sabato 22 marzo 2025

KOSOVO - Ulpiana


Ulpiana fu un'antica città romana nei Balcani, e capitale della regione storica della Dardania. Nei Balcani ci si riferisce a questa città anche col nome Moesia.
Ulpiana è compresa nella municipalità di Gračanica, in Kosovo. La cittadina Lipljan, nella cui municipalità si trovava fino al 2009, prende il nome dall'antica Ulpiana. Fu fondata nel II secolo durante l'impero di Traiano e rinnovata nel VI secolo durante l'impero di Giustiniano, a seguito del quale fu rinominata Iustiniana Secunda.
Resti della città, distrutta e ricostruita più volte, con la basilica, mosaici e tombe, sono stati trovati a ovest di Gračanica. Durante il periodo cristiano Ulpiana fu un importante centro episcopale. Ad Ulpiana sono stati ritrovati molti reperti come monete, ceramiche, armi, gioielli, ecc.
I resti della città, solo parzialmente portati alla luce, si trovano circa a 1,3 km a ovest di Gračanica, immediatamente a nord della strada che la connette a Laplje Selo.
Ulpiana è anche il nome antico dell'attuale Pristina.

CROAZIA - Spalato, Palazzo di Diocleziano

  

Il Palazzo di Diocleziano si trova in Croazia e, con le sue mura, coincide con il nucleo originario del centro storico della città di Spalato.
Si tratta di un imponente complesso architettonico fatto edificare dall'imperatore Diocleziano, molto probabilmente fra il 293 ed il 305 d.C., allo scopo di farne la propria dimora.
Dopo aver riformato l'Impero romano, con l'entrata in vigore del sistema della tetrarchia, Diocleziano si ritirò a vita privata nel palazzo appositamente fattosi costruire dopo dieci anni dalla sua elezione come Imperatore. Vi visse dal 305 fino alla morte, avvenuta nel 313.
Nel 614 gli Avari e gli Slavi distrussero la città romana di Salona, a pochi chilometri dal palazzo di Diocleziano, ed iniziò il declino della città, quando gli abitanti si trasferirono nel palazzo fortificato.
Il palazzo oggi è quindi il centro storico della città di Spalato e numerose parti di esso sono state riusate nei secoli, permettendo la loro conservazione, seppure con le inevitabili manomissioni stratificate, fino ai giorni nostri come il mausoleo ottagonale dell'imperatore che è diventato l'attuale Duomo in epoca costantiniana.
Nel 1979 è stato iscritto dall'UNESCO nell'elenco di siti e monumenti del Patrimonio dell'umanità ed è stato restaurato in quello stesso anno.
Il palazzo, una sorta di grande villa fortificata, si presentava come una struttura autonoma, cittadella dedicata alla figura sacra dell'imperatore, per il quale esisteva già un mausoleo, destinata quindi ad ospitarlo in eterno.
Strutturata con la pianta tipica degli accampamenti militari romani: due strade perpendicolari, il cardo ed il decumanus, che si intersecano e dalle quali si dipartono numerose vie trasversali perpendicolari a scacchiera, aveva una forma leggermente trapezoidale (il lato sud era leggermente irregolare per il declivio del terreno verso il mare), con un lato affacciato sul mare e quattro poderose torri quadrate agli angoli e il numero delle colonne è 50.
In origine, la sua cinta muraria in opus quadratum, alta 18 m e spessa 2 m, misurava 215,50 m per 175–181 m. In queste mura si aprono tuttora vari torrioni quadrati e quattro porte, affiancate da torri a base ottagonale: la Porta Aurea (a nord), la Porta Argentea (ad est), la Porta Ferrea (ad ovest) e la Porta Aenea o bronzea, sul mare a sud. Le poderose mura furono una sorta di novità rispetto alle ville romane dei secoli precedenti e si resero necessarie per via degli eventi turbolenti della storia romana dell'epoca.
La Porta Aurea è inquadrata da edicolette pensili e sormontata da archetti su colonnine pensili (oggi delle colonne restano solo le mensole di base e i capitelli). Le altre due porte (Argentea e Ferrea) hanno decorazione più semplice. Ciascuna era dotata di controporta e cortile d'armi. Da qui partivano le vie colonnate che dividevano il complesso in quattro riquadri principali: i due a nord ospitavano caserme, servizi e giardini (poco conosciuti, organizzati su peristili centrali e con file di stanzette lungo le mura), mentre la parte meridionale, ove si sono conservate più consistenti vestigia monumentali, ospitava il quartiere imperiale.
Dalla prosecuzione colonnata della strada nord-sud si poteva giungere al portico detto "peristilio", con quattro colonne sostenenti un archivolto a serliana. Attraverso il peristilio verso sud si accedeva a un vano a base circolare coperto da cupola e poi ad un vano rettangolare con colonne che faceva da vestibolo d'accesso agli appartamenti privati dell'imperatore, disposti sul lato lungo il mare, sul quale si affacciavano con un loggiato a semicolonne che inquadravano gli archi; alle estremità e al centro si trovavano tre serliane.
Il peristilio è uno degli ambienti meglio conservati tutt'oggi, e pare che avesse la funzione di scenografia per le cerimonie ufficiali alle quali partecipava come protagonista l'imperatore. Dal peristilio infatti si accedeva ad est e ad ovest ad ambienti di culto:
- A ovest erano presenti due edifici rotondi, di uso sconosciuto, ed un tempio tetrastilo probabilmente dedicato a Giove, del quale restano ancora oggi delle rovine, poi trasformato in battistero (il pronao è però perduto);
- A est si ergeva l'edificio a base ottagonale del mausoleo imperiale (tomba di eccezionale monumentalità destinata all'imperatore), cinto da una serie di colonne (peristasi) e coperto a cupola, all'esterno protetta da un tetto piramidale; in seguito il mausoleo venne trasformato in cattedrale, permettendone la sopravvivenza.
L'appartamento privato era diviso in due metà simmetriche, divise dalla prosecuzione sotterranea della via colonnata. Si conoscono nella parte occidentale le sostruzioni verso il mare e una basilica privata, affiancata da una doppia fila di stanze a pianta centrale, oltre a un complesso termale. La metà orientale del palazzo è conosciuta in maniera scarsa e lacunosa. Il palazzo è un palese esempio dell'architettura nell'età di Diocleziano, improntate a tendenze conservatrici, come per esempio anche nelle terme di Diocleziano a Roma, di impostazione analoga a quelle di Caracalla.
La villa, come alcuni altri esempi tardo-imperiali, è costruita a modello di un castrum, con le mura di cinta e i torrioni, ma fece da ispirazione anche il complesso dei palazzi imperiali del Palatino.
Come tipologia di villa fortificata si conoscono alcune derivazioni coeve, come quella di Mogorjelo in Erzegovina. Suggestioni assolutistiche e orientali sono date dagli ambienti di rappresentanza (soprattutto il "peristilio" con le due ali sacre), assimilabili a quelli del palazzo imperiale di Antiochia e, nel secolo successivo, di Costantinopoli. Orientale è anche la scelta di porre sul fondo gli ambienti di rappresentanza, l'uso di sfingi e delle vie colonnate. La sostanza e la componente ideologica, invece, sono più schiettamente romane, soprattutto nell'aspetto militarizzato e nelle scelte conservatrici dell'impianto.
L'edificio è l'antecedente più vicino ai castelli medievali, ma anche ai monasteri fortificati, con il peristilio che funge da centro. Si ipotizza inoltre che la struttura ottagonale della cattedrale-mausoleo abbia costituito un modello per la tipologia del battistero.

