lunedì 16 giugno 2025

Toscana - Monetazione di Cosa


La 
monetazione di Cosa riguarda un gruppo di monete che recano l'etnico COZANO o COSANO.
Queste monete sono state coniate a Cosa (o Cossa) Vulcentium, una colonia romana che si trovava tra i centri di Portus Herculis e Graviscæ. Plinio il vecchio l'indica come dipendente da Vulci e colonizzata da Roma: "Cossa Vulcentium a populo romano deducta".
La deduzione della colonia è del 273 a.C. stante quanto scritto sulle epitomi di Livio e da Velleio Patercolo. La monete con la scritta COZANO o COSANO sono generalmente trovate in Etruria, da qui l'attribuzione a questo centro anziché ad altri centri nell'Italia meridionale.
I tesori più rilevanti vedono le monete di Cosa principalmente assieme a monete di Roma e poi a monete di Neapolis, Cales, Suessa, Teanum, colonie o alleati di Roma che hanno coniato tra il 270 ed il 210.
Le monete sono quindi monete coniate da una colonia romana nell'ambito dell'autonomia che avevano le colonia nel III secolo.
Dal punto di vista stilistico le monete sono strettamente affini ai bronzi romani con i tipi di Minerva / protome equina.
I tipi sono due: Marte e Minerva.

Le monete del tipo
"Marte" presentano al dritto la testa della divinità barbata ed elmata ed al rovescio la testa di cavallo con testiera, posto sopra un delfino che nuota. Sono presenti due varianti: in una il cavallo è volto a sinistra e nell'altra a destra.

Le monete del tipo
"Minerva" presentano al dritto una testa femminile con un elmo corinzio e la legenda COZA. Questa testa è interpretata o come la dea Minerva oppure, data le legenda, come la personificazione di Cosa. Al rovescio è raffigurato una protome di cavallo con testiera. La legenda è COSANO o COZANO
Le monete hanno pesi medi uguali a quelli delle monete romane contemporanee.


Toscana - Mura di Cosa


Le mura di Cosa costituiscono il sistema difensivo dell'omonima località di origine romana.
La cinta muraria che delimitava l'antica città di Cosa fu costruita nel corso del III secolo a.C., a protezione dell'insediamento sorto nel 273 a.C.
L'opera difensiva fu realizzata in modo da rendere inespugnabile il luogo, sia in caso di invasione di terra che di incursione via mare. Il perimetro della cerchia muraria si estendeva originariamente per quasi un chilometro e mezzo ed era rafforzato da ben diciotto torri che svolgevano funzioni di avvistamento, di difesa ed offesa; fu uno dei primi esempi di cinte murarie così possenti realizzate dai Romani.
Nel corso dei secoli successivi le mura hanno continuato a svolgere le funzioni difensive; dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente il luogo andò gradualmente spopolandosi, soprattutto nel periodo compreso tra la dominazione longobarda e il X secolo.

Dopo l'anno Mille il luogo andò via via ripopolandosi, divenendo in seguito uno dei tanti luoghi controllati dalla famiglia Aldobrandeschi. I conti trovarono una poderosa cinta muraria già eretta, che non necessitò alcuna modifica da parte loro, pur essendo ipotizzabili una serie di lavori di restauro per recuperare pienamente la struttura difensiva dopo un periodo di declino e abbandono.
Nel corso del Trecento la città di Cosa entrò nelle mire espansionistiche di Siena, che cercava di espandere il proprio territorio verso sud e verso il mare. L'assedio del 1329 determinò la caduta di Cosa e, da allora, il luogo venne completamente abbandonato, poiché non rientrava nei piani della Repubblica di Siena.
Nonostante un lunghissimo periodo di declino e abbandono durato oltre mezzo millennio, la cinta muraria di Cosa è stata riportata agli antichi splendori da un lungo e scrupoloso restauro terminato alla fine del secolo scorso.
Le mura di Cosa risultano in larga parte ben conservate, grazie anche al recente restauro che ha permesso di recuperarle.
La cerchia si presenta a forma poligonale con blocchi di arenaria di notevoli dimensioni, che sono stati regolarizzati sulla superficie esterna e fatti combaciare con tagli netti nei punti di giunzione.
Lungo la cinta muraria si trovavano tre porte, una postierla (presso l'acropoli) e ben diciotto torri sui lati esposti verso il mare, delle quali quindici a sezione rettangolare e tre di forma circolare. Ciascuna porta risultava doppia, essendo stata costituita da una porta esterna con volta e da una interna che ne era priva, separate tra loro da uno vano centrale di passaggio che veniva chiuso con saracinesche.

Toscana - Tempio di Giove a Cosa


Il Tempio di Giove della colonia latina di Cosa si trovava sull'acropoli della città ed era probabilmente il più antico dell'insediamento fondato nel 273 a.C.. Sorgeva sul promontorio roccioso dell’attuale Ansedonia.
Il tempio andò quasi completamente distrutto quando venne poi trasformato in capitolium agli inizi del II secolo a.C. Nonostante ciò si sono salvate fino ai tempi nostri una gran quantità di terrecotte architettoniche, che hanno permesso una ricostruzione della decorazione fittile del complesso coronamento, tra le più complete e attendibili di un tempio italico-etrusco.
Sopra le colonne tuscaniche era poggiata l'architrave, sopra la quale a sua volta erano appoggiate le travi longitudinali, le cui estremità sporgevano nella parte anteriore. Gli spioventi avevano a loro volta le travi inclinate del tetto che sporgevano lateralmente e reggevano i travicelli ortogonali e le assi di coperture sulle quali erano inchiodati le tegole vere e proprie: queste erano con alette congiunte e coperte da embrici. Non esisteva il frontone, il cui spazio triangolare era stato lasciato vuoto.
Quasi tutti gli elementi lignei erano rivestiti da elementi decorativi e lastre in terracotta: così era l'architrave (con elementi vegetali), i lati delle travi longitudinali, le estremità delle medesime (con figurette antropomorfe ai lati e antefisse circolari), le estremità delle travi spioventi (con elementi simili a quelli delle travi longitudinali) e infine il profilo superiore del fontone, il più elaborato, con lastre che coprivano il sistema delle travicelle soprastanti, le terminazioni delle tegole incastrate a "L" e, sulla sommità, una cornice traforata a giorno fissata col piombo. Questa cornice aveva lungo il bordo superiore dei mensici con triplice punta metallica, usati per evitare che vi si posassero i volatili.
La decorazione delle terrecotte era a rilievo, spesso con motivi vegetali o geometrici, ravvivata dalla policromia, con qualche elemento reso dalla sola pittura soprattutto sulla fascia intermedia. Il frontone, come già detto, era vuoto (come fu tipico fino al tardo ellenismo) e vi erano ammesse come decorazione solo le figure o le scene ad alto rilievo che decoravano la terminazione della trave di colmo centrale (columen) o delle due travi in angolo ai lati (mutuli).
Gli acroteri angolari erano a disco e ad antemio, con gorgoni o motivi vegetali; inoltre sono state rinvenute vere e proprie sculture a tutto tondo, poste come acroterio centrale e/o angolare, oppure al centro del tetto, sul grande embrice di colmo. Decorazioni in terracotta a motivi vegetali erano infine presenti probabilmente sulle porte.
Lo stile delle decorazioni si rifà ai modelli tardo-arcaici, della cosiddetta "terza fase" etrusco-italica nella decorazione templare (IV-I secolo a.C.), che differisce dalla "seconda fase" (fine VI-V secolo a.C.) per alcuni dettagli (mancanza della cortina pendula regolare, delle basse lastrine pendenti a mo' di gocciolatoi) e dalla "prima fase" (fine VII- fine VI secolo a.C.) per la mancanza di fregi figurativi e la presenza dei nimbi sulle antefisse, secondo l'influenza greco-occidentale.

Toscana - Cosa

 


