mercoledì 28 maggio 2025

EGITTO - Cairo, ME / Statuetta di Cheope

 
La Statuetta di Cheope, al Museo Egizio de il Cairo,  è un'antica statua egizia. Manufatto artisticamente e archeologicamente rilevante, fu scoperta nel 1903 da Sir Flinders Petrie durante gli scavi di Kom el-Sultan, presso Abido. Rappresenta l'antico faraone Cheope, il più celebre sovrano (2589 - 2566 a.C.) della IV dinastia egizia (Antico Regno), costruttore della Grande Piramide.
Ad oggi, questa piccola figura seduta è l'unica raffigurazione tridimensionale di Cheope a essersi conservata sostanzialmente integra dall'epoca antica, mentre di altre sue sculture esistono solamente frammenti. La maggior parte degli archeologi la ritiene coeva a Cheope o degli anni immediatamente successivi; ma, soprattutto a causa del luogo inusuale della scoperta, tale datazione è stata messa spesso in discussione. L'egittologo Zahi Hawass ha espresso riserve circa l'attribuzione agli anni della IV dinastia, preferendo ascriverla alla XXVI dinastia egizia (664 - 525 a.C.). Tale teoria non ha ricevuto molto credito, ma nemmeno è stata confutata e resta dibattuta. Lo scopo, forse rituale, del reperto è ugualmente dubbio. Se coeva a Cheope, forse servì al suo culto, in vita o postumo; se appartenente all'epoca tarda, potrebbe trattarsi di un'offerta votiva (come sostiene Hawass). L'artista che la realizzò è sconosciuto.
La figurina in avorio misura 7,5 cm in altezza, 2,9 in larghezza e 2,6 in profondità ed è parzialmente danneggiata e scheggiata. La superficie esterna era originariamente lucida e ben levigata. Cheope è rappresentato con la corona rossa (deshret) del Basso Egitto, la cui sommità e la spirale che decorava la fronte sono mancanti. Il re siede su un trono dal basso schienale, meno lavorato della figura umana. Nella mano destra posata sul petto, stringe lo scettro a forma di flagello (nekhekh), che ricade sul braccio destro. Il braccio sinistro è piegato e posato pacatamente sulla coscia; la mano è distesa sul ginocchio. I piedi, come il piedistallo, sono andati perduti. La testa, dalle grandi orecchie, è leggermente sproporzionata rispetto al corpo; il viso è tondo e gli zigomi pieni. Il mento è sprovvisto della consueta barba cerimoniale posticcia. Il re indossa un corto perizoma plissettato; la parte superiore del corpo è nuda. Sul lato destro, accanto al ginocchio del faraone, compare il nome Horo di Cheope, Mejedu; alla sinistra del ginocchio, in un cartiglio, permangono lievissime tracce parte terminale del suo nomen Khnum-Khufu (grecizzato in Cheope).
Il manufatto fu rinvenuto nel 1903 da Flinders Petrie nella necropoli di Kom el-Sultan ad Abido, in una delle stanze del "Magazzino C" del grande e danneggiato tempio di Osiride-Chontamenti, nel settore meridionale del sito archeologico. Il tempio di Kom el-Sultan fu dedicato al dio sciacallo Chontamenti già nel Periodo arcaico dell'Egitto (XXXII - XXVII secolo a.C.), forse durante la III dinastia. Ai tempi del Medio Regno vi fu eretto un santuario in onore del dio mummiforme Osiride, al quale molto presto la figura di Chontamenti fu assimilata: il complesso templare fu così considerato il santuario di Osiride-Chontamenti. Nel medesimo locale del "Magazzino C" furono rinvenute parti in gesso di statue lignee, ascrivibili a quell'epoca.
La statuetta è l'unico oggetto tridimensionale e sostanzialmente integro che raffiguri Cheope, anche se è erroneo affermare, come spesso succede, che questa sia l'unica immagine conservatasi del faraone. Esistono, infatti, svariati frammenti d'alabastro di statuette del re in trono, rinvenuti da George Reisner a Giza. Rainer Stadelmann valuta che, originariamente, nel tempio mortuario di Cheope dovessero esistere all'incirca cinquanta statue del monarca, di cui forse venti o venticinque riutilizzate dal suo successore, Djedefra. Sulle basi delle sculture di Cheope fu inscritta la sua titolatura reale, che oggi sussiste solo in frammenti, sufficienti tuttavia per l'identificazione. Il nome completo Khnum-Khufu è sovente abbreviato in Khufu (grecizzato in Cheope). Esiste, per esempio, un frammento di una statua del faraone in trono di cui resta la sillaba -fu all'interno di un cartiglio, facilmente riconducibile al nome Khufu.
Il frammento C2 della Pietra di Palermo registra la creazione di due colossi di Cheope in piedi, una in rame e un'altra in oro puro.
Varie altre statue sono state ricondotte a Cheope per i loro tratti stilistici. Le più famose tra queste sono la "Testa reale di Brooklyn", in granito rosa (nella foto aa sinistra), e la "Testa reale di Monaco" in pietra calcarea. In entrambe, il faraone identificato con Cheope indossa la corona bianca dell'Alto Egitto. 