CROAZIA - Tilurium


Tilurium
 è stato un insediamento fortificato degli Illiri in Dalmazia. Fu fortezza legionaria nel I secolo subito dopo la fine della rivolta dalmato-pannonica del 6-9. Qui risiedettero infatti le legioni VII Claudia e XI Claudia.
I Romani, memori della recente fatica per riportare l'intera area sotto il loro dominio (vedi rivolta dalmato-pannonica del 6-9), decisero di lasciare a guardia della nuova provincia di Dalmazia due legioni (la Legio XI a Burnum e la VII a Tilurium) anche come "riserva strategica" a ridosso del limes danubiano, oltre a fondare numerose colonie.
Al tempo dell'Imperatore romano Antonino Pio, poi di Caracalla, fino almeno a Filippo l'Arabo il castellum ausiliario ospitò l'unità cohors VIII voluntariorum Philippiana.

CROAZIA - Sito archeologico di Krapina


Il Sito archeologico di Krapina è un sito archeologico sulla collina di Hušnjak, nei dintorni occidentali della città di Krapina, dove nel 1899 l'archeologo e paleontologo Dragutin Gorjanović-Kramberger, scoprì fino a 900 fossili di uomini di Neanderthal, alcuni dei quali risalenti a 125 000 anni fa.
Alcuni resti neanderthaliani ritrovati in questo sito, sono stati indicati come prova che tra questi ominidi si praticasse il cannibalismo.

CROAZIA - Grotta di Vindija


La Grotta di Vindija è un sito archeologico scoperto a circa 20 chilometri dall'abitato di Donja Voća nella regione di Varaždin, è un sito archeologico associato all'uomo di Neanderthal e all'uomo moderno, di rilevante importanza, in quanto dimostrerebbero la compresenza delle due specie. Tre di questi uomini di Neanderthal sono stati selezionati come fonti primarie per il progetto di studio del genoma dei Neanderthal.



CROAZIA - Atleta di Lussino

 


L'Atleta di Lussino (in croato chiamato anche Hrvatski Apoksiomen, cioè Apoxyómenos croato) è un'antica opera scultorea greca in bronzo, databile tra il I secolo a.C. e il II secolo d.C. Fu rinvenuta per caso nel 1996 da un turista belga durante un'immersione subacquea nel mare presso Lussino, ma il suo recupero fu possibile solo nel 1999. Alta circa 192 cm, essa si inquadra nella ben nota tipologia dell'Apoxyómenos, ovvero la rappresentazione di un atleta colto nell'atto di detergersi il corpo da polvere e sudore per mezzo di uno strigile.
Secondo l'accademico Nenad Cambi, dell'Università di Spalato, l'opera sarebbe una copia di bottega ellenistica del II-I secolo a.C., risalente a un originale scultoreo greco della metà del IV secolo a.C.
Il professor Vincenzo Saladino, dell'Università di Firenze, ritiene invece che il prototipo originale risalga a un'epoca ellenistica, intorno al 300 a.C., di cui l'atleta di Lussino costituisce una riproduzione in copia del I-II secolo d.C.
Un tentativo di attribuzione è stato compiuto dal prof. Paolo Moreno, che ha ricondotto la tipologia della statua a un originale di Dedalo di Sicione, «artista di scuola policletea di terza generazione».
La statua fu scoperta nel 1996 da un turista belga, il sommozzatore René Wouters, presso l'isola di Oriule Grande (Vele Orjule), a una profondità di circa 45 m, adagiata tra due rocce sul fondo sabbioso. La notizia venne inizialmente tenuta segreta per motivi di sicurezza e solo nel 1998 venne portata a conoscenza del Ministero della cultura croato. Il ministero deliberò di affrontare una complessa operazione di prospezione subacquea, con recupero della statua e messa in atto dell'opera di restauro. Per ragioni di opportunità, il ministro Bozo Biskupic decise di riportare in superficie la statua prima di dare inizio alle esplorazioni, ad evitare così che immersioni illegali potessero comprometterne la sicurezza. Fu così che il 27 aprile 1999 la statua fu fatta riemergere, per essere sottoposta a un lungo ciclo di desalinizzazione e restauro conservativo, condotto a Zagabria sotto la guida del prof. Giuliano Tordi dell'Opificio delle pietre dure di Firenze, del prof. Antonio Šerbetić, capo restauratore e direttore del laboratorio per i metalli dell'Istituto Croato per il Restauro di Zagabria e del prof. Andrea Šimunić, dell'ufficio dell'Istituto Croato per il Restauro di Zagabria, con la collaborazione di esperti dei Musei civici di Como.
Ultimati gli interventi conservativi, la statua è stata esposta presso il Museo Archeologico di Zagabria dal 17 maggio al 30 settembre 2006. Dal mese di ottobre 2006, e fino al 30 gennaio 2007, l'opera è stata in tour in Italia: esposta a Firenze nelle sale del Palazzo Medici Riccardi, è stata visitata da circa 80.000 visitatori, facendo registrare un notevole incremento della normale affluenza al museo.
La statua affondò in mare in un'epoca sicuramente non vicina alla data della sua fusione, come è stato rivelato dall'esame del materiale presente nella parte cava del bronzo. Essa - in base alla radio-datazione al carbonio-14 del materiale organico trovato all'interno della statua (un nocciolo di pesca e un rametto) - risalirebbe a un'epoca di prima età imperiale, tra il 20 a.C. e il 110 d.C. All'inizio del II secolo d.C. la statua atletica era quindi già antica ed era anche passata per alcune traversie: alcuni danni ne avevano resa necessaria la deposizione in orizzontale per qualche tempo, come dimostrato dall'esistenza, nella parte cava, di una tana di roditori. È possibile che, al momento dell'affondamento, la statua fosse in procinto di essere trasferita in una grande città, come Aquileia, Ravenna o Pola, viaggiando su una nave che percorreva una rotta di cabotaggio.
Nei pressi del sito di ritrovamento è stata compiuta una ricerca subacquea ad ampio raggio, estesa su un'area di 10.000 metri quadrati, con uso di metal detector e altri strumenti. È stata effettuata, inoltre, una prospezione con sonde robotiche estesa su una più ampia area di 50.000 metri quadrati, che non ha rilevato tracce di un antico naufragio, ma ha portato alla luce solo parti di ancore romane in piombo, cinque frammenti di anfore del II secolo d.C. e la base della statua. Questi risultati fanno presumere che la scultura fosse a bordo di una nave oneraria romana, dalla quale sarebbe caduta accidentalmente per la rottura delle corde nel mare agitato, o sarebbe stata deliberatamente abbandonata in mare per alleviare il peso durante una tempesta. Ma l'esatto motivo che avrebbe indotto i marinai a sacrificare proprio una parte così preziosa del carico rimane ancora oggi oscuro.
L'atleta di Lussino si presta a un immediato confronto con altri celebri esempi della stessa tipologia dell'Apoxyómenos. Esso differisce dalla realizzazione di Lisippo, conosciuta da una copia romana ora ai Musei Vaticani (nella foto a siistra), in primo luogo per la diversa impostazione del gesto: l'atleta di Lussino non deterge l'avambraccio sollevato ma, con gli arti rivolti in basso, pulisce lo strigile con l'altra mano.
La tipologia richiama invece un'identica statua bronzea, rinvenuta a Efeso nel 1896, ora esposta al Kunsthistorisches Museum di Vienna e dimostratasi essere il calco bronzeo di altra opera in fusione.
La popolarità di cui, nell'antichità, dovette godere la tipologia iconografica dell'Apoxyómenos, è testimoniata dal gran numero di reperti frammentari che ripropongono il medesimo tipo, forse tutte variazioni sul tema dell'esemplare originario di Lisippo.
A causa della lunga permanenza in acqua di mare, l'Apoxyomenos di Lussino, al momento del ripescaggio, si presentava ricoperto da una spessa patina di concrezioni minerali di origine organica, che ne aveva protetto la lega da fenomeni di corrosioni di origine galvano-chimica. Per la rimozione di tali incrostazioni non si è fatto alcun uso di prodotti chimici. Tutto l'intervento di conservazione e restauro infatti, il primo nel suo genere mai posto in essere in Croazia, si è servito di metodologie esclusivamente meccaniche con l'uso di utensili di precisione manovrati manualmente o, talvolta, con l'aiuto della macchina.
La statua presentava una serie di grandi fessurazioni e danni nell'area ischiatica della gamba destra, che hanno richiesto un intervento di ricomposizione; si è resa necessaria anche la realizzazione di una speciale struttura in grado di sorreggere l'intera statua all'interno.
Il piedistallo originale della statua si presenta decorato da ornamenti quadrati e da svastiche.
Nella cavità interna della statua sono stati trovati diversi materiali organici, come pezzi di legno, rami, semi, pezzi di frutta, noccioli di olive e ciliegie, e un nido di piccoli roditori, che, studiati da esperti dei Musei civici di Como e dell'Università di Zagabria, hanno fornito importanti informazioni sulle vicende e sulla datazione dell'opera.
Fin dalla scoperta della statua, gli archeologi sono divisi sulla questione se il modello utilizzato dallo scultore fosse mancino o destrorso. Il Ministro della pubblica istruzione italiano Giuseppe Fioroni, medico per professione, durante una visita alla statua all'epoca dell'esposizione fiorentina, ha notato un più accentuato trofismo dei muscoli della spalla sinistra rispetto a quelli della destra, una circostanza che farebbe supporre un modello mancino.
L'intervento di restauro sull'Apoxyomenos ha ricevuto dall'Unione europea il premio Europa Nostra per la tutela del patrimonio culturale.
ll 30 aprile 2016 a Lussinpiccolo è stato inaugurato il museo appositamente ideato per l'esposizione dell'Apoksiomen. La statua ha fatto così ritorno nell'isola il cui mare l'ha conservata per così lungo tempo.