Cosa era una colonia di diritto latino, fondata nel 273 a.C. sul litorale della Toscana meridionale. Il suo nome deriva probabilmente da quello di un antico centro etrusco, Cusi o Cusia, individuato nella moderna Orbetello. Sorgeva sul promontorio roccioso dell’attuale Ansedonia, situato a 114 m s.l.m., e oggi il sito rientra nel territorio comunale di Orbetello. L’area comprende due alture, una ad Est (Collina orientale) ed una a Sud (Arce), in una posizione strategica sia per il controllo del mare sia del traffico terrestre. Le ricerche archeologiche sono state avviate dall’American Academy in Rome, sotto la direzione di Frank Brown, a partire dal 1948; sono state indagate le aree del Foro, dell’Arce, un horreum ed alcune abitazioni private. Altri sondaggi hanno interessato le strutture portuali e la peschiera connessa alla laguna. Dal 1991 al 1997 la direzione dei lavori è stata ereditata da Elizabeth Fentress, il cui obiettivo era di fare chiarezza sulle fasi più tarde del sito. A partire dal 2005 fino al 2012 hanno partecipato alle indagini anche le Università di Granada e Barcelona, impegnate nello scavo di una domus. Tutte le istituzioni attualmente attive sul sito partecipano al Progetto Strade di Cosa. Dal 2013, infatti, Cosa ospita anche le équipes di ricerca della Florida State University, del Bryn Mawr College e dell’Università di Tübingen; oggetto delle ricerche è tuttora il complesso termale del sito. Dal 2016, l’Università di Firenze ha avviato un progetto di scavo dell’area Sud del Foro, lungo la via processionale P.
Cosa fu dedotta nel 273 a.C. come colonia romana di diritto latino nella Regio VII Etruria, in seguito alla sconfitta delle etrusche Volsinii e Vulci nel 280 a.C. Al momento della pianificazione urbanistica si decise di impiantare il Foro, destinato all'attività civica e politica, in prossimità della sella che divideva l’Arce (l’acropoli della città) dalla Collina Orientale. A questa prima fase risale la costruzione delle infrastrutture principali, tra cui le mura, le porte, le strade, le fogne. Tuttavia, nonostante la posizione strategica, la colonia non ebbe fortuna e necessitò di una nuova deduzione. Questa avvenne nel 197 a.C. e diede avvio al momento di massimo sviluppo del sito, con una fiorente attività urbanistica, che perdurò fino all’inizio del I secolo a.C. In questo periodo Cosa poté assolvere le funzioni per le quali era stata fondata: il controllo militare-strategico (sia sui territori appena conquistati, sia sul mare dal quale poteva sopraggiungere la minaccia cartaginese), la gestione economica del territorio al quale faceva capo, ma anche la funzione di approdo per i commerci marittimi. Durante la prima metà del I secolo a.C., tuttavia, Cosa fu depredata e distrutta in circostanze ancora sconosciute, restando pressoché abbandonata fino all’età augustea. È netta la differenza con la condizione dell’ager circostante che, invece, visse proprio in questo momento il massimo sviluppo economico: grandi proprietari terrieri cominciarono un intenso sfruttamento del territorio per la produzione agricola, olearia e vinicola, ben evidente nei resti della vicina Villa Settefinestre.
Sotto Augusto, Cosa fu parzialmente ricostruita: le aree del Foro e dell’Arce furono restaurate, mentre solo alcune zone intorno al Foro mostrano una fase di occupazione. Probabilmente il fulcro dell’economia si basava sulla piscicoltura, sicuramente praticata in laguna. Con l’epoca imperiale, a partire dalla metà del I secolo d.C., il territorio cosano divenne parte dei possedimenti imperiali dei Domizi Enobarbi, famiglia dell’imperatore Nerone. Proprio alla volontà di quest’ultimo si devono gli interventi di ristrutturazione nel Foro, tra cui la trasformazione dell’antica Basilica in odeum. In seguito, tuttavia, già nel II secolo d.C. si registrò una nuova fase di abbandono.
All’inizio del III secolo d.C., sotto la dinastia severiana, la città mostrò una ripresa. L’istituzione della Res Publica Cosanorum, la cui identificazione con la città di Cosa è ancora discussa, testimonia la volontà di risollevare le sorti del centro e del suo territorio, l'Ager Cosanus. Nuovamente abbandonata alla fine del III secolo, per il IV secolo d.C. a Cosa si documentano minime tracce di occupazione e segni di negligenza pubblica. Anche il porto vide la cessazione dei lavori di manutenzione. Una sorta di cesura si delineò tra Cosa romana, oramai decaduta nel III secolo, e Ansedonia bizantina, risorta dalle ceneri della prima alla fine del V secolo d.C. Il racconto di Rutilio Namaziano (Rut. Namaz., De Reditu Suo, 1.285-290) ci offre un’immagine di Cosa composta solo da antiche rovine deserte, menzionando la leggenda del suo abbandono a causa di un’invasione di topi.
Cosa raggiunse l’estensione minima tra i secoli IV e V d.C., quando si verificò uno spopolamento quasi totale. Nulla si sa della conservazione di edifici pubblici dopo le ristrutturazioni del III secolo d.C. In seguito alla restaurazione severiana, gli interventi sembrano limitati all’utilizzo dei resti delle strutture più antiche. Al VI secolo d.C. sono ascrivibili tracce dal Foro, dove una chiesa fu impiantata sulle rovine dell’antica Basilica. La presenza di una struttura ecclesiastica e la contemporanea attestazione di due funzionari bizantini definirono Cosa-Ansedonia come una civitas. Durante l’alto Medioevo si verificò un nuovo abbandono prolungato del sito. Ad alcune capanne impiantatesi sulle antiche insulae è stata collegata una necropoli riferita alla fase longobarda. Le ultime strutture altomedievali indagate nella zona orientale della città sono relative ad un castello di legno e terra. Al periodo compreso tra fine del IX e la metà del XII secolo si datano due nuovi edifici ecclesiastici, uno nel Foro, sulle rovine dell’antico Tempio B, e uno sull’Arce. Tra il IX e l’XI secolo d.C. il territorio cosano fu dato in cessione al monastero di S. Anastasio ad aquas salvias. A partire dal XII secolo d.C., il territorio di Cosa fu sottoposto all’autorità papale; successivamente, dal XIII secolo, passò prima alla famiglia degli Aldobrandeschi e poi al comune di Orvieto. Nel 1329, infine, un’armata senese attaccò e distrusse le fortificazioni di Cosa.

Cinta muraria

Al momento della fondazione della colonia fu necessario garantirne la sicurezza tramite l’erezione di un poderoso muro di cinta. Questo circuito, lungo circa 1500 m e parzialmente restaurato per volontà della Soprintendenza, gode di uno stato di conservazione notevole. Oltre al perimetro murario esterno vi è anche un tratto di mura a delimitare l’Arce. La tecnica muraria impiegata è l’opera poligonale di terza maniera, caratterizzata da blocchi squadrati lavorati sulla faccia a vista che aderiscono perfettamente senza dover ricorrere a leganti. La stessa tecnica si osserva per le mura di Orbetello. Lungo le mura vi sono diciotto torri, poste ad intervalli irregolari, delle quali diciassette a base quadrata e una di forma circolare, in prossimità di Porta Romana. La tecnica costruttiva impiegata per le torri quadrate è la stessa riscontrata per le mura, mentre è differente per la torre circolare, dove è stato fatto uso di malta di allettamento. Vi sono tre porte di ingresso alla città, posizionate in relazione alla viabilità interna ed esterna: la Porta Nord-Ovest (Porta Fiorentina, attuale ingresso al sito), la Porta Nord-Est (Porta Romana) e la Porta a Sud-Est (Porta Marina). Le porte condividono la stessa struttura a propylon, un sistema doppio di chiusura con vano interno; l’uso di saracinesche è documentato dai solchi ancora ben visibili lungo gli stipiti di Porta Romana. L’ingresso all’Arce, invece, avveniva tramite un varco non fortificato tra le mura a delimitazione di quest’area. All’angolo occidentale dell’Arce si apriva anche una postierla, poi tamponata in età altomedievale con scarichi di materiale antico.

Sistema viario

Gran parte della rete stradale antica è ancora sepolta, dal momento che solo una piccola porzione è stata riportata alla luce. L’organizzazione viaria era alla base dell'impianto urbanistico della città: una fitta rete di strade intersecate ad angolo retto andavano a delimitare isolati rettangolari. Gli autori degli scavi hanno denominato con lettere le strade orientate NE-SO e con numeri quelle orientate NO-SE. L’ampiezza delle strade era variabile: 27 piedi (8 m) per le vie processionali, 20-21 piedi (5,90-6,20 m) per le arterie principali, 15 piedi (4,45 m) per le strade pomeriali e secondarie. La vie processionali erano due: la strada P e la R. La prima, detta anche Via Sacra, collegava il Foro con l'Arce. La seconda conduceva alla Collina Orientale. Gli assi principali erano le strade O e 5, che attraversavano la città rispettivamente da Porta Romana e da Porta Marina, intersecandosi nella zona del Foro. Il pavimento stradale era realizzato con grandi blocchi di calcare locale posati direttamente sulla roccia su un letto di terra vergine e sabbia.
Un tratto stradale all'incrocio tra l'arteria P e 5 è stato recentemente messo in luce dagli scavi condotti dall'Università degli Studi di Firenze. All’angolo di questo incrocio sorgeva la Casa 10.1, abitazione scavata dalle Università di Granada e Barcelona, che tuttavia non è visibile perché rinterrata per questioni di conservazione.

Il Foro

Il Foro presenta una pianta rettangolare (88 x 35 m); l’ingresso principale era sul lato Nord-occidentale e anticamente doveva avere un aspetto monumentale grazie ad un arco di accesso a triplice fornice, di cui rimangono ancora resti murari in crollo. Rivestiva un ruolo particolarmente rilevante poiché qui, sul suo lato settentrionale, si ergevano i principali edifici civili e di culto: la Basilica, il complesso Curia-Comizio, il Tempio B. Lungo gli altri lati si affacciavano edifici privati e tabernae. I primi edifici risalgono al periodo della fondazione, come il Comizio e il Carcer, ma la sistemazione definitiva della piazza si avrà solo alla metà del II secolo a.C.

Basilica

Della Basilica oggi rimangono solo poche tracce, in gran parte pertinenti alle fasi più tarde dell’edificio. La sua costruzione risale circa al 140 a.C. e fu l’aggiunta finale all’interno del recinto architettonico del Foro, in seguito al completamento della Curia e del Tempio B. La struttura ha pianta rettangolare (35,89 x 27,05 m) con sedici colonne interne che delineavano un’ampia navata centrale e un deambulatorio circostante, affacciandosi sul Foro con un portico a sei colonne. Al centro del muro di fondo, invece, era una nicchia che ospitava un tribunale. È possibile che all’interno della struttura fossero esposte statue, dato il rinvenimento di lastre in travertino per il supporto di piedistalli. La struttura doveva avere una copertura lignea a capriate, a doppio spiovente. In corrispondenza della navata centrale era probabilmente un livello superiore colonnato, testimoniato da resti in situ sopravvissuti ai crolli. Sotto l'edificio si trovano due grandi cisterne scavate nella roccia: una risale alla nascita della colonia, la seconda invece è posteriore. La Basilica fu eretta contemporaneamente alle prime grandi basiliche di Roma, ed è la più antica fino ad ora attestata nelle colonie. Il suo prototipo quindi è da ricercare tra le prime basiliche romane, ancora scarsamente documentate; inoltre, la sua struttura corrisponde al tipo di edificio descritto da Vitruvio nel suo “De Architectura”. A metà del I secolo d.C. l’interno della Basilica fu trasformato in odeum, uno spazio teatrale. Il rinvenimento di un’iscrizione che ne ricorda le operazioni di ristrutturazione ha permesso di attribuire l’intervento alla volontà di Nerone. Intorno al 51 d.C. si data, infatti, un violento terremoto e l’intervento neroniano, dunque, avrebbe posto rimedio ai danni causati. L'Odeum, quadrangolare, poggiava su piedritti rettangolari sostituiti alle colonne inferiori della navata, così da garantire la stabilità per l’elevazione del palco e dei posti per gli spettatori. Tra la fine del III e l’inizio del IV secolo d.C. Cosa cadde in rovina e con essa l'Odeum. Nel corso del VI secolo d.C. sulle rovine della struttura, lungo il suo lato settentrionale, fu costruita una Chiesa. Per i lati lunghi si utilizzò la costruzione preesistente, mentre i lati brevi furono eretti ex novo. Nella porzione sud-orientale, invece, furono costruiti due forni e due ambienti, probabilmente abitazioni.

