domenica 3 agosto 2025

Toscana - Anfora di Baratti

 
L'anfora di Baratti è una celebre anfora d'argento, capolavoro di arte tardoantica orientale, proveniente forse da Antiochia e databile alla fine del IV secolo. Andata persa in antichità nel corso di un naufragio al largo del golfo di Baratti, fu rinvenuta accidentalmente in mare tra le reti del pescatore pugliese Gaetano Graniero nel 1968, peraltro notevolmente danneggiata da un'estremità di un'ancora.
Oggetto di pregevolissima fattura, in argento quasi puro (94-96 %) l'anfora poteva contenere fino a 22 litri di vino. Presenta i segni per l'attaccatura di due manici, non rinvenuti. Presenta 132 applicazioni ovali con figure a rilievo, legate al culto di Cibele, diffuso soprattutto in Siria e Anatolia (Frigia); vi si riconoscono altresì Zeus, Era, Afrodite, Atena, Apollo, Ares, Attys, Dioniso, musici e menadi danzanti. Tra le varie ipotesi c'è quella che il tema ruoti attorno al mito di Paride, con intrecci e rimandi ad altri miti. Le figure si allineano su dieci file, fino al collo del vaso, interrotte da una ghirlanda.
Non solo si tratta quindi di un raro pezzo di argenteria tardoantica, ma anche di un documento sul persistere della cultura pagana in alcune frange di popolazione dell'Impero Romano anche dopo la conversione statale al Cristianesimo. Non è chiaro se si tratti di un oggetto destinato ad abbellire una mensa privata o se avesse una qualche funzione cultuale.
Pezzo unico, presenta confronti con un'altra anfora in argento rinvenuta a Conçesti in Moldavia e oggi all'Ermitage, simile nella forma ma non nella decorazione. L'attribuzione a una manifattura di Antiochia si basa sul fatto che tale centro fosse il più importante per la lavorazione dell'argento, ma non si può escludere che provenga da un centro danubiano come Sirmium o Naissus.
L'anfora, dopo essere stata a lungo al Museo archeologico nazionale di Firenze, è oggi conservata nel Museo archeologico del territorio di Populonia a Piombino.

Toscana - Piatto di Ardabur Aspar

 


Il piatto di Ardabur Aspar è un missorio in argento fuso, datato 434 e conservato nel Museo archeologico nazionale di Firenze (Inv. 2588).
L'opera venne rinvenuta nel 1769 presso il fosso Castione vicino al borgo medievale di Pereta nel comune di Magliano in Toscana (provincia di Grosseto). È un importante reperto, sia per qualità che per luogo di rinvenimento, che testimonia la presenza bizantina durante le guerre gotiche.
Si tratta di un missorio consolare, che celebra l'elezione a console di Ardaburio Aspare nel 434, decisa da Galla Placidia come premio per le vittorie contro Genserico in Africa.
L'iscrizione intorno al bordo (CIL XI, 2637) recita:
«Fl(avius) Ardabur Aspar vir inlustris com(es) et mag(ister) militum et consul ordinarius»
A fianco dei personaggi ci sono la dea Roma e la dea Flora stanti con in mano delle lunghe aste. Ardaburio Aspare ha in mano uno scettro ed alza la "mappa" o fazzoletto che dava il segnale di inizio dei giochi circensi, seduto sulla sella curule, simbolo dei magistrati. Accanto si trova il giovane figlio Ardaburio, indicato come Ardabur Iunior pr(a)etor, vestito come il padre. Ai loro piedi scudi e palme attestano le vittorie conseguite. Sopra i due sono collocate due imagines clipeatae raffiguranti Ardaburio (padre di Aspare) e Plinta, parente di Aspare.