CROAZIA - Spalato, Porta Aurea


La Porta Aurea di Spalato è la principale porta monumentale della cinta muraria della città croata.
Come il resto del centro storico, la porta faceva parte del palazzo di Diocleziano, edificato verso il 300 d.C. come residenza privata fortificata e divenuta in seguito, con le invasioni barbariche del IV secolo, vera e propria città quando vi si rifugiarono gli abitanti della vicina Salona.
La porta era la più importante della città, posta sull'asse nord-sud e opposta all'affaccio sul mare.
Come le altre due porte monumentali (Argentea e Ferrea) era affiancata da due torrioni a base ottagonale (oggi scomparsi), ma la sua decorazione era più ricca, con nicchie ai lati dell'arco di passaggio (probabilmente contenenti in antico statue) e sormontata da archetti su colonnine pensili (oggi delle colonne restano solo le mensole di base e i capitelli).
Sul retro esisteva il cortile d'armi e la controporta.

CROAZIA - Burnum


Burnum
 era un'antica fortezza legionaria e poi città romana in Illiria, oggi localizzata a Ivosevci, nei pressi di Chistagne in Croazia.
Il sito dell'antica città di Burnum sorge sulla sponda destra del fiume Cherca (Krka in croato, l'antico Titus di età romana), all'interno del Parco nazionale della Cherca. L'area in cui sorse l'insediamento rappresenta uno dei pochi punti di agevole guado del fiume: si tratta infatti di una possente barriera naturale, che già in antico separava il territorio dei Liburni, alleati dei Romani, da quello dei Dalmati, ostili a Roma.
L'occupazione romana del sito a fini militari iniziò dalla fine del I secolo a.C., concretizzandosi nella costruzione di un grande castrum destinato ad ospitare una legione impegnata nell'area. Secondo Plinio il vecchio, Burnum divenne così uno dei centri militari più importanti della provincia romana dell'Illyricum prima e della Dalmazia poi (8/9-14). Faceva parte di una delle 14 civitates della Liburnia amministrate dal conventus di Scardona.[9] Già alla fine delle campagne illiriche di Ottaviano (35-33 a.C.) qui è attestata la Legio XX Valeria Victrix. Intorno al 10 d.C. questa legione lasciò il presidio dalmata per passare in Germania e fu rimpiazzata dalla Legio XI Claudia Pia Fidelis.
Nell'86 d.C. la Dalmazia viene proclamata Provincia inermis e la difesa del territorio non viene più effettuata dalle legioni ma dalle truppe ausiliarie. Il castrum, così, si trasforma in una città vera e propria, che nel corso del II secolo d.C. diventa municipium.
La guerra greco-gotica, che coinvolse anche diversi centri della Dalmazia settentrionale, determinò, tra il 536 e il 537, il definitivo abbandono dell'area.
Tra l'età medievale e quella moderna, una chiesa dovette occupare parte dei resti ancora visibili, dal momento che il sito archeologico è oggi noto col nome di (HR) Suplja crkva (= chiesa in rovina) o (HR) Supljaja (= rovine).


Le evidenze archeologiche del castrum si riducono oggi alle due arcate in blocchi di calcare locale, attribuibili con buona certezza alla basilica del Foro della città romana. Già nel 1700 i resti erano stati segnalati, in migliore stato di conservazione, nel Viaggio in Dalmazia dell'abate padovano Alberto Fortis (1774). Per il resto la conoscenza di questo sito è affidata agli scavi archeologici. Nel 1912-1913 e poi nel 1973-1974 l'Istituto Archeologico Austriaco di Vienna conduce scavi estensivi alla ricerca della forma urbana del centro antico.
Dal 2003 il Dipartimento di Archeologia dell'Università di Zara e il Museo Civico di Dernis hanno iniziato le ricerche nel vicino anfiteatro, la cui principale fase edilizia è riconducibile all'imperatore Vespasiano.
Dal 2005 il Dipartimento di Archeologia dell'Università di Bologna, in collaborazione con l'Università di Zara e col Museo Civico di Dernis, ha iniziato una nuova fase di sperimentazione di metodologie di indagine non intrusiva e sondaggi archeologici.