Il Comizio e la Curia

Accanto alla Basilica, a Sud-Est, sono ancora ben visibili le rovine del complesso Curia-Comizio, deputato alle attività dei magistrati e all’assemblea degli abitanti. Il Comizio è caratterizzato dalla tipica gradinata circolare scoperta (8.60 m di diametro) alla quale si accedeva dal Foro; la Curia, invece, era un ambiente coperto accessibile dalla sommità della gradinata del Comizio. Il complesso è stato costruito subito dopo la fondazione della città. Il Comizio aveva un impianto rettangolare, con l’accesso al Foro posto a Sud-Ovest. Oltre ai gradini di pietra della cavea, file di gradini di legno dovevano disporsi contro i muri perimetrali. Tali gradini erano essenziali, almeno a Nord-Est, per accedere alla Curia, in origine limitata ad un solo ambiente centrale. La Curia era una piccola struttura sviluppata su due piani. Il piano superiore, accessibile dal Comizio, era la Curia vera e propria, mentre il piano inferiore era possibile fosse un archivio. Con la fase successiva (terzo quarto del III secolo a.C.) i gradini del Comizio, probabilmente otto in totale, furono rifiniti in pietra e l’entrata fu monumentalizzata. È stato calcolato che potessero essere ospitate fino a 596 persone. Nello spazio circolare al centro della cavea è possibile vi fosse un altare. Dopo l’arrivo di nuovi coloni nel 197 a.C. la Curia fu ampliata: ai lati del corpo centrale già esistente furono costruiti due nuovi ambienti, ciascuno accessibile dal Comizio. La Curia vera e propria rimase in posizione centrale, l’ambiente Nord-Ovest ebbe forse la funzione di Tabularium (archivio), mentre l’ambiente Sud-Est ospitò probabilmente gli uffici dei magistrati. Il Comizio e la Curia mantennero questa sistemazione per la maggior parte della storia della colonia. Nel corso del II secolo d.C. nel basamento della sala Sud-Est della Curia fu ricavato un Mitreo. Lungo i muri sono ancora visibili le tipiche piattaforme di terra laterali e le basi per le statue – forse – di Cautes e Cautopates; l’altare, in muratura, si trovava sul fondo dell’ambiente. A seguito dei lunghi periodi di abbandono della città, il complesso perse la sua funzione originaria e fu probabilmente abbandonato. Gli ultimi cambiamenti avvennero nel V-VI secolo d.C. quando Cosa riprese vita per un breve periodo e furono create tre nuove direttrici per raggiungere il Foro e l’Arce (manutenzione della rete stradale antica era cessata da tempo). Di queste, quella che collegava l’Arce alla piazza attraversava trasversalmente il Foro passando sulle rovine del Comizio, tagliandone l’antica gradinata con un muro costruito a delimitazione del piano stradale.

Tempio della Concordia o Tempio B
Accanto ai resti del complesso Curia-Comizio rimangono tracce del tempio forense della città. Conosciuto come Tempio B, il culto qui praticato era quello della dea Concordia. Il tempio fu fondato all’incirca nel 175 a.C., su basamento in opera poligonale, ed era caratterizzato da un'unica cella con due file di due colonne sulla sua fronte (pronao). Si pensa che il tempio fosse stato costruito su resti precedenti, ipotesi che giustificherebbe la particolarità dell’altare decentrato di fronte al santuario. Tra il X e l’XI secolo d.C. sopra le rovine del Tempio fu costruita una chiesa cristiana.
Decorazione architettonica e frontonale
Tra i reperti recuperati, numerosi sono i frammenti pertinenti alle decorazioni architettoniche della struttura, che è stato possibile ricostruire in gran parte. Sono presenti tutti gli elementi caratteristici dei templi etrusco-italici, ovvero antefisse, sime strigilate, cornici rampanti traforate e lastre di rivestimento. Tra la fine del II secolo a.C. e l’inizio del I secolo a.C. furono apportate alcune modifiche alla decorazione. Una ricostruzione della decorazione architettonica del Tempio B è esposta all’interno del Museo Archeologico Nazionale di Cosa. Il frontone del tempio doveva essere popolato da sculture fittili di cui sono stati rinvenuti numerosi frammenti e di cui è possibile ricostruire alcuni dei personaggi presenti: un uomo barbato con berretto frigio, vestito con tunica e stivali; due fanciulli, due donne drappeggiate, e altre figure maschili e femminili. È difficile avanzare ipotesi per l’identificazione dei personaggi, ma è verosimile che la scena fosse di carattere mitologico. Tra i rinvenimenti figurano anche decorazioni ritenute parte di un fregio con carri e cavalli e parte della figura di un auriga con lunga veste, perciò è possibile che un fregio corresse lungo il muro della cella, oppure che questi elementi decorassero l’altare del tempio o la base della statua di culto.

Carcer
Accanto al Tempio della Concordia si trova una struttura interpretata come Carcer. L’identificazione si deve alla particolarità della struttura, organizzata su due livelli, di cui uno interrato e interpretato come cella.

Sacello di Liber Pater
Opposto all’accesso al Foro, nel luogo che fu l‘antico ingresso sud-orientale è stato individuato un sacello datato al III secolo d.C. Sulla base del ritrovamento di un’iscrizione ora conservata al Museo, che riporta il nome LIBER in riferimento a Liber Pater, è stata proposta l’ipotesi che il sacello fosse proprio ad esso dedicato. La particolarità è che fu allestito reimpiegando materiali precedenti appartenenti ad altri contesti della città.

Cosa Quadrata
La denominazione di “Cosa Quadrata”, in chiaro riferimento alla dibattuta Roma quadrata tramandata dalle fonti, di fatto un templum dove trarre gli auspici, fu attribuita dagli archeologi americani alle evidenze relative ad un uso cultuale dell’Arce già nel III secolo a.C. Tra queste prime evidenze vi sarebbero una fenditura naturale nella roccia profonda 2/2,50 m, che al momento della scoperta restituì tracce di cenere e vegetali carbonizzati, interpretati come resti di offerte deposte a scopo rituale, e una piattaforma quadrata in pietra calcarea di circa 7,40 m per lato. Il suo posizionamento sul punto più elevato dell’Arce e la vicinanza alla suddetta cavità avvalorano l’ipotesi che anche a questa evidenza sia da attribuire un significato cultuale. Non è un caso che la cella centrale del tempio che sorgerà sull’Arce, il Capitolium, sarà edificata proprio sopra queste due testimonianze precedenti, a rappresentazione di una continuità con il passato religioso della colonia.

Tempio di Iuppiter

Il Tempio di Iuppiter è l’edificio sacro più antico edificato sull’Arce, non più visibile in loco; la sua costruzione risale agli anni 240-220 a.C. nell’area a Sud del Capitolium. Purtroppo i dati non sono sufficienti a poter capire quale fosse la pianta dell’edificio, e lo stesso orientamento – proposto con la fronte rivolta verso la via processionale – è ipotetico. Si pensa che questo primo tempio assomigliasse, nelle dimensioni, al futuro Tempio D. La sua distruzione sarebbe ascrivibile ad un incendio nel corso del I secolo a.C. L’identificazione del culto è stata proposta sulla base del ritrovamento di materiale decorativo tra cui raffigurazioni di Minerva ed Ercole. Tuttavia, la divinità venerata è tutt’altro che certa. Della decorazione scultorea ipotizzata come pertinente al frontone si conservano solo frammenti, conservati ed esposti al Museo Archeologico Nazionale di Cosa, tra cui un torso maschile vestito di corta tunica e corazza, di dimensioni a metà del vero. Sono state rinvenute anche altre figure frammentarie, ma di dimensioni minori.

Tempio di Mater Matuta o Tempio D

I resti del piccolo edificio sacro sono ancora ben visibili. Conosciuto come Tempio D, è stato interpretato come sede del culto di Mater Matuta, ma la sua posizione “marginale” sull’Arce ne denota un ruolo secondario. La struttura, datata al 170-160 a.C., s’imposta su un basso podio in opera poligonale ed in origine era dotata di un’unica cella quadrata di 9 x 9 m con quattro colonne di ordine tuscanico. L’accesso avveniva tramite una gradinata di fronte al tempio, dove era anche l’altare, di cui rimangono le sole fondamenta. Un’ingente ristrutturazione avvenne presumibilmente all’inizio del I secolo a.C., quando la decorazione fu rinnovata e quattro nuove colonne furono erette in posizione avanzata rispetto alle preesistenti. Furono costruite, inoltre, due ante a prosecuzione dei muri laterali della cella, fino ad inglobare le due colonne esterne originarie, mentre quelle centrali furono smantellate. Queste operazioni furono condotte contemporaneamente alla costruzione del Capitolium.
Decorazione architettonica e frontonale
La decorazione originale comprendeva numerosi elementi in terracotta (lastre di rivestimento, antefisse, sime e cornici rampanti traforate), poi rinnovati durante il primo quarto del I secolo a.C. Pochissime tracce rimangono delle sculture frontonali. L’identificazione del culto con quello di Mater Matuta è stata avanzata sulla base del rinvenimento di una statua femminile stante e drappeggiata, con lunghe ciocche ondulate; frammenti di un fregio con delfini – animali presenti nel mito legato alla dea – avvalorerebbero l’ipotesi. Un’ulteriore conferma deriverebbe dal ritrovamento di due iscrizioni che citano la presenza a Cosa di un collegio matronale.

