decorazione principale costituita da un pannello diviso in tre campi da strisce ornamentali. All'interno dei campi figurati si trovano leoni, cavalli, sfingi, spesso protomi, in stile orientalizzante e con figure a risparmio. L'attenzione maggiore più che alle figure è dedicata all'effetto generale del disegno all'interno del pannello. Molti dei vasi che appartengono al gruppo sono riconducibili ad una stessa mano e sono stati trovati prevalentemente nel deposito di Rheneia. Con l'attribuzione a Nasso del gruppo Linear Island, la produzione vascolare dell'isola risulterebbe divisa in due gruppi stilisticamente differenti che coesistono evolvendosi in modo indipendente l'uno dall'altro. La presenza di alcune scene narrative sembra invece derivare dall'influenza delle "anfore melie".
The Protome Group
Il gruppo è formato da un piccolo numero di anfore a collo separato, di hydriai e da una coppa. Il pannello sul collo delle anfore è decorato solitamente con protomi di cavallo o con la parte anteriore di un leone ed è affiancato da pannelli più stretti con decorazioni semplici. Lo stesso tipo di decorazione ricorre sulla spalla, mentre sulla metà inferiore del vaso si trovano bande di vernice nera e porpora alternate; una fascia di raggi decora la zona presso il piede. Il gruppo è di una sofisticata semplicità nell'alternanza delle zone chiare e scure della decorazione e nell'interesse rivolto allo sviluppo della linea che traccia le figure, più che alle figure stesse. Appartiene alla metà del VII secolo a.C. ed è stato assegnato a Nasso come a Paro; i reperti provengono esclusivamente dal deposito di purificazione di Rheneia.
Milo

La massima fioritura dell'orientalizzante cicladico si ha con le "anfore melie". Il gruppo è stato individuato a partire da alcune grandi anfore trovate a Milo e pubblicate nel 1862. Le anfore o i crateri di questa serie raggiungono il metro d'altezza e la decorazione copre l'intero vaso; quella figurata, che può avere soggetto mitologico, si trova sul collo insieme ad una decorazione a doppie volute, e sul lato principale del corpo, mentre il lato posteriore è riservato a cavalli o altre figure di minore importanza. Il motivo fondamentale della decorazione ornamentale è la grande spirale che forma svariate combinazioni; l'ornamento di riempimento è costituito da rosette, svastiche e fiori stilizzati. Esistono versioni più piccole e più semplicemente decorate di questo tipo di anfora e lo stesso tipo di decorazione è applicato alle hydriai e ai crateri, alle anfore a profilo continuo e ai piatti. Nei vasi più antichi del gruppo i cavalli sono stilisticamente individuabili come cicladici, mentre in quelli successivi si avvicinano allo stile delle capre selvatiche. Le figure sono generalmente a risparmio, con parti a linea di contorno; solo nelle anfore più recenti del gruppo compare l'incisione, usata nelle figure animali di derivazione corinzia in sostituzione dei ritocchi bianchi. Il marrone chiaro è usato per le carni maschili e il porpora è usato liberamente. L'analisi dell'argilla dei "vasi melî" trovati a Delo e a Taso ha rivelato l'assenza delle componenti vulcaniche escludendo Milo dalle isole candidate come luogo di origine, mentre i numerosi ritrovamenti e le imitazioni riscontrate a Taso, colonia di Paro, hanno condotto a ritenere quest'ultima il vero luogo di provenienza, insieme ad alcune similitudini riscontrate con il gruppo Ad. Opinioni discordi riguardano la datazione del gruppo: l'inizio dello stile viene posto al secondo quarto del VII secolo a.C. come alla seconda metà.
Negli ultimi "vasi melî" corintizzanti (datati a partire dall'ultimo quarto del VII secolo a.C.) si nota il decadere dello stile, l'unico forse ancora attivo nelle Cicladi in quest'epoca, ormai sopraffatto dall'esportazione corinzia.

Via Lauretana (Toscana)

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