CROAZIA - Bijaći


Bijaći
 è una località del comune di Castelli, in Dalmazia, antica città croata capitale della Croazia Bianca di cui oggi i resti sono riemersi in un'importante area archeologica. In italiano la località è storicamente nota come Santa Marta.
La città fu fondata nel 100 da veterani e coloni romani con il nome di Siculi, a pochi chilometri da Salona, tra quest'ultima, la costa e la città di Trogirium (Traù). Nel 700 la città fu conquistata dai croati che le diedero il nome slavo attuale. Nel IX secolo fu costruita dal re Trpimir la basilica di Santa Marta.
Attualmente della città restano solo le rovine, fra cui le fondamenta della basilica di Santa Marta e la tomba di un principe croato non identificato. Fra i resti di quello che presumibilmente dovette essere un trono è stata rinvenuta una delle prime testimonianze dell'uso del termine "croati" nei balcani (CROATORUM), VIII secolo.

CROAZIA - Salona, Anfiteatro romano

 

L'anfiteatro romano di Salona è un monumento di architettura antica situato in Croazia, i cui resti sono stati scoperti nel 1846 nell'area dell'antica città di Salona. La ricerca scientifica dell'anfiteatro venne condotta dagli archeologi Don Frane Bulić, croato, e Ejnar Dyggve, danese.
L'anfiteatro si trova nell'angolo nord-occidentale dell'antica Salona. Dopo la costruzione delle mura, fu integrato nel sistema difensivo della città, perché i suoi lati nord e ovest si addossavano al sistema di fortificazione della città.
L'edificio presentava una pianta di forma ellittica, misurava 125x100 metri, mentre l'arena, dove si svolgevano i combattimenti dei gladiatori, misurava 65x40 metri. La facciata esterna dell'anfiteatro era sostenuta da massicci piloni decorati con semicolonne sulle quali poggiava la trabeazione dei solai. Aveva tre piani sul lato sud e solo uno a nord, perché l'anfiteatro poggiava sul fianco della collina.
La cavea poteva contenere circa 17.000-18.000 spettatori ed era suddivisa in tre ordini, i due inferiori erano destinati a sedersi mentre in quello superiore si stava in piedi. I passaggi di comunicazione furono realizzati attraverso un sistema di passaggi e scale radiali e concentriche. Al tempo di Diocleziano la fascia più alta era coperta da un portico. Sul lato sud dell'anfiteatro c'era una loggia onoraria per il governatore della provincia, e sul lato nord una loggia destinata ai magistrati della città.
I combattenti entravano nell'arena attraverso gli ingressi principali (portae pompae), sui lati est e ovest. Accanto a questi ingressi c'erano le gabbie per gli animali (carceses). Al centro dell'arena si apriva un corridoio sotterraneo (porta libitinaria), costruito verso la fine del III secolo, che veniva utilizzato per portare via i gladiatori feriti e morti.
All'interno delle strutture dell'anfiteatro meridionale si trovavano due stanze a volta dove i gladiatori adoravano il culto della dea della vendetta e del destino, Nemesis. In epoca cristiana queste sale erano dedicate alle cappelle commemorative dei martiri di Salona.


L'anfiteatro di Salona fu costruito nella seconda metà del II secolo durante il regno dell'imperatore Marco Aurelio (161-180), con l'aiuto finanziario di un ricco mecenate, come testimonia un'iscrizione lapidea non completamente conservata che un tempo si ergeva sopra il corridoio settentrionale dell'arena. Nell'aprile del 304, durante la persecuzione dei cristiani sotto Diocleziano, il sacerdote Asterio e quattro soldati della guardia imperiale furono uccisi nell'arena dell'anfiteatro.
Nel Medioevo e durante l'amministrazione veneziana della Dalmazia, l'anfiteatro fungeva da cava, dalla quale venivano asportati materiali lapidei, motivo per cui cadde gradualmente in rovina. I resti dell'anfiteatro furono in gran parte distrutti durante la guerra di Candia, nel 1647, quando il provveditore veneziano della Dalmazia Leonardo Foscolo li fece demolire per paura che potessero fungere da roccaforte per i turchi.

venerdì 21 marzo 2025

Toscana - Domus Romana Lucca, Casa del Fanciullo sul Delfino

 

La Domus Romana Lucca – Casa del Fanciullo sul Delfino è un sito archeologico con annesso museo situato a Lucca.
Il sito è accidentalmente riemerso durante alcuni lavori di ristrutturazione in centro storico, presso il seminterrato di palazzo Orsucci nei primi anni 2010. Risulta essere il primo e unico sito archeologico in Europa portato alla luce e aperto al pubblico con fondi prettamente privati. Gli scavi sono stati diretti dalla Soprintendenza dei Beni Archeologici della Toscana, mentre poi nel 2015 i reperti rinvenuti al suo interno sono stati riconosciuti patrimonio dei Beni Culturali dello Stato. In poco tempo il sito e il relativo museo hanno riscosso notevole successo. Uno dei suoi principali reperti è un muro, in cui sono evidenti sia l'influenza romana, sia quella medievale, che quella rinascimentale. Ciò che lo rende particolare è appunto il fatto di poter osservare in un singolo ambiente l'evoluzione degli stili edilizi adoperati nelle differenti epoche che si sono susseguite. Sono poi stati trovati manufatti quali un'antica fibula e una moneta. Entrambe in bronzo, la moneta fu coniata nel 14 d.C. e vi è raffigurato l'imperatore Augusto. Inoltre è stato rinvenuto un fregio in terracotta da cui prende il nome la Domus, raffigurante appunto due fanciulli che cavalcano altrettanti delfini ai lati della testa di una gorgone, di cui i bambini ne impugnano la capigliatura. Tale fregio simboleggia la vittoria del bene sul male e si ritiene che possa datarsi al 56 a.C. Infatti si trattava di opere che generalmente venivano collocate in corrispondenza di grandi eventi e quell'anno l'antica Lucca ospitò il Primo triumvirato, al quale partecipò il grande Giulio Cesare.


Toscana - Firenze, Pisside della Pania

 
La Pisside della Pania è un'opera in avorio della fine del VII secolo a.C., proveniente dalla tomba della Pania di Chiusi e conservata nel Museo archeologico nazionale di Firenze.
L'opera è uno degli esemplari più importanti della lavorazione dell'avorio da parte degli etruschi, assieme a soli due altri esemplari da Chiusi e uno da Cerveteri. Si tratta di un cilindro cavo (una sezione di una zanna di elefante), alto 22 cm, e decorato da fasce orizzontali, separate da fasce minori con motivi vegetali scolpiti (palmette e fiori di loto variamente intrecciati) e due fasce medie ai bordi con fiori di loto dritti e rovesci.
La fascia superiore presenta due miti dell'Odissea, inframezzati da una sfinge: la Nave di Ulisse e Scilla (un mostro pisciforme con tre lunghi colli con teste di cani) e la Fuga di Ulisse e i suoi compagni dall'antro di Polifemo. La seconda fascia presenta il motivo consueto della partenza e congedo del guerriero sul carro, seguito da opliti, che fanno un cenno di saluto e da donne piangenti (con lunghe trecce e le braccia al petto); seguono un guerriero senza scudo in atto di danza funebre e un cavaliere. La terza fascia è decorata da belve e mostri legati a motivi orientalizzanti, tra i quali si trovano un cavaliere e un centauro. Nell'ultima fascia ci sono altri animali vieti.
Lo stile della pisside è meno monumentale degli avori riferibili al periodo precedente, ma è più vivacemente narrativo.