EGITTO - Cairo, ME / Statua di Djoser in calcare

 

La statua di Djoser in calcare (JE 49158) è un'antica statua egizia raffigurante l'importante faraone Djoser (ca. 2680 - 2660), della III dinastia. Fu rinvenuta nel complesso funerario di Djoser a Saqqara, nel 1924/1925, e si trova al Museo egizio del Cairo, con la sigla d'inventario JE 49158.
L'importanza della statua, al di là dell'elevata qualità artistica, risiede nell'essere, probabilmente, la più antica a grandezza naturale di un faraone mai realizzata, e anche la prima del genere in un contesto funerario.
Scolpita nella pietra calcarea, fu coperta di gesso bianco e dipinta. Il faraone compare assiso su di un alto trono, in una posa tipica del periodo arcaico dell'Egitto; è avvolto nel mantello bianco della festa giubilare sed (con la quale il Paese celebrava un magico ringiovanimento del sovrano a partire dal suo 30º anno di regno) e reca un'imponente parrucca nera e striata sormontata dal copricapo reale nemes; una barba cerimoniale posticcia, danneggiata, aderisce al suo mento; il viso è rasato a eccezione di un paio di sottilissimi baffi. Gli occhi infossati erano originariamente di materiale vetroso incastonato, in seguito scomparso lasciando le orbite vuote: ciononostante, Djoser conserva uno sguardo ieratico e distante. Il volto è animato dalla piega leggermente sdegnosa della bocca, che enfatizza la distanza ideologica fra il sovrano e il popolo. Sul piedistallo è inscritto il nome d'Horo del faraone, "Netyerikhet". La statua fu rinvenuta nel 1924/1925 in una cappella inaccessibile presso il lato settentrionale della Piramide di Djoser, a sua volta nel più grande complesso funerario del faraone (la più antica costruzione a carattere monumentale della storia a venire realizzata tramite conci[2]). La cappella, denominata "serdab" (in arabo "cantina"), aveva due "finestre" (in realtà due piccoli fori) sulla facciata per consentire allo spirito di Djoser di "guardare" al di fuori della piramide e venire a conoscenza delle offerte recategli di volta in volta.

EGITTO - Cairo, ME / Tavoletta di Narmer

 