Toscana - Frontone di Talamone


Il frontone di Talamone è un raro esempio di frontone in terracotta risalente al 150 a.C., reperto di epoca etrusco-ellenistica venuto alla luce sul poggio Talamonaccio, nei pressi di Talamone, che costituiva la parte superiore frontale dell'antico tempio etrusco di Talamonaccio. Esso costituisce l'iconografia artisticamente più importante che ci sia pervenuta del mito della Tebaide o dei Sette contro Tebe, in quanto viene raffigurata la scena del combattimento finale tra i fratelli Eteocle e Polinice, figli di Edipo e Giocasta, durante l'assedio di Tebe. Al centro della scena i corpi morti dei due fratelli vengono portati via, mentre intorno è raffigurata la fine degli altri eroi della spedizione.
Rinvenuto alla fine dell'800, è patrimonio del Museo archeologico di Firenze, dove rimase esposto fino all'alluvione di Firenze e poi nuovamente dal 1982, fin quando fu inviato in una mostra a lungo termine a Orbetello (Grosseto), organizzata all'interno della Caserma Umberto I. Nell'ultimo decennio la Soprintendenza Archeologica della Toscana (Firenze) ne ha concesso il prestito e lo ha inviato ad alcune importanti mostre sia in Italia che all'estero, al termine delle quali è ritornato al Museo Archeologico fiorentino.

Toscana - Idolino di Pesaro, Firenze

 


L'
Idolino di Pesaro è una statua romana in bronzo conservata nel Museo archeologico nazionale di Firenze. L'opera, alta 146 centimetri, è una finissima copia romana della prima età augustea, forse di un originale greco-classico del 430-420 a.C. riferibile alla tarda attività di Policleto. Si tratta di un fanciullo nudo a tutto tondo, tra i migliori esempi della tipologia degli "idolini", usati come portalampade durante i banchetti (lychnouchos). Nella mano sinistra reggeva infatti un tralcio di vite, di cui resta un frammento, destinato a sorreggere le lucerne; nella destra forse teneva un vassoio pure destinato alla stessa funzione.
Fu trovato in frammenti al centro di Pesaro nell'ottobre 1530, in quella che era una residenza senatoria degli Aufidii Victorini, fu restaurato come Bacco e posto su un'elaborata base in bronzo su commissione del duca Francesco Maria I Della Rovere. Si occuparono della base (alta 118 cm) Girolamo, Ludovico e Aurelio Lombardo (1533), che vi posero anche un esametro dettato dal cardinal Pietro Bembo. Sulla base si trovano riferimenti a Dioniso, con i pannelli laterali dedicati alle scene dell'Apoteosi di Arianna e del Sacrificio della capra.
La statua arrivò a Firenze nel 1630, donata da Francesco Maria II Della Rovere a sua nipote Vittoria Della Rovere che andava in sposa al cugino Ferdinando II de' Medici. Questa scultura ispirò molti artisti del XVI secolo.
Al momento della scoperta, nella città di Pesaro, si ebbe tale esultanza da inserire negli Statuti cittadini alcune norme a tutela dei rinvenimenti archeologici.
Oggi è collocata al termine della galleria del secondo piano del museo.

Toscana - Chimera di Arezzo

 