Toscana - Sarcofagi delle donne Seianti (REGNO UNITO)

 


sarcofagi delle donne Seianti sono una coppia di sarcofagi etruschi chiusini, databili al 150-130 a.C. circa. In terracotta policromata, sono conservati al British Museum di Londra (quello di Hanunia Seianti, h. 117 cm, foto in alto) e al Museo archeologico nazionale di Firenze (quello di Larthia Seianti, foto in basso). I due sarcofagi sono provenienti da Chiusi e sono considerati capolavori dell'arte plastica etrusca in terracotta, anche per la policromia ben conservata. Contengono iscrizioni che hanno permesso di leggere i nomi delle due donne effigiate, appartenenti alla stessa casata chiusina e forse sorelle, ma comunque parenti. Esse sono ritratte distese nell'atto di scostarsi il velo dalla testa, mentre con la mano sinistra tengono uno specchio: quello di Hanunia è aperto, quello di Larthia è chiuso.
La cassa del sarcofago di Hanunia ha le estremità ornate da pilastrini eolici, che invece in quello di Larthia compaiono anche al centro. Il singolare fregio dorico che si svolge sulle casse ha al centro rosette particolarmente ornate nel caso di Larthia, e che in quello di Hanunia sono separate al centro da triglifi con doppia serie di gocce (superiore e inferiore). I letti (klìnai) sono dotati di alti cuscini.
Le due donne, appartenenti a una delle più ricche famiglie chiusine, mostrano il loro status vestendo abiti dai complicati panneggi, che ricadono sinuosi, e sono adorne di armilla, diadema, orecchini e collana. Soprattutto nel sarcofago di Hanunia, raffigurata come una più matura matrona, il panneggio mostra un complesso studio, che evita ripetizioni o incertezze; il gesto di scostarsi il velo, sebbene tradizionale, appare sciolto, così come realisticamente sono rappresentate le parti nude del corpo.
I volti, come consueto nell'arte funeraria etrusca, sono idealizzati secondo le fattezze classicheggianti, in questo caso femminili, senza pretese di essere somiglianti ai defunti, e quindi non classificabili propriamente come ritratti. Abbondanti sono i resti della policromia, più sobria nel sarcofago di Hanunia, più sovraccarica nell'altro.




Toscana - Necropoli della Pedata



La necropoli della Pedata è un sito etrusco situato a Chianciano Terme, in provincia di Siena (Italia). Il sito prima della sua esplorazione sistematica negli anni '80, era già stato oggetto del ritrovamento nel 1846 della Mater Matuta etrusca, un cinerario antropomorfico del Periodo classico.
Gli scavi hanno portato alla luce una ventina di tombe, di cui una con soffitto particolarmente ornato, risparmiata dal saccheggio dei tombaroli nel XIX secolo.
La tomba Morelli, scoperta nel 1995, quella di un principe del periodo orientalizzante etrusco (VII secolo), ritrovata con i suoi corredi funerari intatti, è stata ricostruita nel museo cittadino con gli oggetti ricollocati nella configurazione del loro ritrovamento.
Alcuni degli arredi funerari delle tombe sono esposti nel Museo Archeologico delle Acque, altri sono stati trasferiti al museo archeologico nazionale di Firenze (un tipo Sarcofago degli sposi, della posa del banchetto etrusco).

Toscana - Area archeologica di Sovana

L'area archeologica di Sovana è un sito archeologico che si trova a Sovana, una frazione del comune di Sorano, in Provincia di Grosseto. Il paese è noto per essere stato un importante centro etrusco e medievale. Le testimonianze più note sono le necropoli etrusche che si sviluppano sui versanti collinari tutto intorno al paese moderno. La parte oggi visitabile si trova a ovest dell'abitato, lungo la strada che conduce a San Martino sul Fiora, ed è raggiunta anch'essa dalle spettacolari Vie Cave; le principali sono Il Cavone, la Via Cava di San Sebastiano e la Via Cava di Poggio Prisca che la collegano alle altre necropoli della zona, nel suggestivo scenario del Parco archeologico del Tufo.
Sovana, oltre ad aver fornito testimonianze eneolitiche, si sviluppò principalmente in epoca etrusca; come testimoniano le numerose tombe etrusche. Notevoli esempi sono:
- la tomba della Sirena, a edicola, in località Poggio di Sopraripa,
- la tomba del Tifone sul poggio Stanziale (a sinistra),
- la grotta Pola sul poggio Prisca
- la monumentale tomba Ildebranda sul poggio Felceto.
Lungo la strada che conduce dall'abitato di Sovana a San Martino sul Fiora, è inoltre possibile raggiungere i ruderi di un oratorio rupestre dalle origini storiche incerte che si presenta scavato nel tufo con una grande croce graffita sul soffitto.


La tomba Ildebranda (III-II secolo a.C.), completamente scavata nel tufo, si presenta come un tempio monumentale con porticato a sei colonne che poggiano su un podio con due scalinate laterali; la camera funeraria, nella quale è stata intagliata una sola banchina di deposizione per i defunti, è raggiungibile attraverso un lungo corridoio centrale in discesa. La camera fu ritrovata completamente vuota, conseguenza di un antico saccheggio o dell'azione di tombaroli. Il nome fu dato in onore di Ildebrando di Soana, meglio noto come papa Gregorio VII.
La tomba fu resa nota da Gino Rosi nel 1925, il quale ne pubblicò un primo resoconto. Il Mercklin, alcuni anni prima, aveva probabilmente notato l'emergere di qualche struttura, ma le indagini non erano proseguite. Pochi anni dopo le necropoli vennero studiate dall'archeologo Bianchi Bandinelli, il quale dedicò particolare attenzione alla tomba Ildebranda, eseguendo anche degli scavi archeologici. Bandinelli propose una ricostruzione più precisa del sepolcro e della decorazione, ciò fu permesso grazie proprio alle indagini archeologiche che condussero al ritrovamento di diversi elementi decorativi che integrarono ciò che restava della tomba.
Negli anni settanta furono eseguiti nuovi studi sulle necropoli che portarono alla realizzazione di una cartografia più precisa e a una nuova proposta per la ricostruzione dell'alzato della tomba Ildebranda[3], la quale, nel 1974, venne sottoposta ad alcuni interventi di restauro. Più recentemente la tomba è stata musealizzata, in quanto parte integrante del parco archeologico e sottoposta a nuovi interventi di restauro e conservazione.