Capitolium

Il Capitolium è il punto di arrivo della via processionale P. Del tempio rimangono ancora resti notevoli soprattutto per la loro conservazione in elevato (fino a 9 m di altezza). La struttura, delle dimensioni di 20,7 x 25,9 m, fu eretta circa nel 150 a.C. su una terrazza con paramento in opera poligonale; l’accesso avveniva tramite una gradinata tufacea che conduceva sul podio, al pronao. Il podio, in questo caso, è solo apparente, poiché in realtà le pietre sono solo addossate alle pareti esterne del tempio. Le celle erano tre e il colonnato sulla fronte prevedeva una prima fila di quattro colonne e una seconda fila di due comprese tra le ante. È stato ipotizzato che il colonnato arrivasse a sfiorare i 7 m di altezza, su un totale di 18 m dell’intera costruzione. La presenza di tre celle è la ragione che ha indotto ad ipotizzare il culto alla triade capitolina. Il pronao, molto profondo, presenta una particolarità: davanti alle celle è una cisterna lunga e profonda con i lati brevi stondati. Sulla terrazza, di fronte al tempio, era l’altare, che tuttavia non presentava lo stesso orientamento dell’edificio sacro. Una modifica dell’orientamento in linea con la struttura del Capitolium avverrà solo in seguito, nel tardo I secolo a.C., quando fu rinnovata anche la decorazione architettonica. A quest’ultima fase sono state attribuite anche numerose Lastre Campana, lastre decorative che dovevano essere fissate alle pareti del Capitolium probabilmente a sostituzione di lastre di rivestimento mancanti o danneggiate. A questo rinnovamento si riferisce anche una serie di operazioni strutturali: si procedette ad ampliare l’area sacra con la demolizione della vecchia scalinata di accesso per anteporne una nuova alla terrazza del tempio. Inoltre, fu eretto un alto muro che recingeva e schermava la scalinata, aperto solo in prossimità di un arco per l'ingresso. A partire dal II secolo d.C., in seguito alla crisi della colonia, l’Arce appare abbandonata. Mancano tracce di frequentazione anche successivamente fino a quando, nel VI secolo d.C., divenne il luogo di principale interesse del sito, insieme a parte del Foro. Una serie di strutture furono costruite tra il Tempio di Mater Matuta e il Capitolium, interpretate come granaio, fienile e stalla. In seguito, probabilmente in concomitanza con la creazione di una linea di castra bizantini difensivi contro i Longobardi, l’Arce fu dotata di fortificazioni proprie, riprendendo parte delle mura antiche, e divenne punto di vedetta strategico. Le tracce più tarde di frequentazione riguardano la costruzione di una chiesa, con relativo cimitero, intorno ai secoli IX-X d.C.
Decorazione architettonica e frontonale
Il tempio presentava una notevole decorazione architettonica in terracotta (lastre di rivestimento, antefisse laterali, sime e cornici rampanti traforate), che nel corso del tempo subì numerosi restauri e rifacimenti. Furono soprattutto le modifiche della metà del I secolo a.C. ad aver apportato le novità più consistenti. Della decorazione scultorea del frontone è possibile distinguere tra una decorazione originaria e una successiva, datata a metà del I secolo a.C. La differenza era nelle dimensioni delle figure. Per quanto riguarda il primo gruppo è stata ricostruita la presenza di almeno quattordici statue. Di queste, solo cinque avevano dimensioni naturali, mentre le altre erano a tre quarti, a metà e ad un terzo del vero. A questa serie appartengono alcuni frammenti conservati al Museo. Per il secondo gruppo sono state ipotizzate figure di altezza uniforme. Il frammento di acconciatura femminile con diadema, conservato al Museo, appartiene a questo gruppo. Il soggetto della decorazione frontonale del tempio è stato ipotizzato fosse un consesso di divinità, tra cui Giove, Giunone e Minerva.

La Collina Orientale
La Collina Orientale non è facilmente raggiungibile e si trova al di fuori del percorso di visita. Durante la prima metà del II secolo a.C. la porzione superiore della collina fu livellata allo scopo di edificare un santuario (Tempio E). È probabile che in precedenza l’area avesse ospitato edifici domestici. Tuttavia rimangono ben poche tracce di questa antica frequentazione. Sono state individuate, invece, alcune strutture che risalgono ad epoca più tarda. Costruzioni lignee (tracce di buche di palo) e altre con piano pavimentale incassato nel terreno (sunken-floored buildings) sono state datate all'XI secolo. In seguito l’area è stata progressivamente fortificata, dapprima con interventi di sterro e poi con la costruzione di una torre e di un sistema di fortificazioni esterne, al centro del quale era un villaggio. Nel XII secolo, all’interno di queste fortificazioni, furono costruite una torre dotata di cisterna e una struttura circolare interpretata come base per una catapulta o per un trabucco. La cisterna è stata poi reimpiegata come prigione, ipotesi suggerita dai graffiti sulle pareti, uno dei quali indica la data del 1211. Nel 1203 il castello passò alla famiglia Aldobrandeschi, e fu in seguito distrutto dai senesi nel conflitto contro Orvieto nel 1329.

Tempio E
Di questo edificio sacro collocato sulla sommità della Collina Orientale si sa ben poco e anche il culto praticato è sconosciuto. Costruito su un terrazzamento affacciato sul mare, doveva avere dimensioni piuttosto ridotte. Probabilmente era parte di una più ampia area santuariale. A causa del successivo livellamento dell’area e in seguito all’intenso utilizzo in epoca medievale, le tracce rimaste del tempio sono scarsissime. La tecnica costruttiva è simile a quella del Tempio D, con podio realizzato con grandi blocchi calcarei isodomi, squadrati per la maggior parte. Purtroppo è possibile risalire solo alle dimensioni esterne della struttura, di 6,25 x 11,25 m. La datazione ad epoca repubblicana (metà del II secolo a.C.) è stata proposta sulla base di un frammento di anfora greco-italica databile al II secolo a.C. rinvenuto all’interno del podio del tempio, e sulla base del confronto delle terrecotte architettoniche con quelle della decorazione originale del Capitolium (metà II secolo a.C.) e con quelle del Tempio B dello stesso periodo. L’edificio cultuale sopravvisse forse solo fino al 70 a.C., quando la città fu colpita da pesante crisi e dopo la quale questa zona non sembra essere stata interessata dalla ricostruzione augustea.

Cisterna

L’approvvigionamento idrico ha sempre costituito una delle maggiori difficoltà per Cosa. Per questa ragione, ogni edificio della colonia, pubblico o privato che fosse, disponeva di un proprio sistema di cisterne e canalette per la raccolta e ridistribuzione dell’acqua piovana. Le cisterne individuate entro il perimetro della città, infatti, sono numerosissime. In prossimità del Foro, nel suo angolo Est, si trova la cisterna più antica del sito: risale al III secolo a.C., quando, al momento della fondazione della colonia, fu necessaria una prima soluzione che fornisse una consistente riserva idrica. La struttura, che in seguito rifornì anche il vicino impianto termale, aveva un carattere pubblico, come suggerito dalle considerevoli dimensioni: è stata calcolata una capacità massima stimata ai 750.000 litri. Originariamente a cielo aperto, la cisterna fu dotata di una copertura in legno solo in un secondo momento. Questa poggiava su quattro grandi pilastri posti al centro, le cui basi rettangolari sono ancora ben visibili.

Impianto termale

Il complesso termale di Cosa si trova a Nord-Ovest del Foro, tra le strade O, N e 5. Inizialmente studiato da Frank Brown negli anni Cinquanta, è oggetto di indagine dal 2013 da parte della Florida State University, Bryn Mawr College e l'Università di Tübingen. Sono ancora da definire l'esatta planimetria, la distribuzione degli ambienti, il periodo di utilizzo. Dalla stratigrafia e dai reperti si suppone che le terme fossero già in funzione nella tarda Repubblica e poi in epoca imperiale, in particolare con la rinascita augustea, e tra l’età traianea e quella antonina. Le terme, cui si accedeva dalla strada O, erano alimentate dal sistema di cisterne della colonia, sfruttando anche la naturale pendenza del terreno da Sud a Nord; rappresentano dunque una grande prova ingegneristica. La maggior parte dell’acqua arrivava attraverso un cunicolo che collegava le terme alla cisterna pubblica del Foro. La struttura più imponente è certamente l’alto muro in opus incertum che sorregge una vasca a pianta rettangolare rivestita di cocciopesto; è ancora oggetto di studio il sistema di sollevamento dell’acqua fino a questa vasca. Gli ambienti indagati sono interpretabili secondo lo schema romano del frigidarium, tepidarium e calidarium, e i locali annessi come latrine, spogliatoi e palestre. L’acqua era riscaldata nel praefurnium e trasportata nell'alveus (una piscina) e nel laconicum (sauna) da un sistema di tubuli. Non lontano dalla vasca sopraelevata vi è un ambiente circolare in opus latericium, interpretato come laconicum (sauna) sulla base di quello che sembra un ipocausto rivestito superiormente da un pavimento mosaicato.

Casa di Diana

L'Atrium building V, più comunemente conosciuto come Casa di Diana, è situato sul lato Sud-Ovest del Foro. La struttura di età repubblicana (prima metà del II secolo a.C.) si delinea come una tipica casa romana ad atrium: l’ingresso era affiancato da due tabernae, una destinata forse alla vendita di vino (dato il rinvenimento, nello scarico della bottega, di coppe e bottiglie), l’altra forse adibita alla cottura e alla vendita di cibo (visto l’alto numero di piatti, bicchieri e tegami). Dall’ingresso si accedeva direttamente all’atrio rettangolare, dotato di impluvium centrale. Sul lato destro dell’atrio erano presenti due cubicula mentre nella parte posteriore erano due alae (ambienti laterali). A seguire vi erano: il tablinum (sala di rappresentanza) e il triclinium. Il giardino era perimetrato da un alto muro, in modo – forse – da evitarne la visibilità dalla strada. La casa fu distrutta agli inizi del I secolo a.C. e fu completamente ricostruita solo in periodo augusteo, verosimilmente verso l’ultimo quarto del I secolo a.C. La ricostruzione delle pareti lasciò solo in minima parte il pisé originale, sostituito da murature intonacate e dipinte; si documenta anche il rifacimento della pavimentazione. Tuttavia l’aspetto più significativo è il cambiamento architettonico di alcune stanze dell’edificio, in particolare il triclinium di cui venne aperta la parete di fondo destinandolo così alle cene estive; la sala da pranzo invernale venne ricavata dall’unione di altre due stanze. Inoltre, un altro ambiente che fu trasformato in un piccolo luogo sacro dedicato al culto imperiale. Tra il 50 e il 60 d.C., all’interno del giardino fu costruita un’edicola addossata al muro perimetrale di Nord-Ovest, dall’aspetto di un tempio in miniatura: tre gradini posti tra due colonne conducevano a una piccola cella con la statua di culto della dea Diana, da cui il nome dato all’abitazione. Sull’architrave era probabilmente infissa un’iscrizione, conservata al Museo Archeologico Nazionale di Cosa: il testo potrebbe fare riferimento ad una via Dianae, forse la via processionale che dal Foro, costeggiando la casa di Diana, saliva fino all’Arce (dove il Tempio di Mater Matuta avrebbe ospitato anche il culto di Diana), oppure potrebbe riferirsi ad un passaggio dalla strada al giardino garantito da una scala, all’angolo Ovest del giardino stesso. Nel corso del III secolo d.C. la casa versò in stato di abbandono, ma la presenza di frammenti ceramici nelle discariche dei materiali attestano la frequentazione dell’area anche in periodo tardo antico (IV-VI secolo d.C.).