La Chimera di Arezzo è un bronzo etrusco, probabilmente opera di un'équipe di artigiani attiva nella zona di Arezzo, che combinava modello e forma stilistica di ascendenza greca o italiota all'abilità tecnica fornita da maestranze etrusche. È conservata presso il Museo archeologico nazionale di Firenze, ha altezza di 78,5 cm e lunghezza di 129 cm. È il simbolo del Quartiere di Porta del Foro, uno dei quattro quartieri della Giostra del Saracino di Arezzo. La scultura rappresenta un leone in posizione aggressiva a bocca aperta e con artigli estroflessi, con una testa di capra che nasce dalla schiena e un serpente al posto della coda che aggredisce mordendo uno dei corni della capra.
La sua datazione è fatta risalire a un periodo compreso tra l'ultimo quarto del V e i primi decenni del IV secolo a.C. Faceva parte di un gruppo di bronzi sepolti nell'antichità per poterli preservare.
Con l'aiuto del cavallo alato Pegaso, Bellerofonte riuscì a sconfiggere Chimera con le sue stesse terribili armi: immerse la punta del suo giavellotto nelle fauci della belva, il fuoco che ne usciva sciolse il piombo che uccise l'animale.
Si tratta di una statua di bronzo rinvenuta il 15 novembre 1553 in Toscana, nella città d'Arezzo durante la costruzione di fortificazioni medicee alla periferia della cittadina, fuori da Porta San Lorentino (dove oggi si trova una replica in bronzo). Venne subito reclamata dal granduca di Toscana Cosimo I de' Medici per la sua collezione, il quale la espose pubblicamente presso il Palazzo Vecchio, nella sala di Leone X. Venne poi trasferita presso il suo studiolo di Palazzo Pitti, in cui, come riportato da Benvenuto Cellini nella sua autobiografia, "il duca ricavava grande piacere nel pulirla personalmente con attrezzi da orafo".
Per Cosimo I, identificatosi in un neo principe etrusco, Il bronzo simboleggiava le forze distruttive e negative e i nemici che aveva dovuto fronteggiare e sconfiggere. A tale proposito Vasari scrisse: “ha voluto il fato che la si sia trovata nel tempo del Duca Cosimo il quale è oggi domatore di tutte le chimere“.
Il ritrovamento, fu considerata una fortunata circostanza in un momento culturale in cui Cosimo I sosteneva la supremazia della cultura e dell’arte etrusca su quella classica e romana, dovuta alla sua anteriorità, coerentemente con le sue ambizioni politiche.
Dalle notizie del ritrovamento, presenti nell'Archivio di Arezzo, risulta che questo bronzo venne identificato inizialmente con un leone poiché la coda, rintracciata in seguito da Giorgio Vasari, non era ancora stata trovata e fu ricomposta solo nel XVIII secolo grazie a un restauro visibile ancora oggi. Vasari nei suoi Ragionamenti sopra le invenzioni da lui dipinte in Firenze nel palazzo di loro Altezze Serenissime risponde così a un interlocutore che gli domanda se si tratta proprio della Chimera di Bellerofonte
Si suppone però che il restauro alla coda sia un restauro sbagliato: il serpente avrebbe dovuto avventarsi minacciosamente contro Bellerofonte e non mordere un corno della testa della capra, poiché essa è proprio parte integrante del corpo stesso della chimera.
Il restauro alla coda di serpente non è l'unico restauro che è stato effettuato, infatti, anche le zampe del lato sinistro della chimera furono grossolanamente ricomposte con delle colate di bronzo.
Nel 1718 venne poi trasportata nella Galleria degli Uffizi e in seguito fu trasferita nuovamente, insieme all'Idolino e ad altri bronzi classici, presso il Palazzo della Crocetta, dove si trova tuttora, nell'odierno Museo archeologico di Firenze. Recentemente è stata esposta all’ ingresso del Museo Archeologico di Firenze una copia definita “identica” fusa da calco eseguito sull’originale dalla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli.
Nella mitologia greca la Chimera ha testa di leone, la coda a forma di serpente e con una testa di capra nel mezzo della schiena, che terrorizzava la terra della Licia, infatti in tale regione si trova il Monte Chimera.
La Chimera di Arezzo raffigura un mostro che sta per saltare addosso a qualcuno, probabilmente un nemico, con la bocca spalancata e la criniera irta. La testa di capra sul dorso è già reclinata e morente a causa delle ferite ricevute dallo stesso serpente. Il corpo è modellato in maniera da mostrare le costole del torace, mentre le vene solcano il ventre e le gambe. Probabilmente, la Chimera faceva parte di un gruppo con Bellerofonte e Pegaso ma non si può escludere completamente l'ipotesi che si trattasse di un'offerta votiva a sé stante. Quest'ipotesi sembra essere confermata dalla presenza di un'iscrizione sulla zampa anteriore destra, in cui vi si legge la scritta TINSCVIL o TINS'VIL (TLE^2 663), che significa "donata al dio Tin", cioè il re degli dèi.
La Chimera presenta elementi arcaici, come la criniera schematica e il muso leonino simile a modelli greci del V secolo a.C., mentre il corpo è di una secchezza austera. Altri tratti sono invece più spiccatamente naturalistici, come l'accentuazione drammatica della posa e la sofisticata postura del corpo e delle zampe. Questa commistione è tipica del gusto etrusco della prima metà del IV secolo a.C. e attraverso il confronto con leoni funerari coevi si è giunti a una datazione attorno al 380-360 a.C. È da osservare il particolare della criniera, molto lavorata, e che riproduce abbastanza fedelmente (per l'epoca) l'aspetto naturale del felino. Si pensa infatti che il leone europeo conosciuto dai Greci non avesse una criniera sviluppata quanto i cugini africani o asiatici e fosse più piccolo.