La tomba della Sirena (III-II a.C.), una volta nota anche come "tomba della Fontana", è una tomba a edicola interamente scavata nel tufo, collocata all'interno della necropoli di Sopraripa. La facciata riproduce una falsa porta, all'interno della quale vi è scolpita l'immagine del defunto rappresentato come simposiasta, la porta è guardata ai lati da due demoni, probabilmente Charun a sinistra e Vanth a destra. Il nome deriva dal fregio nel quale non si rappresenta una sirena, come comunemente noto, ma il mostro marino Scilla colto nell'atto di affondare una nave. Sopra l'immagine del defunto è ben leggibile la scritta "Vel Nulina", ossia "figlio di Vel".
Un dromos particolarmente stretto conduce alla camera sepolcrale, la quale è disassata rispetto all'edicola. Le piccole dimensioni della camera fanno pensare a una sepoltura per un singolo individuo.
La tomba fu descritta per la prima volta dal pittore inglese Samuel Aisnley il quale vi fu indirizzato dai locali che già conoscevano il luogo. Recentemente la tomba, assieme a una vasta zona della necropoli di Sopraripa, è stata sottoposta ad un esteso restauro, durante il quale sono state scoperte altre sepolture arcaiche che giacevano a un livello appena sottostante quello della Sirena.

Toscana - Saturnia, Porta Romana

 

La Porta Romana di Saturnia è un'antica porta di accesso all'omonimo borgo fortificato del comune di Manciano, che si apre sul lato meridionale delle Mura di Saturnia lungo l'antico tracciato della Via Clodia ancora ben visibile.
La porta fa parte della porzione più antica delle mura, che risalgono ai tempi dei Romani (II secolo a.C.), che ivi fondarono un insediamento, non lontano da preesistenti necropoli etrusche. È l'unica rimasta delle 4 originarie porte di accesso romane.
Porta Romana fu parzialmente modificata già nell'82 a.C. durante l'ampliamento delle mura romane. Tuttavia, il suo aspetto attuale è dovuto principalmente alla ricostruzione effettuata dagli Aldobrandeschi in epoca medievale e al successivo restauro dei Senesi durante il Quattrocento.
La porta è costituita da strutture murarie in pietra e si caratterizza per l'apertura a doppio arco a tutto sesto sul lato interno che differisce da quella ad arco semplice sul lato esterno; presso la porta sono ravvisabili gli elementi stilistici riconducibili alle varie fasi storiche.


Toscana - Grotte del Leone

 
La Grotte del Leone (nella foto, una ricostruzione al Museo di Storia Natuale di Pisa) è una grotta carsica che si trova sui Monti Pisani, in località Agnano, comune di San Giuliano Terme in provincia di Pisa. La Grotta, che deve il suo nome ad una formazione stalagmitica la cui forma ricorda quella di un leone, è formata da un ampio salone di crollo che scende verso est dove è presente un piccolo lago, probabilmente collegato a quello della vicina Buca dei ladri.
La grotta è stata oggetto di frequentazioni umane dal Paleolitico superiore sin a tempi storici, anche se le attività più significative sono avvenute durante il paleolitico superiore, il neolitico e l'età del rame. Tali frequentazioni sono state studiate in tre campagne archeologiche di scavo principali. La prima di queste si tenne dal 1947 al 1950 ad opera del gruppo guidato da Ezio Tongiorgi; la seconda, dal 1970 al 1974, fu guidata dal professore Antonio Mario Radmilli e l'ultima campagna, guidata dalla professoressa Giovanna Radi si è aperta nel 2015 ed è ancora aperta.
Sebbene la Grotta sia stata sporadicamente frequentata anche in epoca etrusca, romana e rinascimentale, le attività umane storicamente più significative sono avvenute al suo interno in epoca preistorica e in particolare durante il paleolitico superiore, il neolitico e l'età dei metalli.
Paleolitico superiore

Le prime tracce di umane all'interno della Grotta sono datate tra i 18.000 e 15.000 anni fa, quando gruppi di cacciatori la usavano come riparo. In essa sono stati infatti ritrovati manufatti in pietra scheggiata di cultura epigravettiana, tra cui delle lame e punte a dorso molto probabilmente montate su di una lancia che veniva usata in associazione con un propulsore. Oltre alle industrie litiche sono stati ritrovati anche canini atrofici di cervo con la radice forata, usati con ogni probabilità come ornamento.
I resti faunistici, associati ai livelli paleolitici, rinvenuti nella grotta sono principalmente di Bos taurus primigenius, Equus e Cervus
Neolitico

Durante il Neolitico, tra i 6000 e i 5000 anni fa, la grotta era visitata da gruppi di agricoltori come luogo di culto. In essa sono state infatti trovate grandi quantità di cereali carbonizzati, principalmente orzo e frumenti nudi, e in quantità minori di leguminose, interpretati come resti di riti propiziatori. Oltre a questi sono state ritrovate anche industrie litiche e lame di falci in ossidiana, che dall'analisi chimica e microfisica si è stabilito provenire da Lipari, Monte Arci e Palmarola.
Negli stessi strati neolitici sono stati ritrovati anche resti di manufatti in argilla di cultura di Fiorano e di Cultura di Chassey. Di quest'ultima cultura sono stati ritrovati diversi vasi, strumenti in osso e scodelle per le offerte votive.

Toscana - Gonfienti

 

Gonfienti è un sito archeologico nell'omonima frazione di Prato, con i resti di un'antica città etrusca estesa per circa 17 ettari fra il fiume Bisenzio, il torrente Marinella e i monti della Calvana, ai margini del bacino lacustre-fluviale Firenze-Prato-Pistoia. Gli scavi sono stati avviati tra il 1996 e il 1997.
Risalente alla fine del VII secolo a.C., la città etrusca presso Gonfienti costituiva il baricentro dell'importante via di comunicazione tra l'Etruria centrale e l'Etruria padana ed aveva pianificato l'intera piana tra Firenze e Agliana. Abbandonata intorno alla fine del V secolo a.C. per ragioni ancora ignote, viene riconosciuta come una delle principali città etrusche dell'epoca arcaica, testimoniata dall'importanza dei reperti finora riemersi da scavi ancora nella sua fase iniziale, come le ceramiche attiche di grande pregio recuperate, fra le quali la kylix attribuita a Douris, artista greco attivo ad Atene, tra il 500 e il 475 a.C.
La città, anche se intuibile solo parzialmente per la rapida urbanizzazione nella sua area, era quasi certamente collegata commercialmente a Kainua-Marzabotto al fine di favorire gli scambi attraverso l'Appennino, lungo la direttrice che collegava le città di Spina e Pisa nel corso del VI-V secolo a.C. fino a decadere quasi improvvisamente al termine del V secolo a.C., per circostanze ancora non chiare. A seguito della sua scomparsa non si hanno tracce documentarie ma possiamo ipotizzare con buona probabilità che gli stessi abitanti abbiano provveduto a spostarsi in aree più protette, dove la difesa da attacchi esterni (i celti dal nord) sarebbe stata maggiormente garantita. In effetti la città, che non disponeva di mura, si sviluppò partendo da un progetto di pianificazione che sembrerebbe anticipare la struttura delle città ippodamee, fattore reso possibile per la stabilità che si era venuta a creare nell'Etruria Settentrionale nell'arco temporale che separa la battaglia contro i greci focesi (540 a.C.) e la conquista di Veio (396 a.C.) da parte di Roma, ed il conseguente spostamento verso nord del tradizionale baricentro etrusco dell'area meridionale della Toscana. Le aree in questione potevano essere state Artimino, Fiesole e, anche se parzialmente perché più lontana, ma sulla stessa direttrice geografica, Volterra, che nel secolo successivo ampliarono o costruirono la loro cerchia muraria a seguito di un imponente sviluppo demografico.
Infine la piana fu abitata dai Romani (vi passava la via Cassia, nel tratto che collegava Firenze con Pistoia, sulla via per Luni). Gli storici hanno collocato nei pressi dell'antica città etrusca la mansione "Ad Solaria" della antica Via Cassia, e riportata nella celebre Tavola Peutingeriana.
Recentemente è stata avanzata l'ipotesi (basandosi su alcuni toponimi della zona) che questa possa essere la mitica Camars , che spesso invece è identificata con la latina Clusium, patria del re Porsenna, ovvero Chiusi.