Casa del Tesoro
L’abitazione, sulle cui rovine fu costruito il Museo Archeologico, deve il nome al rinvenimento di un tesoretto di 2004 monete. Queste furono nascoste sotto il piano della dispensa, forse per preservarle da un saccheggio. Del tesoretto, un piccolo gruppo di monete è della fine del II secolo a.C., mentre la grande maggioranza appartiene al primo trentennio del I secolo a.C. I denari più tardi sono datati al 74-72 a.C. e la loro ottima conservazione indica che non circolarono molto. La data di tesaurizzazione – e quindi la fase finale della Cosa repubblicana – può essere fissata intorno al 70 a.C. Inoltre, il rinvenimento di due vasi a vernice nera con le lettere Q. FVL. graffite sul fondo ha permesso di riferire l’appartenenza dell’abitazione a tale Quintus Fulvius. La domus risale al I secolo a.C. ma fu a sua volta costruita ristrutturando e sfruttando i resti di abitazioni precedenti. Era caratterizzata da tre stanze (cucina, dispensa e bagno) e da un ampio ambiente, successivamente diviso in due. Sono stati rinvenuti frammenti della decorazione parietale in Primo Stile; della decorazione pavimentale dei nuovi ambienti, invece, è stato portato in luce opus signinum (più comunemente noto come cocciopesto) rosso decorato da tessere bianche. In base al tesoretto, sepolto tra il 72 e il 71 a.C., e alle affinità con la Casa dello Scheletro, la costruzione della Casa del Tesoro è collocata tra il 90 e l’80 a.C.

Casa dello Scheletro

Nel blocco orientale dello stesso isolato della Casa del Tesoro è stata portata in luce la Casa dello Scheletro, così denominata per il ritrovamento, negli strati di accumulo della cisterna, dello scheletro di un individuo maschio adulto, forse gettatovi durante il periodo che portò alla distruzione della città intorno al 70 a.C. La casa si articola intorno ad un atrium al centro del quale vi è l’impluvium, la cui presenza ha suggerito che dovesse esservi un compluvium (apertura nel tetto in corrispondenza dell'impluvium), di cui però non sono state rinvenute tracce. Sotto l’atrio vi è una cisterna. La struttura comprendeva un settore culina-lavatio (ambienti della cucina e del bagno); vi sono anche una probabile seconda cucina e una dispensa per i generi alimentari; vicino si trova un ambiente che sulla base del ritrovamento di pesi da telaio era probabilmente destinato a lavori femminili. A lato dell’ingresso era una piccola stanza da letto. Vi era poi un ambiente di servizio, forse un ricovero per animali, e scale che conducevano ad un piano superiore, di cui si ignora l’estensione. Erano presenti anche due exedrae, una per i mesi invernali (hiberna), l’altra per quelli estivi (aestiva). Dall'exedra aestiva si raggiungeva il triclinium coperto e il portico, che conduceva all’ampio giardino e al triclinium estivo. La maggior parte delle stanze della Casa dello Scheletro ha i pavimenti in opus signinum con disegno geometrico, come nella già citata Casa del Tesoro. Si conserva anche parte della decorazione parietale. La datazione della costruzione e della successiva distruzione della Casa dello Scheletro è data dal ritrovamento di monete repubblicane, tra cui due quadranti, datati al 90-89 a.C., che indicherebbero la costruzione dell’abitazione dopo l’89 a.C. La distruzione della casa è datata intorno al 70 a.C. sulla base del ritrovamento del tesoretto di monete nella casa di Quintus Fulvius che ha determinato l’inizio del periodo di decadenza dell’intera città.

Casa degli Uccelli
All’interno dello stesso isolato delle case precedentemente descritte, fu indagata anche una terza casa, la Casa degli Uccelli, che deve il suo nome alla decorazione parietale, con uccelli rossi, bianchi e marroni appollaiati su tralci di vite.

Necropoli
A Cosa le aree destinate alla sepoltura hanno restituito evidenze funerarie che si datano tra il III secolo a.C. (età ellenistica) e il IV secolo d.C. (epoca tardo antica). Le necropoli erano situate ad Est, lungo la strada che conduceva al porto, e a Nord-Ovest, lungo la strada che da Cosa conduceva al porto della Feniglia. Nella necropoli orientale si trovano monumenti funerari a forma di tempietto in antis (modello magno-greco), presumibilmente databili agli inizi del II secolo a.C.; l’area, a valle, ospita il mausoleo E/1, monumento che sancisce l’uso di nuovi schemi architettonici per monumenti funerari e non, e che interessa Cosa tra il II e l’inizio del I secolo a.C. Il sepolcro ha una base cubica su cui si erge una struttura a prisma rettangolare con lati concavi; doveva essere rivestito da lastre in arenaria con modanature in stucco. Le attestazioni provenienti, invece, dalla necropoli di Nord-Ovest risalgono alla prima età imperiale; l’area ospita il mausoleo N/1, alcuni resti di un monumento, sepolture terragne ed il colombario Santi. Quest’ultimo risale al I secolo a.C. e presenta una pianta grossomodo quadrangolare; fu realizzato in opera cementizia con paramento in laterizio. All’interno del colombario vi sono le nicchie che dovevano contenere le olle cinerarie. Subito al di fuori della porta Nord-Ovest sono state rinvenute anche tombe alla cappuccina (con copertura in laterizi disposti a doppio spiovente) di inumati e di incinerati risalenti a fine I-inizio II secolo d.C. Particolare interesse ha suscitato la tomba alla cappuccina che ospitava i resti di una giovane ragazza, conservati ed esposti al Museo Archeologico Nazionale di Cosa. Le ossa presentavano patologie che sembravano da attribuire alla malnutrizione (come la bassa statura, l'osteoporosi e l'ipoplasia dello smalto dentario), ma la ragazza era accompagnata da un ricco corredo che comprendeva gioielli d'oro e di bronzo, indicatore di uno status sociale alto. Per questo si è ipotizzata prima una generica malattia metabolica, in seguito riconosciuta come celiachia grazie alle analisi del DNA.
Due monumenti funerari fiancheggiano anche la Strada Provinciale Litoranea: il cd. colombario e il monumento di San Biagio, risalenti alla prima metà del II secolo d.C.

Aree portuali
Al momento della fondazione Cosa rappresentava per Roma l’insediamento marittimo più a settentrione come, di contro, Paestum a meridione. La colonia era dotata di due aree portuali, il Portus Cosanus e il Portus Feniliae. Il primo si trova a Sud del promontorio cosano, il secondo a Nord. Il Porto della Feniglia fu utilizzato, fin da epoca repubblicana, per la pescicoltura. Erano presenti impianti di lavorazione e una zona abitativa. Il Portus Cosanus si trova in prossimità dello Spacco della Regina ed è stato indagato più approfonditamente rispetto a quello di Feniglia; ha rivelato tre fasi di utilizzo, a partire dalla fondazione della colonia latina nel III a.C., fino al III d.C. Per il primo periodo (III secolo a.C. – fine II a.C.) non sono state rinvenute strutture; tuttavia, la testimonianza di un florido commercio ci è confermata dalla grande quantità di frammenti di anfore, probabilmente da riferirsi alla fabbrica ceramica dei Sesti, una gens della nobiltà di Roma che, secondo Cicerone, possedeva una villa a Cosa ed era impegnata nel commercio del vino e nella produzione degli appositi contenitori da trasporto (le indagini mineralogiche condotte sull’impasto ceramico hanno riportato una quasi sicura origine cosana dei recipienti). Un gran numero di anfore sono bollate SES, quindi riferibili alla suddetta gens. La legislazione del II secolo a.C. che impediva ai Galli di impiantare colture vinicole, favorì la produzione e il commercio italiano di vino, e di conseguenza il porto di Cosa. Testimonianza della frequentazione della laguna retrostante ci è data da un piccolo tempio datato al secondo quarto del II secolo a.C. e dedicato a Poseidone/Nettuno. È un tempietto italico ad una cella con decorazioni fittili fra cui è stato rinvenuto un busto di guerriero, oggi conservato ed esposto al Museo Archeologico Nazionale di Cosa. Significativo è il fatto che questa divinità fosse associata alla famiglia dei Domizi Enobarbi, possessori di un vasto appezzamento di terreno nella zona di Cosa. Inoltre, il rinvenimento di un’anfora bollata SEX DOMITI fa pensare ad un controllo congiunto della produzione ceramica dei Domizi e dei Sesti nell’area cosana. Nell’area della laguna probabilmente era presente un impianto per l’allevamento del pesce. L’apice del commercio si ebbe fra il II e il I secolo a.C., quando il porto divenne un complesso produttivo-emporico con attività di porto-peschiera e di esportazione di vino e garum. Mediante i profitti dell’esportazione del vino, i Sesti hanno apparentemente trasformato una semplice lavorazione del pesce in un’industria su larga scala per l’esportazione del garum; ciò è confermato da Strabone (Geografia, V.2.8) che ci dà notizia di un’industria peschiera a Cosa. A questo momento risalgono le strutture in calcestruzzo del porto e della peschiera: i cinque moli, il ponte, la piattaforma presso la Tagliata Sud, le vasche per i pesci nella laguna, la piattaforma della Spring House, e i pilastri dell’acquedotto. Su uno dei moli, probabilmente, doveva ergersi un faro.
La retrostante laguna in questo periodo fu dotata di infrastrutture come canali di ricircolo delle acque, fra cui il maggiore è il canale della Tagliata, che permetteva il controllo del flusso dell’acqua e la creazione di vasche per la cattura del pesce. Il porto era, al contrario della città, ricco di sorgenti di acqua dolce sfruttate mediante la costruzione della Spring House, edificio da cui proviene parte di un macchinario ligneo per il prelievo dell’acqua e l’immissione nell’acquedotto. A partire dall’epoca imperiale, il porto di Cosa subì una sensibile contrazione: le cause possono rintracciarsi nell’insabbiamento e nella diminuzione degli scambi commerciali, visto lo spostamento dell’attenzione di Roma sui traffici orientali. Un’ipotesi è quella che la fabbrica dei Sesti sia stata distrutta a seguito dell’appoggio del proprietario alla causa dei Cesaricidi. Durante il I d.C. si impiantò nel sito una villa marittima – la Villa della Tagliata – e sulla Spring House risorse un edificio per la captazione delle acque, probabilmente per rifornire degli impianti termali. La nuova Spring House fu distrutta da un incendio intorno al 150 d.C. La villa marittima, a pianta rettangolare, aveva un accesso monumentale, una torre ed un complesso termale. Completata a metà del secondo d.C. all'interno di un progetto di volontà imperiale, doveva unire le funzioni residenziali a quelle portuali e produttive. La villa, quasi per niente indagata, giace al di sotto di una torre di avvistamento del XIV secolo. Rutilio Namaziano, durante il suo viaggio, fece tappa a Porto Ercole poiché gli scali cosani non erano più praticabili. La villa infatti, ristrutturata nel III secolo d.C., sopravvisse fino alla metà del V secolo d.C.