Toscana - Tabula Cortonensis

 
La Tabula Cortonensis è un manufatto in bronzo ritenuto dell'inizio del II secolo a.C. e ritrovato a Cortona in località Le Piagge nel 1992. Nel 1992 vennero consegnati al comando dei Carabinieri di Camucia sette frammenti in bronzo, destinati a diventare famosi sotto l'unico nome di Tabula Cortonensis. Sottoposti ad una pulitura piuttosto drastica, furono dati come rinvenuti in località le Piagge, presso Camucia; tuttavia, alla luce del fatto che ulteriori ed approfondite ricerche nella zona non portarono al ritrovamento di altre testimonianze archeologiche, si dubita fortemente del luogo di rinvenimento. Questi sette frammenti costituiscono una tabula di forma rettangolare sulla quale vi è un'iscrizione incisa tramite un'affilatissima sgorbia. Sulla sommità, si nota un manubrio a due ganasce con un pomello sferoidale. Molto probabilmente, la tabula, forse parte di un archivio notarile privato, un tabularium posto nella parte più sacra della casa o forse esposta per qualche tempo in un luogo pubblico, era appesa mediante questo manubrio ad un binario che ne consentiva la lettura fronte-retro. Dopo essere stata asportata dal luogo della sua originaria collocazione, venne rotta in otto pezzi — l'ottavo non ci è pervenuto, ma questo non pregiudica in alcun modo dal momento che il pezzo era situato nell'estremità inferiore destra della tavola e si ritiene contenesse solo nomi di persona di una lista trascritta alle righe 24-32 della prima faccia e prolungata sulla prima riga della seconda faccia — e destinata all'occultamento. Probabilmente l'ottavo pezzo andò perduto durante le vicissitudini che portarono alla frantumazione della tavola.
Conservata in un ambiente umido, la tabula riporta macchie e incrostazioni dovute alla compresenza di oggetti in ferro. L'incisione è stata evidentemente facilitata dal fatto che il bronzo utilizzato fosse alquanto tenero, perché contenente una percentuale piuttosto consistente di piombo. L'iscrizione è opistografa, occupa, cioè, tutta una faccia, con 32 righe di scrittura (recto), per proseguire sull'altra faccia con 8 righe (verso). Le lettere risultano essere state incise con grande peculiarità; l'alfabeto è quello usato nel cortonese tra la fine del III e il II secolo a.C. Dunque, nel complesso il documento presenta 40 righe di testo per 260 parole, guadagnandosi così il pregio di essere il terzo testo etrusco per lunghezza, dopo quello della Mummia di Zagabria e della Tabula Capuana. Misura 28,5×45,8 cm ed è spessa circa 2–3 mm.
Si riconoscono chiaramente due mani diverse: uno scriba principale ha inciso le prime 26 righe del recto e le prime otto del verso; a un secondo scriba si attribuiscono le ultime sei righe del verso. Nel testo della tabula si riconosce unanimemente un importante atto giuridico, cosa desumibile dalla presenza del zilath mechl rasnal, ovvero il pretore di Cortona, sommo magistrato della città.
La faccia A della tavola contiene 32 righe di testo, mentre la faccia B ne contiene solo 8. Si pensa che ad incidere la tavola siano stati due scribi, il primo autore delle righe 1-26 delle faccia principale (faccia A) e dell'intera faccia opposta (faccia B), il secondo invece responsabile delle righe 27-32 della faccia A. Entrambi gli scribi usano un alfabeto particolare, proprio di Cortona, nel quale il segno per E retrogrado occorre in sillaba iniziale o finale per sostituire un antico dittongo.
L'iscrizione fa particolare riferimento ad una compravendita di terreni tramite rivendicazione pubblica fatta dall'acquirente sulla cosa alla presenza del venditore e del pretore che ne sanzionava, a fine processo, la transazione. Di fatto, si testimonia la cessione da parte di Petru Scevas, uomo di umili origini ma arricchitosi con la mercatura, di terreni collinari affacciati sul lago Trasimeno ai membri di una famiglia aristocratica, i Cusu, in cambio di un miglioramento della posizione sociale. Come si desume dalla Tanella di Pitagora, la figlia di Petru Scevas avrebbe effettivamente sposato un membro della famiglia Cusu.