La Tavoletta di Narmer è una tavoletta e una lastra votiva e un importante reperto archeologico egizio, datato attorno al XXXI secolo a.C., contenente alcune delle più antiche iscrizioni geroglifiche rinvenute. Secondo alcuni rappresenterebbe l'unificazione dell'Alto Egitto e Basso Egitto effettuata da re Narmer, che taluni identificano con il faraone Menes. Su un lato il re viene raffigurato con la corona bianca a bulbo dell'Alto (meridionale) Egitto, e sull'altro lato il re indossa la corona rossa piatta del Basso (settentrionale) Egitto.
Assieme alla testa della mazza del re Scorpione e alla testa della mazza del re Narmer, trovate assieme nel "Deposito principale" a Ieracompoli, l'antica Nekhen, la tavoletta di Narmer fornisce una delle più antiche raffigurazioni conosciute di un re egizio. La tavoletta è realizzata secondo le numerose convenzioni classiche dell'arte egizia, già formalizzate al momento della creazione del manufatto. L'egittologo Bob Brier citando la tavoletta di Narmer l'ha definita "il primo documento storico al mondo".
La tavoletta, sopravvissuta per cinque millenni in condizioni quasi perfette, fu scoperta dagli archeologi britannici James E. Quibell e Frederick W. Green, in quello che chiamarono Deposito principale del Tempio di Horus a Ieracompoli, durante la stagione di scavi 1897-1898. Nella stessa sessione di scavi furono trovate le teste di mazza di Narmer e di Scorpione. Il luogo preciso e le circostanze esatte di questi ritrovamenti non furono registrati in modo chiaro da Quibell e Green. Infatti, il resoconto di Green pone la tavoletta in uno strato differente, a uno o due metri dal deposito, che è considerato più accurato sulla base delle note di scavo originali. È stato ipotizzato che questi oggetti fossero doni fatti al tempio da parte del re. Ieracompoli era l'antica capitale dell'Alto Egitto durante la fase dinastia 0 dell'Egitto.
Le tavolette venivano solitamente usate per la preparazione dei cosmetici, come l'impasto di polveri colorate, ma questa è troppo grande e pesante (ed elaborata) per essere stata creata per uso personale, ed era probabilmente un semplice oggetto votivo, creato apposta per il tempio. Secondo una teoria sarebbe stato usato per applicare i cosmetici alle statue degli dèi.
La tavoletta di Narmer fa parte della collezione permanente del museo del Cairo.
La tavoletta di Narmer è una lastra cerimoniale a forma di scudo, alta 64 cm, larga 42 cm e con uno spessore di 2,5 cm. È incisa in un singolo pezzo di siltite piatta di colore grigio-verde scuro, più genericamente citata con il nome di grovacca.
La pietra è stata spesso erroneamente identificata in passato come ardesia o scisto. L'ardesia è fatta a strati ed è molto fragile, mentre lo scisto è una roccia metamorfica contenente grani di minerale grandi e distribuiti in modo casuale. Entrambe sono ben diverse dal materiale resistente a grana fine che costituisce la tavoletta e proveniente da una cava, utilizzata sin dall'era predinastica, situata a Uadi Hammamat. Questo materiale fu usato in maniera estensiva durante il periodo predinastico per la creazione di tali tavolette, ed anche per la produzione di statue dell'Antico Regno come quella del sovrano Khasekhemui appartenente alla II dinastia, trovata nello stesso complesso della tavoletta di Narmer a Ieracompoli, scolpita con lo stesso materiale.
Entrambi i lati della tavoletta sono decorati, incisi in rilievo. In cima ad entrambi i lati si trovano i serekht, motivi centrali a facciata di palazzo, che riportano all'interno i simboli n'r (pesce siluro) e mr (scalpello) rappresentazioni fonetiche del nome di Narmer. I serekht su ogni lato sono affiancati da una coppia di teste bovine con alte corna ricurve, rappresentazione dell'antica dea vacca Bat, personificazione del cosmo e della Via Lattea nella mitologia egizia dei periodi predinastico e dell'Antico Regno come dimostrano le cinque stelle puntiformi sulla fronte, sulle corna e vicino alle orecchie.
Lato diritto