In effetti la città aveva assi viari ben pianificati (indicanti quindi una presenza costante nel territorio di genti etrusche), con una strada di oltre dieci metri di larghezza e un'estensione notevole (sono circa 30 gli ettari sottoposti a vincolo dalla soprintendenza). All'interno di essa è stata rinvenuta una "domus" di circa 1440 m² (la più grande dell'Italia antica, prima della Roma Imperiale), sviluppata sul modello delle ville pompeiane (ma di alcuni secoli precedente) con una rete di canali idrici ancora in parte funzionanti e un'eccezionale quantità di ceramiche greche a figure rosse e nere, su cui spicca una kylix (foto qui sopra) attribuita a uno dei più importanti artisti greci del V secolo, Douris e delle pregevoli antefisse a figure femminili. Indizi sull'esistenza in loco di una città etrusca erano già stati ipotizzati nel corso del XVIII secolo, quando vennero raccolti svariati reperti di quell'epoca (tra cui il cosiddetto
"offerente" esposto al "British Museum" - foto a destra), suggerendo per essa il nome di Bisenzia, una mitica città etrusca scomparsa secoli fa e citata da locali letterati rinascimentali.
Una forte presenza etrusca nel territorio della piana pratese è testimoniata dai tanti reperti trovati in aree limitrofe di Prato: Carmignano, Comeana e nei territori comunali di Sesto Fiorentino e di Calenzano sui monti della Calvana. Già nel 1735, a pochi chilometri da Gonfienti, fu rinvenuto l'offerente bronzeo di Pizzidimonte, oggi conservato presso il British Museum di Londra.
Inoltre, non molto distanti da Gonfienti sorgevano le città etrusche di Artimino, Fiesole, nota dal IV secolo a.C. come Vipsul e, sulla via per Felsina, quella di Kainua, nel comune di Marzabotto, probabilmente fondata da coloni provenienti da Gonfienti.

(foto in alto di Massimiliano Galardi)

Toscana - Tumulo di Montefortini

 

Il Tumulo di Montefortini è una tomba etrusca scoperta nel 1965, situata a Comeana, nel comune di Carmignano. Fu scoperta il 21 febbraio 1965 da quattro giovani pratesi (Mario Franco Gori, N. Coppini, M. Mariotti, G. Guarducci) che scavando su una piccola collinetta nei pressi del cimitero di Comeana, arrivati ad 80 cm, cominciarono ad estrarre pezzetti di cotto e lastroni, appartenenti ad un impianto tombale etrusco. I ragazzi consegnarono i pezzi ai carabinieri di Poggio a Caiano. La tomba rinvenuta dai quattro ragazzi è quella di Boschetti, la più antica delle tombe di Comeana.
Il Tumulo di Montefortini è costituito da una monumentale collina artificiale dal diametro di 70 metri e alta 12, circondata da un tamburo in pietra arenaria, interrotto ad Nord-Ovest da una piattaforma che si suppone accogliesse l'ara sacrificale. La monumentalità del luogo è accentuata dal bosco di querce e lecci che sovrasta il tumulo.
La struttura ospita due camere sepolcrali.
Tomba di Montefortini I
La prima tomba è composta da una tomba a camera scavata e restaurata a partire dal 1966. L'accesso è dato da un ampio dromos, lungo 13 metri, che conduce al vestibolo quadrangolare, lungo 2,10 m e largo 2,50 m che probabilmente in origine era coperto con una falsa volta di lastroni aggettanti. Attraverso un portale trilitico costituito da due ante mobili sovrastate da un architrave si lascia il vestibolo e si entra nella camera sepolcrale. La camera perfettamente rettangolare, lunga 4,50 m e larga 2,55 m, costituisce uno dei più begli esempi dell'architettura etrusca del periodo orientalizzante. Lungo le pareti corre una mensola per depositarvi le urne cinerarie dei defunti.
La tomba fu saccheggiata probabilmente già a partire dal 200 a.C., epoca in cui presumibilmente crollò la volta del vestibolo, e poi in altre occasioni. Nonostante ciò la tomba ha restituito un numero sufficiente di reperti per consentirne la datazione tra l'ultimo venticinquennio del VII ed il primo del VI secolo a.C. (625-575). Sono infatti emersi lavori scolpiti e finemente incisi, urne cinerarie in ceramica grezza, coppe in bucchero e resti di vasi in pasta vitrea egizia. Tutti i reperti sono stati esposti nel Museo di Artimino.
Tomba di Montefortini II
La seconda camera sepolcrale che si trova al centro del tumulo e la cui presenza era stata ipotizzata da tempo, è stata scavata solo a partire dal 1982. Si tratta di una grande tomba a thòlos la cui struttura risulta in parte crollata, (forse a causa di un sisma) e manomessa già in epoca antica. Tutta la struttura ha un diametro di circa sette metri, è realizzata in pietra arenaria e presenta un pilastro centrale. Tra i ritrovamenti si segnalano una fibula in ferro, frammenti di avorio, gusci di uova di struzzo decorati, vetri blu egizi, ambre e frammenti di bucchero.

Toscana - Firenze, Torso Gaddi

 

Il 
Torso Gaddi è una scultura frammentaria in marmo (h 84,4 cm) di ambito ellenistico, databile al II secolo a.C. e conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze. L'opera, probabilmente un frammento di centauro, fu in tutta probabilità scavata a Roma e, stando a una possibile menzione di Vasari, appartenuta a Lorenzo Ghiberti, i cui discendenti la cedettero poi a Giovanni Gaddi, Cherico di Camera del papa.
Opera ben nota nel Cinquecento, fu amata dagli artisti, che ne copiarono spesso la possente muscolatura e la posa "inclinata"; la citarono ad esempio lo stesso Ghiberti nel suo Sacrificio di Isacco, il Rosso Fiorentino nel Cristo morto compianto da quattro angeli, o da Amico Aspertini nell'Adorazione dei pastori, ma dovette ispirare anche il giovane Michelangelo Buonarroti e, più tardi, Rubens. All'epoca si credeva che rappresentasse il torso di un satiro. Similmente al torso di Belvedere, l'opera non fu mai integrata da aggiunte e restauri successivi.
Nel 1778 fu acquistato dal Granduca Pietro Leopoldo che lo destinò alle Gallerie fiorentine.
L'opera è di solito riferita copia vicina a un prototipo del II secolo a.C., raffigurante un centauro con le braccia legate dietro la schiena e facente parte di un gruppo con un centauro giovane, libero ed esuberante, e uno anziano, martoriato da un amorino che lo cavalcava colpendolo con la frusta. Il gruppo formava una metafora erotica legata alle diverse conseguenze dell'amore in età giovanile o avanzata. Inoltre la presenza dell'amorino simboleggiava il potere di Eros, capace di domare anche gli orgogliosi centauri.
Per la tensione dinamica e il modellato molto rifinito l'opera è stata messa in relazione con la scuola di Pergamo.