Toscana - Glirarium

 


Il glirarium era un contenitore in terracotta (dolium) formato da vari scomparti utilizzato per l'allevamento dei ghiri ad uso alimentare. Il consumo di questi animaletti, nel periodo etrusco e successivamente in quello romano, era particolarmente apprezzato.
Il contenitore è costituito da un vaso, generalmente in terracotta, bucherellato per consentire il passaggio dell'aria e chiuso da un coperchio sulla sommità. All'interno era presenti due o più ripiani in terracotta posti contro le pareti dello stesso e altri buchi sul fondo del vaso, in genere più numerosi di quelli ai lati. Tale struttura, facendo rimanere i ghiri al buio, facilitava il sonno.
Dei gliraria sono esposti al museo archeologico nazionale di Chiusi, al museo civico archeologico di Castro dei Volsci o ancora al museo archeologico Luigi Fantini di Monterenzio (foto in alto). Un gliarium fa parte delle collezioni del museo della preistoria Luigi Donini di San Lazzaro di Savena. Uno è esposto nel borgo fantasma della città di Celleno.

Toscana - Bronzi della Meloria

 
Bronzi della Meloria sono un gruppo di quattro teste bronzee ritrovate al largo di Livorno nel 1722. Sono oggi conservate nel Museo archeologico nazionale di Firenze.
Inizialmente vennero credute opere antiche, ma gli studi hanno poi dimostrato che si tratta di opere rinascimentali, forse anche seicentesche, modellate su copie romane di originali greci. Le teste raffigurano Omero, Sofocle, Eschilo e un quarto personaggio ignoto.
La datazione è stata resa possibile grazie allo studio di materiali coevi, evidenziando come lo scultore avesse preso a modello alcune teste (in parte ai Musei Capitolini copiando fedelmente anche alcuni dettagli frutto di reintegri moderni, in particolare nelle capigliature).



(nelle foto, dall'alto in basso, Sofocle, Omero, Eschilo)




















Toscana - Stele di Vado all'Arancio

 
La stele di Vado all'Arancio è un antico manufatto preistorico rinvenuto nei pressi di Cura Nuova, nel comune di Massa Marittima (Grosseto).
È oggi esposta nel museo archeologico di Massa Marittima. L'antico manufatto, databile al periodo dell'eneolitico (III millennio a.C.) è stato rinvenuto nel 1955 presso il podere Vado all'Arancio nelle vicinanze di Cura Nuova dall'agricoltore Dino Arzilli durante alcuni lavori di aratura e trebbiatura. L'agricoltore, pur rimanendo colpito dalla statuetta, non ne comprese subito il valore, ma decise comunque di conservarla: la stele finì per anni custodita all'interno di un pollaio, dove le galline la utilizzavano per affilarvi il becco.
Notata fortuitamente dal falegname Sergio Bucci negli anni settanta, dopo averne parlato con Arzilli, la stele fu consegnata al museo archeologico della città maremmana, dove fu possibile constatare con certezza il grande ritrovamento. Da allora la stele è divenuta il simbolo del museo, nonché pezzo più importante e maggiore attrazione.
La stele, o più propriamente statua-stele o menhir (lunga pietra), in pietra arenaria, rappresenta una figura antropomorfa stilizzata della quale si possono riconoscere gli occhi ed il naso (disposti a T) e le due braccia quasi conserte all'altezza dello stomaco. Non essendovi altri particolari, non è dato sapere se la statua intendesse rappresentare una figura maschile o femminile.
La realizzazione di statue-stele era una pratica molto frequente nel lungo periodo tra la fine del IV e tutto il III millennio a.C., arrivando talvolta anche all'età del Ferro. Questo è stato dimostrato da numerosi ritrovamenti in tutta Europa (più di settecento) che testimoniano la pratica in luoghi anche isolati e completamente distanti gli uni dagli altri. In Italia se ne contano numerose in Puglia (circa trenta), in Sardegna e nell'area del Mediterraneo (circa settanta) e soprattutto in Lunigiana, tra Toscana e Liguria, dove sono state ritrovate nella stessa area geografica ben sessantatré statue-stele. Ciò che rende rilevante la stele di Vado all'Arancio è proprio la sua unicità, in quanto unico caso isolato di statua-stele in Toscana, al di fuori dell'area della Lunigiana.
La funzione di tali statue, tuttavia, rimane un argomento non chiaro e di difficile risoluzione. C'è chi pensa a pratiche funerarie, religiose o di superstizione, ma rimane comunque impossibile offrire una spiegazione univoca.

Toscana - Anfora di Baratti

  L' anfora di Baratti  è una celebre anfora d'argento, capolavoro di arte tardoantica orientale, proveniente forse da Antiochia e d...