Toscana - Museo archeologico nazionale di Cosa


Il Museo archeologico nazionale di Cosa si trova ad Ansedonia, nel comune di Orbetello nella maremma toscana. Il museo raccoglie dei reperti rinvenuti nell'area archeologica di Cosa al cui interno si trova.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale della Toscana, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
Il Museo è stato realizzato grazie alla collaborazione fra lo Stato Italiano e l’American Academy in Rome. La lapide marmorea posta all’ingresso del museo ricorda coloro che ne hanno permesso la nascita: la marchesa Rita San Felice, Frank Brown, Giacomo Caputo, Guglielmo Maetzke e Francesco Nicosia. La sua creazione fu di quasi trent’anni successiva alla prima campagna di scavo, avvenuta nel 1948. Al tempo i materiali furono custoditi in un piccolo edificio moderno che si trovava sull’Arce di Cosa, ma F. Brown volle fin da subito realizzare un museo locale, dove esporre e custodire i numerosi reperti rinvenuti. Alla fine degli anni Settanta, dunque, fu costruito un nuovo edificio per il Museo all’interno delle mura romane, sopra la Casa del Tesoro di cui sfrutta fondamenta e pianta. L’insula corrispondente, compresa tra le strade 4, 5, M e N, è stata ampiamente indagata e ha permesso di riportare alla luce anche la Casa dello Scheletro e la Casa degli Uccelli. Originariamente dotato di una sola sala, nel 1997 il Museo aggiunse altri due vani, dedicati rispettivamente all’area del porto e alle fasi di frequentazione più tarda della città e ad una piccola aula didattica.
Larga parte dello spazio espositivo interno al museo è dedicato al materiale ceramico suddiviso per classi e aree di provenienza: ceramica a vernice nera, sigillata, ceramica italo- megarese, ceramica a pareti sottili e ceramica comune. - La ceramica a vernice nera, proveniente dalle abitazioni della città, comprende vasellame da mensa datato tra il III e il I secolo a.C. Tra i piatti ve n’è un esemplare con fondo decorato a rosette impresse a stampo e l’iscrizione graffita “SAL”. Vi sono poi le patere, piatti poco profondi con rialzo ombelicale cavo utilizzati durante libagioni rituali. Infine sono esposte le pissidi.
- Tra la ceramica sigillata è uno skyphos di età giulio-claudia, un vaso di ispirazione greca dotato, in questo caso, di due anse ad anello: presenta una decorazione a tema erculeo: una pelle di leone e una clava all’interno di una cornice di rosette e volute. Di particolare interesse è la coppa con sigillo in planta pedis, ovvero a impronta di piede. Il bollo al suo interno reca la firma di Sex. Murrius Festus, il vasaio attivo dal 50 d.C. circa. - Altra classe ceramica esposta al Museo di Cosa è l’italo-megarese, caratterizzata da coppe emisferiche prive di piede e realizzate a matrice, che trae origine dall’omonima produzione greca, nata a imitazione delle coppe argentee ellenistiche. A questa classe appartiene una coppa, decorata con rosone centrale da cui si diramano foglie di acanto e tralci vegetali, datata tra il II e il I secolo a.C.
- I vasi potori rientrano nella classe delle pareti sottili ed erano destinati al consumo di liquidi. A questi appartengono due esemplari restaurati: il primo presenta un corpo globulare con anse ad anello e una decorazione a diamanti, il secondo, invece, è emisferico, decorato a ragnatela e si data al più tardi all’inizio del regno dell’imperatore Claudio.
- Infine, l’ultima classe esposta è la ceramica comune, di uso quotidiano, tra cui brocche, pentole, olle e piccole anfore. A queste forme si aggiungono una serie di bottiglie fusiformi di varie dimensioni e un tegame dotato di tre piedi, funzionale alla cottura dei pasti direttamente sul fuoco.
Separata da quella di epoca romana, vi è una sezione dedicata ai materiali pertinenti ai periodi tardoantico e medievale. Per la tarda antichità si possono osservare manufatti ceramici che, in questo caso, non provengono da contesti domestici, bensì dal sacello di Liber Pater. Vi sono numerose lucerne, testimoni di un culto pagano notturno, recipienti per la preparazione e il consumo di cibo, e vasellame rituale. Quest’ultima categoria comprende recipienti crateriformi (è possibile che fossero impiegati per la mescita del vino) con superficie decorata da particolari appliques fittili conformate a serpente. Tra i reperti medievali, invece, si trovano maioliche arcaiche e ceramica invetriata, datate tra XII e XIV secolo d.C. e rinvenute entro la cisterna del castello sulla Collina Orientale.
Le lucerne sono uno degli strumenti più comuni di epoca romana. Nel corso del tempo, le tre parti principali che compongono questo oggetto – corpo, ansa, beccuccio – hanno subito notevoli trasformazioni. Per questo motivo, spesso, hanno un ruolo rilevante nella definizione cronologica dei vari contesti di ritrovamento. Tra quelle esposte, particolarmente interessante è l’esemplare con sette beccucci e ansa con presa lunata.
La quasi totalità dei manufatti vitrei, rinvenuti in grande quantità durante gli scavi, sono frammentari. Questi materiali risalgono per la maggior parte ad epoca romana (seconda metà II sec. a.C.- prima metà V sec. d.C.), ma ve ne sono anche di periodo Ellenistico e Medievale. Tra i reperti di epoca romana si trovano vetri di finestre, piccoli oggetti circolari (forse pedine da gioco), parti di gioielli e tessere di mosaico. Spicca per colorismo una coppa emisferica a strisce policrome frammentaria, databile probabilmente al periodo augusteo, realizzata fondendo barrette di vetro colorate poste l'una accanto all'altra a formare un disco.
Un altro manufatto di grande importanza, mancante della parte superiore, è il simpulum, un tipo di mestolo utilizzato per attingere il vino da contenitori profondi, realizzato in vetro blu e databile al I sec. d.C.. Sono presenti anche altre forme, come unguentari, coppe non decorate e piatti.
Sono numerosi gli strumenti realizzati in osso animale o metallo legati alla vita domestica e alle attività quotidiane. Si osservano oggetti legati alla cura della persona, soprattutto ad uso femminile, alle attività domestiche, all’abbigliamento e alla scrittura. Tra i materiali in osso e avorio si osservano alcuni spilloni o aghi crinali, aghi da cucito, bobine per il filo e stili per la scrittura. Gli spilloni erano utilizzati per realizzare o sostenere le acconciature femminili. Una lavorazione incompleta può indicare che lo spillone era utilizzato solo in fase di messa in piega, mentre lavorazioni o decorazioni particolari o le ridotte dimensioni (in modo che l’ago non fosse visibile all’interno dell’acconciatura) possono suggerire una funzione più prettamente ornamentale. Alcuni aghi, in osso e in bronzo, comunemente indicati come aghi da cucito, presentano una cruna o due o più fori di diverse dimensioni. Vi sono anche fuseruole, rocchetti e pesi da telaio, riferibili all’attività femminile del cucito, della filatura e della tessitura. Gli stili, invece, erano utilizzati per la scrittura su tavolette cerate: il corpo presenta una parte più tozza che va assottigliandosi in un’estremità appuntita. Alcuni strumenti potevano essere utilizzati per l’applicazione del trucco. Lo si può dire di strumenti in osso, tra cui due cucchiai detti ligulae: erano probabilmente destinati al prelievo e alla preparazione del trucco. I cosmetici impiegati erano contenuti in pissidi, cofanetti di cui la piccola figura di Diana che tende l’arco – qui esposta – poteva essere parte della decorazione.
Inoltre, vi sono alcuni esemplari appartenenti alla decorazione applicata su oggetti domestici lignei e alcuni dadi (alea) da gioco, un passatempo molto comune in epoca romana.
Gli oggetti metallici comprendono utensili e manufatti di uso comune, strumenti chirurgici e da toilette. Non sempre è possibile identificare la diversità d’impiego. Tra le fibule ve n’è una del tipo “Aucissa”, un tipo molto diffuso e datato tra la fine del I sec. a.C. e la fine del I sec. d.C circa. Quest’ultima è particolarmente degna di nota poiché fu rinvenuta dagli archeologi nella malta dell’arco di accesso del Capitolium della città, che risulta così databile alla prima età imperiale. Vi sono poi elementi di chiavistelli e serrature, cardini e chiavi, maniglie, pinzette, fibbie, bracciali e anelli, sigilli, una applique a forma di delfino, parte di un incensiere e parti di una bilancia stadera (ad un solo braccio, differente dalla più comunemente nota bilancia a due piatti, detta trutina o libra). Poi ancora, chiodi, borchiette, alcuni campanellini detti tintinnabula, e una lama di strigile.
Due reperti, che non appartengono ad ambito domestico, sono degni di nota. Uno è un piccolo bronzetto realizzato in fusione, che rappresenta un giovinetto stante, di gusto ellenistico: è stato rinvenuto tra il materiale di riempimento dei paramenti delle mura cittadine e fece pensare ad una offerta votiva, per invocare la protezione divina sulle mura stesse. Assieme al bronzetto fu ritrovato anche un castone in ametista con la dea Tyche raffigurata su di esso. Il secondo reperto è la punta metallica di una hasta, con tracce del piombo fuso usato per infiggerla nel terreno. Questo reperto è particolarmente interessante poiché testimonia l’usanza commerciale di piantare una hasta nel terreno davanti all’edificio in cui si sarebbe tenuta una vendita pubblica di beni (vendere “all’asta”).