giovedì 20 marzo 2025

Lazio - Lorium

 

Lorium
 era una località situata sulla via Aurelia, nei pressi dell'odierna Castel di Guido (nel XIII municipio di Roma Capitale). La località era citata nella Tabula Peutingeriana come prima stazione di posta sulla via al suo XII miglio da Roma.
Vi si trovava una villa costruita dall'imperatore Antonino Pio che vi morì nel marzo 161 e nella quale risiedettero anche Adriano e Marco Aurelio.
Nella località si sono rinvenute tracce di un borgo di epoca romana che attraversò una fase ricca di costruzioni nel corso della seconda metà del I secolo a.C. Resti di costruzioni ai lati della strada e di tombe furono rimessi in luce in scavi condotti nel 1823-1824.
Lorium fu sede di un'antica diocesi con il titolo di Santa Rufina, unificata sotto papa Callisto II con la diocesi di Porto nell'attuale sede suburbicaria di Porto-Santa Rufina.


Sulle vicine colline esistono numerose tracce di ville romane suburbane residenziali. Gli scavi della Soprintendenza archeologica di Roma presso la villa dell'Olivella nel 2006, condotti dopo iniziali scavi clandestini di tombaroli scoperti dalla Guardia di Finanza nel 2005, hanno riportato in luce un impianto termale con pavimenti a mosaico pertinente a una grande villa residenziale del II-III secolo Altri due nuclei residenziali erano già stati individuati nei pressi sul monte delle Colonnacce ("villa delle Colonnacce", già depredata dai tombaroli negli anni settanta), e sul monte Aurelio.

Lazio - Roma, Ruderi di Coazzo

 
I cosiddetti ruderi di Coazzo (anche Pietra de Oro) sono un sito archeologico a Roma, in Italia.
Si tratta dei resti di un insediamento monastico del XIII secolo, costruito su una villa romana, di cui ha riutilizzato i materiali insieme ad altri provenienti da edifici funebri. Il sito si trova ad ovest del quartiere romano di San Basilio, vicino a Via Bernardini, non lontano da via Nomentana.
L'edificio era alto circa 3 metri era composto da due stanze con tetto a volta e pareti costruite in mattoni e tufo. Nel 1428 i proprietari del terreno, la famiglia Frangipane, donarono metà del casale alla Basilica di San Pietro, che affittò nel XVI secolo a Cola Jacobacci.

Lazio - Roma, Musei / Discobolo, Palazzo Massimo

 
Il Discobolo è una scultura bronzea realizzata da Mirone intorno al 455 a.e.v. (periodo di congiunzione tra preclassico e classico). Benché la statua originale sia ormai perduta, il soggetto ha attraversato i secoli grazie ai calchi in marmo di essa realizzati durante il periodo dell'impero romano.
La versione ritenuta più aderente all'originale è quella nota come Lancellotti, dal nome della famiglia che ne detenne il possesso prima di cederla al Museo Nazionale Romano.
Da tale esemplare ne è stata ricavata un'ulteriore copia marmorea esposta al Museo della storia dei giochi olimpici antichi di Archea Olympia, in Grecia.
L'opera fu probabilmente prima fusa, per poi essere scolpita, per la città di Sparta e rappresentava un atleta nell'atto di scagliare il disco.
Dell'opera si conoscono diverse versioni. Tra le più importanti, oltre a quella Lancellotti, ne esiste una integra al British Museum detta Townley che si distingue per un trattamento della testa più adrianeo, dai capelli più lunghi; inoltre lo scultore, possedendo una tecnica più avanzata, ridusse il tronco d'appoggio a lato della figura. Nel Museo nazionale romano si conserva un'altra versione frammentaria, detta di Castelporziano.
L'atleta fu raffigurato nel momento in cui il suo corpo, dopo essersi rannicchiato per prendere slancio e radunare le forze, sta per aprirsi e liberare la tensione imprimendo al lancio maggiore energia. Subito dopo girerà su sé stesso e scaglierà il disco, accompagnando il gesto con tutto il corpo.
Cicerone scrisse: «Le opere di Mirone non sono ancora vicinissime alla verità, nondimeno non si esiterà a dichiararle belle; quelle di Policleto sono ancora più belle e già veramente perfette secondo la mia opinione».
Gli storici d'arte dell'antichità lodarono Mirone per la sua maestria nel ritmo e nella simmetria. L'espressione di serenità, priva di sentimenti e accennante solo una tenue concentrazione, fu criticata da Plinio.
La cessione alla Francia napoleonica e alla Germania nazista
L'opera godette fin da subito di fama internazionale nell'Europa colta e intellettuale, anche grazie all'eccezionale stato di conservazione. Per fama era pari solo all'Apollo del Belvedere, alla Venere de' Medici, al Laocoonte o ai Cavalli di San Marco.
Fu quindi tra le prime opere oggetto di spoliazioni napoleoniche, tant'è che una stampa presso la Biblioteca nazionale di Parigi mostra l'arrivo del primo convoglio con i beni confiscati al termine della Campagna d'Italia di Napoleone, che arrivava a Champ de Mars, di fronte all'École Militaire di Parigi, tra cui figura il Discobolo appena acquisito a mezzo del trattato di Tolentino. Il Discobolo tornò a Roma con il Congresso di Vienna e l'opera di Antonio Canova.


Lo studio della statua consentì ai primi organizzatori delle Giochi olimpici di ricreare lo sport del lancio del disco, di cui si era persa la conoscenza e che richiede un moto circolare.
La bellezza della statua colpì inoltre Adolf Hitler che, durante il suo viaggio in Italia nel maggio 1938, vedendo nella bellezza e nella perfezione fisica dell'atleta il mito della razza ariana, si fece "gentilmente concedere" dal governo italiano l'opera. Sebbene il Consiglio superiore delle Scienze e delle Arti si fosse opposto, Hitler acquisisce l'opera tramite compravendita privata tra Göring e il principe Lancellotti per 5 milioni di lire. Essendo un'opera notificata alle Belle Arti, la sua esportazione era tuttavia vietata, ma grazie alle pressioni del ministro degli esteri Galeazzo Ciano, la statua riuscì ad arrivare in Germania nel giugno 1938.
Il Discobolo restò così in terra tedesca - per la precisione nella Gliptoteca di Monaco di Baviera - fino alla fine della guerra, quando lo storico dell'arte Rodolfo Siviero riuscì a convincere il Governo Militare Alleato che l'opera, insieme a tanti altri capolavori, era stata acquisita illegalmente dai nazisti grazie all'alleanza tra due regimi tirannici. Così - nonostante molte opposizioni, ricorsi giudiziari e svariati ritardi da parte tedesca - il 16 novembre 1948 il Discobolo tornò in Italia, insieme ad altri 38 capolavori che erano stati esportati illegalmente tra il 1937 e il 1943.


EGITTO - Statua di Amenardis I in alabastro

  La  statua di Amenardis I (JE 3420) è un'antica statua egizia in alabastro calcareo raffigurante la "Divina Sposa di Amon"...