Le pareti interne delle ricche domus aristocratiche e dei più importanti edifici pubblici erano spesso decorate con intonaci dipinti. Non sempre è possibile recuperare questo tipo di decorazione; tuttavia, in alcuni casi, i frammenti di intonaco dipinto raccolti hanno permesso di ricostruire gli schemi decorativi. All’interno del Museo ne sono esposte alcune porzioni, tra cui alcune appartenenti ad un pannello decorato ad uccelli e motivi vegetali su fondo giallo e cornice blu, proveniente dalla Casa degli Uccelli e risalente al periodo augusteo. Il pannello più grande, decorato in Primo stile, presenta una decorazione su più livelli: la parte centrale è organizzata per rettangoli verticali, ad imitazione forse di ortostati marmorei. I colori impiegati sono il rosso, il verde e il giallo. Questo pannello appartiene probabilmente alla decorazione dalla Casa dello Scheletro, in particolare al triclinium della domus. È stata proposta una datazione al I secolo a.C.
Gran parte dello spazio espositivo del Museo è dedicato al materiale scultoreo, per la maggior parte proveniente dall’area del Foro e dell’Arce; è presente anche un numero consistente di reperti dalla Casa di Diana e dal sacello dedicato al culto, si ipotizza, di Liber Pater. Quest’ultimo, costruito nel IV secolo d.C., reimpiegò sculture in marmo tutte precedenti per datazione alla fioritura del santuario. L’ipotesi più plausibile è che si tratti di sculture prelevate dalle rovine delle domus cosane o dalle ville della campagna circostante. Molti di queste sculture, infatti, si adatterebbero meglio ad un contesto domestico rispetto ad uno santuariale o, come nel caso del rilievo con gli attributi di Minerva, ad un contesto bacchico. Di seguito la descrizione dei reperti, divisi per categorie, più significativi esposti al Museo.
Tra i rilievi, quello con rappresentazione di suovetaurilia è particolarmente importante. La lastra, realizzata a bassorilievo, raffigura la processione sacrificale che prevedeva l’uccisione di un maiale, una pecora e un toro. Sono rappresentati due vittimari che procedono verso destra portando un toro sacrificale. Il reperto è stato riutilizzato come lapide per una tomba medievale ma in origine è verosimile che appartenesse alla sovrastruttura decorativa di un antico edificio di età giulio-claudia, un altare associato ad uno dei templi dell’Arce.
Interessante è anche il pannello con gli attributi di Minerva, proveniente dal sacello di Liber Pater e datato al I secolo d.C. Verosimilmente questo tipo di rilievo doveva fungere da rivestimento architettonico o da elemento decorativo.
Piccola statuaria
Tra le erme conservate, tre appartengono alla tipologia con testa barbata di Dioniso, mentre una ci è giunta acefala. - L’esemplare rinvenuto entro il sacello di Liber Pater è particolarmente interessante: si tratta di un supporto da tavolino monopode, conformato a erma di Dioniso, realizzato in marmo lunense (I sec. d.C.)
- Il piccolo busto di erma con testa barbata di Dioniso, in marmo giallo antico, è altrettanto interessante poiché potrebbe rappresentare un tentativo di restauro antico: l’esemplare è attaccato con cemento ad un diverso pilastro, di calcare scuro. La datazione proposta si colloca tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C.
Sono numerosi i reperti che rientrano nella categoria delle teste, busti e torsi. I più importanti sono:
- Il piccolo busto di erma con testa barbata di Dioniso, in marmo giallo antico, è altrettanto interessante poiché potrebbe rappresentare un tentativo di restauro antico: l’esemplare è attaccato con cemento ad un diverso pilastro, di calcare scuro. La datazione proposta si colloca tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C.
- La Testa di Ercole, in marmo pavonazzetto, proviene dal sacello di Liber Pater e appartiene ad un tipo che risale al IV secolo a.C. (prototipo lisippeo); la realizzazione di questo busto, tuttavia, risale al I sec. d.C. Dallo stesso contesto provengono anche la Testa di Afrodite e il Busto femminile, interpretato come possibile raffigurazione di Venere.
- La statuetta di Diana è stata rinvenuta all’interno della domus a cui ha dato il nome, la Casa di Diana. Realizzata in marmo bianco a grana molto fine (forse di origine greca), la figura indossa un chitone segnato da pieghe marcate, arricchito da una pelle di cervo che ricopre la schiena e si poggia sulla spalla sinistra. Dallo stesso contesto proviene anche una statuetta di cane, che si pensa dovesse accompagnare la figura della dea.
Tra i reperti appartenenti alla piccola statuaria, due sono a figura intera:
- La statua stante di Dioniso, con piccolo basamento ovale, proviene anch’essa dal sacello di Liber Pater; rappresenta Dioniso giovane, con la gamba destra poggiata ad un supporto intorno al quale è avvolto un tralcio di vite. Il modellato è molto morbido e lo stile con cui è resa la figura è stato associato a Prassitele. Si tratta di un prodotto di alta qualità realizzato a inizio I secolo d.C..
- La statuetta di Pan con le mani legate dietro alla schiena fu rinvenuta sotto le macerie della Basilica ,crollata a seguito del terremoto del 51 d.C. Lo stile, la posa, il modellato della muscolatura di torso ed arti, così come l’espressività del volto, si rifanno allo Stile ellenistico, in particolare a quello dell’Asia Minore occidentale (come Pergamo o Rodi). Si tratta di un prodotto romano, probabilmente di I secolo d.C., utilizzato per decorare un ambiente domestico.
Grande statuaria
Allestimento interno
All’interno delle sale sono conservati diversi esemplari: una statua maschile acefala seduta e semipanneggiata, modellata sul tipo statuario di Giove Capitolino e risalente al I secolo a.C.; un torso di statua maschile acefala semipanneggiata, identificato con Asclepio e datato al I secolo a.C.; una statua acefala di loricato risalente all’età Flavia; la parte inferiore di una statua maschile, probabilmente un senatore a giudicare dalla tipica scarpa legata alla caviglia, il calceus senatorius; la copia di un ritratto maschile, donato da Giorgio e Gianserio Sanfelice di Monteforte.
Allestimento esterno
- La statua di togato, risalente al I secolo d. C, è stata ritrovata all’interno della Basilica. La figura è stante e con il braccio sinistro doveva muoversi nel gesto dell’adlocutio, probabilmente con in mano un rotolo. Vicino alla gamba destra restano tracce di un elemento ai piedi della figura: doveva trattarsi di uno scrinium, contenitore per i rotoli, oggetto identificativo per una figura pubblica.
- Statua-ritratto risalente al I secolo d.C. ritrovata durante gli scavi della Basilica di Cosa, accanto alla statua di togato. La figura rappresentata è coperta da un pallio drappeggiato in modo complesso e cinto al di sotto del seno.
Entrambe le statue prese fino ad ora in esame, insieme ad un altro frammento non esposto, compongono un unico gruppo statuario risalente al I secolo d.C. che doveva essere posizionato sul fronte scena dell'Odeum di metà I secolo d.C. ricavato nella Basilica. Un’iscrizione riporta che L. Titinius Glaucus Lucretianus fece realizzare queste statue per dedicarle a Nerone, forse per ottenerne il favore. Il gruppo statuario doveva essere formato da tre figure appartenenti alla famiglia imperiale; al centro doveva trovarsi la statua di Claudio divinizzato (frammento non esposto), da un lato Nerone rappresentato come togato e dall’altra parte Agrippina Minore (la figura palliata).
- Busto ritratto di imperatrice Datato al I secolo d. C, è stato realizzato in marmo bianco a grana fine. Si presenta molto danneggiato, soprattutto il volto che è completamente distrutto; restano invece tracce di parte della capigliatura e delle orecchie. Poiché il volto non si è conservato, occorre basarsi su ciò che rimane della capigliatura per avanzare un’ipotesi di identificazione. La resa di questa, infatti, è tipica della acconciature femminili durante i regni di Claudio e Nerone; in particolare, questo tipo di capigliatura si riscontra nei ritratti di Agrippina Minore, con cui è stata identificata anche questa scultura.
L’esposizione delle decorazioni architettoniche dei templi cosani ricalca la posizione originaria dei singoli elementi. Questo tipo di esposizione è molto suggestiva e sicuramente funzionale alla percezione di come dovevano mostrarsi agli occhi degli antichi.
Tempio B o della Concordia
Il Tempio del Foro, fin dalla sua fase originaria (175 a.C. circa), fu dotato di una ricca decorazione architettonica. Tutti i lati del tetto presentavano lastre di rivestimento applicate, con motivo a nastri a croce intervallati a fiori; sui lati lunghi erano sormontate da antefisse con teste di menade e sileno. Nella parte frontonale, invece, la decorazione era più ricca, con sime fissate sopra le lastre, e cornici rampanti traforate a coronamento finale. Le sime erano decorate a palmette e con una strigilatura nella parte superiore. Le cornici rampanti, invece, presentavano trafori ogivali circolari, sormontati da una fascia a palmette. Tra la fine del II secolo a.C. e l’inizio del I secolo a.C. si data una ridecorazione, cui si devono nuove cornici rampanti traforate, con motivi a triskelia (simbolo a tre punte ricurve) e a 8 verticale. Una delle pareti del Museo è dedicata all’esposizione di parte delle decorazioni della fase originaria.
Tempio di Iuppiter

La struttura fu riccamente ornata fin dal principio (240-220 a.C. circa). Lastre di rivestimento con doppio anthemion con palmette e loti, e fascia strigilata erano applicate lungo i lati del tetto; sopra queste, sui i lati lunghi, erano antefisse con teste di Minerva e Ercole. Sulla fronte, invece, le lastre erano sormontate da sime con strigilatura e fascia a motivo floreale, e da cornici rampanti con trafori ogivali e circolari e una fascia a palmette. Le lastre di rivestimento fissate sotto gli spioventi e alla base del frontone, invece, dovevano essere decorate con nastri incrociati alternati a fiori. Il restauro datato alla prima metà del II secolo a.C. portò all’introduzione di nuove antefisse con teste di satiri e di nuove lastre di rivestimento con palmette dritte e capovolte applicate sui lati lunghi. All’architrave, in origine sprovvista di rivestimento, furono fissate lastre con decorazione a palmette addorsate disposte obliquamente e separate da due spirali a S. Una parete espositiva è dedicata alla fase originaria della decorazione architettonica del tempio.
Capitolium

Il tempio, eretto intorno al 150 a.C., presentava una notevole decorazione architettonica in terracotta, che nel corso del tempo subì numerosi restauri e rifacimenti (dalla fine del II secolo a.C. fino all’età augustea, e poi di nuovo in età giulio-claudia, adrianea e severiana).
La decorazione originale prevedeva lastre di rivestimento lungo il bordo del tetto. Queste erano decorate con palmette dritte e capovolte, e sopra queste, lungo i lati lunghi, erano antefisse con teste di Ercole e Minerva; sulla fronte, invece, erano sormontate da sime strigilate. A coronamento finale del frontone, infine, erano cornici rampanti traforate con motivi centrali a 8 verticale e triskelia, e fascia superiore con palmette e fiori di loto. Sotto gli spioventi erano lastre con palmette dritte e capovolte, dove quelle dritte erano intervallate da teste di satiri e menadi. L’architrave, invece, era rivestita da lastre con palmette addorsate disposte diagonalmente e separate da due spirali a S. I restauri datati al 120 a.C. e al 100 a.C. non hanno comportato variazioni ingenti. Modifiche maggiori riguardano, invece, gli interventi datati alla fine del primo quarto del I secolo a.C., quando le sime strigilate furono arricchite da una fascia decorata con patere ombelicate e rosette. Le operazioni della metà del I secolo a.C. sono quelle che hanno apportato le novità più consistenti: antefisse con signora degli animali (potnia theron); cornici rampanti traforate con decorazione ad archetti traforati sormontati da una fascia con motivi a fiamma stilizzata e palmette; lastre di rivestimento con teste di Gorgone. Sono stati rinvenuti, inoltre, sei tipi diversi di Lastre Campana, che probabilmente andavano a sostituire le lastre di rivestimento mancanti o danneggiate. Due pareti espositive sono dedicate alla decorazione dei lati lunghi e del lato frontonale del Capitolium nella variante di metà del I secolo a.C.
Tempio D o di Mater Matuta
La struttura, eretta tra il 170 e il 160 a.C., fu riccamente decorata fin dalla sua fase originaria. Lastre di rivestimento con palmette dritte e capovolte erano affisse ai bordi degli spioventi e sotto di essi, e alla base del frontone. Sopra di esse, sui lati lunghi, erano antefisse con teste di menade e giovane satiro. Nella parte frontonale, invece, sopra le lastre di rivestimento erano fissate sime strigilate; a coronamento finale, vi erano cornici rampanti con serie sovrapposte di cerchietti traforati e una fascia decorata a palmette. L’architrave, invece, doveva essere rivestita da lastre con motivo a palmette addorsate e spirale a S. Al primo quarto del I secolo a.C. risalgono alcune modifiche, tra cui alcune riguardanti la cornice rampante traforata, dove compaiono motivi floreali e a svastica. Una parete del Museo è dedicata alla decorazione architettonica originaria del Tempio. Tra le antefisse esposte, due di esse appartengono alla decorazione del tempio di Iuppiter, avvenuta in concomitanza con la costruzione del Tempio di Mater Matuta.
Decorazioni
scultoree frontonali
Tra le decorazioni appartenenti al Tempio della Concordia vi è una testa di uomo barbato con berretto frigio e una lastra con parte di un carro, forse pertinente ad un fregio. Del Tempio di Iuppiter si conserva in particolare il torso acefalo di guerriero corazzato. Alla decorazione frontonale del Capitolium appartengono alcune teste fittili, tra cui due interpretati come quelli di Iuppiter ed Apollo, e alcuni esemplari a grandezza naturale, tra cui parte di un piede femminile con sandalo e un frammento di testa con treccia e diadema di donna (forse Giunone). Pertinenti al tempio di Mater Matura sono, infine, una testa femminile frammentaria e frammenti del tiaso marino, con mostri e delfini.
Reperti numismatici
Le monete esposte ci testimoniano il lunghissimo periodo di utilizzo dell’area del Foro di Cosa, dal momento della sua fondazione al progressivo abbandono. Nel III secolo a.C., ad alcune colonie di diritto latino fu concesso il diritto di battere moneta propria, secondo prototipi e stili comuni a Roma. Quasi immediatamente dopo la sua fondazione, anche Cosa inaugurò la propria zecca (vedi Monetazione di Cosa), come ci è testimoniato dalla quartuncia in bronzo (n.2) con testa elmata di Minerva, al dritto, e testa di cavallo, al rovescio; si noti la presenza dell’etnico in caratteri dell’alfabeto latino, COSA e COSANO. All’incirca allo stesso periodo appartiene l’oncia fusa con chicco di grano, sia a dritto che a rovescio (n.31), ma emessa da Roma. Nel 211 a.C. Roma iniziò a coniare il denario, (indicato con una X al dritto della moneta), che venne portato a sedici assi nel 118 a.C. Il denario repubblicano esposto (n.18), appartiene a questo periodo cronologico. Il denario repubblicano n.33 è un suberato, ovvero coniato in metallo vile come piombo o rame e successivamente argentato, testimonianza di un primo ed ampio utilizzo della falsificazione numismatica in antichità. La terza fila di monete esposte fanno tutte parte del sistema monetale imperiale augusteo, basato su aureo, denario e quinario in argento, sesterzio, dupondio, asse, semisse e quadrante (monete in bronzo e oricalco). Per la grande qualità di conservazione, spicca sicuramente il sesterzio dell’imperatore Commodo (n.10), databile al 183 d.C. La quarta ed ultima fila delle monete in esposizione è pertinente alla fase tardo imperiale, tra cui un antoniniano di Aureliano (n.72). La moneta più tarda proveniente dal Foro di Cosa è una moneta di Valentiniano II (n.75) databile al 387 d.C.
Materiale epigrafico
A Cosa sono state rinvenute numerose epigrafi, appartenenti a diverse tipologie. Alcune di queste sono esposte al Museo. Ve ne sono di tipo funerario, in cui le iscrizioni sono di dedica ai propri defunti, tra le quali particolarmente interessante è la colonnina in marmo datata al II secolo d.C.: su questa è incisa la dedica di Nigrio alla compagna Marcellina e fu reimpiegata come acquasantiera nella Chiesa di San Biagio alla Tagliata. Tra le epigrafi di tipo sacro, si veda il frammento di una vasca iscritta sul suo orlo. Di particolare importanza è un frammento marmoreo trovato nei pressi del Foro, si cui è iscritta una dedica da parte di Zoe Mater a Liber Pater, divinità di origine italica spesso assimilata a Bacco; tale iscrizione potrebbe confermare che il tempio presente nel lato Sud-Est del Foro fosse dedicato a questa divinità. Vi sono, inoltre, epigrafi di carattere pubblico, tra le quali particolarmente significativa è la lastra marmorea iscritta datata al 235 d.C., che celebra l’attività di restauro di un portico del Foro e dell'Odeum voluta dall’imperatore Massimino il Trace e da suo figlio. Di questo esemplare è importante il fatto che Cosa sia qui denominata res publica, elemento che può aiutare a determinare che tipo di realtà politica vigesse nel III sec. d.C. dopo il lungo abbandono del sito. I bolli laterizi, in qualità di manufatti inscritti, rientrano in questa categoria. Tuttavia, l’iscrizione in questo caso non ha scopo celebrativo ma prettamente funzionale.
All’interno del Museo sono esposti cinque differenti bolli su laterizio: - Il primo reca il nome di Lucius Titinius Glaucus Lucretianus, impresario edile dell’aristocrazia lunense al tempo di Claudio e di Nerone, che a Cosa sovraintese i restauri del Capitolium, dell'Odeum e della Casa di Diana.
- Il secondo riporta BELBERAC; rinvenuto nei pressi del Capitolium, sembra attestato solo a Cosa.
- Il terzo presenta l’iscrizione GAVI ad andamento retrogrado. La gens Gavia è attestata su tutto il territorio italico, ma in particolar modo in Etruria. Cicerone menziona un P. Gavius in relazione a Cosa; potrebbe così trattarsi di un personaggio cosano proprietario di alcune figlinae locali.
- Il bollo L(ucius) S(estius) è stato attribuito a Lucius Sestius Albinianus Quirinalis, proprietario della Villa di Settefinestre, designato console da Augusto nel 23 a.C.. Egli era produttore di materiale edile e di vino, come attestano i bolli “SEST” sulle anfore.
- Infine l’ultimo bollo riporta PRO(---) CN(ei). F(--- ) S(ervus) ad andamento retrogrado. Forse si tratta di un servo dal nome Pro(---) e del suo padrone Cneus F(---). L’analisi paleografica e l’assenza del cognomen suggeriscono una datazione di I secolo a.C..

Necropoli

Una piccola sezione è dedicata alle necropoli di Cosa. Sono esposte, oltre alle iscrizioni funebri, una tomba alla cappuccina ricostruita, olle cinerarie e reperti da sepolture a pozzetto. La tomba alla cappuccina, risalente al I secolo a.C., presenta una copertura a doppio spiovente realizzata con coppi e tegole. La particolarità riguarda il tipo di corredo, ricco, di tipo aristocratico, ad accompagnamento di una giovane fanciulla deceduta per malnutrizione. Questo apparente controsenso è stato risolto dalle analisi condotte sulle ossa della giovane, che, fragili ed erose alle estremità, hanno rivelato la presenza di alcuni elementi patogeni, come anemia ed ipoplasia dello smalto dentario: la fanciulla soffriva di una forma di stress nutrizionale o infettivo, e le analisi sul DNA hanno confermato che morì per celiachia.

Reperti dal porto di Cosa

Questa sezione comprende strumenti da pesca (pesi da rete, ami), parte della decorazione del tempio del porto e numerose anfore da trasporto, di diverse tipologie. Il tempio portuense era probabilmente dedicato a Nettuno/Poseidone e il busto di guerriero in terracotta qui conservato doveva decorarne il frontone, forse inserito in una scena di combattimento. Le anfore erano i principali contenitori da trasporto, perciò il loro rinvenimento testimonia chiaramente l’attività commerciale che doveva interessare l’area. Molte tra le anfore esposte appartengono al tipo Dressel 1 (nella foto), il più comune nel periodo tardo-repubblicano. La sua produzione si colloca tra il II e il I secolo a.C. a Cosa. Questa forma era legata al trasporto di vino. Tra le anfore vinarie vi sono anche quelle greco-italiche, le italiche (Lamboglia 2), le Dressel 2-4 di produzione italica ed ispanica, le Dressel 6 italiche, le anfore galliche (Gauloise 4). Vi sono anche anfore per il trasporto di olio: le italiche (Baldacci III) e le Dressel 20 di produzione ispanica. Infine, le anfore africane (I, II) destinate al trasporto non solo di olio, ma anche di salse di pesce. Tra quelle rinvenute figurano anche anfore Dressel 28, probabilmente di produzione locale, datate al I secolo a.C.