Nel primo registro, sotto le teste bovine appare una processione, con Narmer trionfante alto quasi quanto l'intera sezione (una rappresentazione artistica tradizionale che ne enfatizza l'importanza) che indossa la corona rossa, detta "deshret", del Basso Egitto, il cui simbolo era il papiro. Il sovrano è abbigliato con un gonnellino, detto "shendyt", dal quale pende la coda di toro simboleggiante "Horus Toro Possente" ed ha la barba posticcia intrecciata e ricurva come una divinità.
Tiene in mano la mazza del guerriero ed un flagello, due simboli tradizionali di regalità. Sulla sua destra si trovano i geroglifici che ne rappresentano il nome, anche se non sono contenuti in un serekht.
Dietro di lui si trova il "Portatore di sandali", il cui nome potrebbe essere rappresentato dalla rosetta che appare vicino alla sua testa, ed un secondo simbolo rettangolare di non chiara interpretazione, ma che è stato ipotizzato che rappresenti una città o cittadella. Subito davanti al faraone si trova un sacerdote vestito con una pelle di leopardo e con i capelli lunghi. Vicino, una coppia di geroglifici che sono stati interpretati come il suo nome: Tshet (ipotizzando che questi simboli abbiano lo stesso valore fonetico utilizzato nella successiva scrittura a geroglifici).
Davanti al sacerdote si trovano quattro portastendardi identificati nei Seguaci di Horo che sorreggono gli emblemi dei primi territori unificati quali:
  • una placenta, simbolo del dio Khonsu indicante fertilità
  • un canide che rappresenta Upuaut ovvero "Colui che apre la via"
  • un uccello dal lungo becco associato alla Luna
  • un uccello simbolo del culto del sole
All'estrema destra della scena, sotto la Barca sacra di Horo, si trovano dieci corpi decapitati, con le teste tra le gambe, che simbolizzano le vittime dell'azione militare contro Uash[15], città del Delta conquistata da Narmer. Sopra di loro si trovano i simboli di una barca, un falcone, ed un arpione, che sono stati interpretati come i nomi delle città conquistate nella definitiva vittoria delle Anime di Nekhen sulle Anime di Buto.
Nel registro intermedio sotto alla processione, due servi stanno tenendo delle funi legate ai colli intrecciati di due serpopardi speculari, felini mitici con corpi di leopardo (o più probabilmente leonesse, dato che non sono raffigurate le macchie) e colli simili a serpenti, che rappresentano la vittoria del sovrano sul Caos. Il cerchio formato dai colli esageratamente curvi si trova nella parte centrale della tavoletta, che sarebbe la zona in cui venivano polverizzati i minerali usati come cosmetici. Questi animali sono stati considerati un ulteriore simbolismo dell'unificazione dell'Egitto, ma si tratta di un'immagine non riportata in nessun'altra opera egizia. Niente fa supporre che i due animali rappresentino regioni specifiche, nonostante che sia l'Alto Egitto sia il Basso Egitto avessero leonesse quali divinità protettrici ed i colli intrecciati potrebbero rappresentarne l'unificazione. Immagini simili di animali mitologici sono conosciute anche in altre culture contemporanee e sono stati ritrovati altri manufatti tardo-predinastici, tra cui altre tavolette e manici di coltelli, che mostrano elementi simili provenienti dall'iconografia mesopotamica.
Nella parte bassa della tavoletta si vede il sovrano con sembianze di toro mentre assalta e demolisce le mura di una città fortificata e calpesta un nemico caduto. La testa abbassata nell'immagine, viene interpretata come il trionfo del re che sconfigge i nemici, da cui l'epiteto "Toro di sua madre" dato ai re egizi in quanto "figli" della divinità protettrice Bat, la dea vacca. Nei geroglifici dei periodi successivi, il toro acquisisce il significato di "forza".
Lato rovescio

Ripetendo il primo registro (sezione) dell'altro lato, si trovano due teste bovine dalla faccia umana, che rappresentano la dea vacca protettrice Bat, mostrate frontalmente. Tra le due teste è inserito il serekht. Questa visione frontale è atipica per l'arte dell'antico Egitto, tranne che per le rappresentazioni di Hathor, che spesso appare anche in questo modo. Alcuni autori ipotizzano che queste immagini rappresentino il vigore del re paragonandolo a quello di una coppia di tori.
Una grande immagine al centro della tavoletta rappresenta Narmer mentre indossa la corona bianca dell'Alto Egitto, il cui simbolo era un loto in fiore mentre impugna la mazza piriforme da combattimento. È vestito con un gonnellino e dalla cintura pende la coda di toro, altro simbolo regale.
Alla sua sinistra si trova un dignitario abbigliato con un perizoma ed una collana, che tiene con una mano i sandali del re e con l'altra una brocca. A lato il simbolo di una rosetta e di un vasetto sferico. Alla destra del re si trova un prigioniero in ginocchio, che sta per essere colpito dal re che lo tiene per i capelli. Questa scena verrà riprodotta spesso nelle rappresentazioni del sovrano-conquistatore nei periodi storici egizi successivi alla Dinastia 0.
Vicino alla sua testa si trovano i glifi che indicano la Libia, regione da cui proviene il prigioniero. Sopra si trova il falco che rappresenta Horus, appollaiato su una serie di fiori di papiro, simbolo del Basso Egitto. Tra i suoi artigli tiene un arpione attaccato al naso di una testa umana che emerge dalla palude, indicando che domina il respiro del nemico e quindi la vita. La serie di papiri sono state spesso interpretate come riferimento alle paludi della regione del delta del Nilo nel Basso Egitto oppure indicherebbero la battaglia si svolse in una zona paludosa ma anche che ogni fiore rappresenti 1000 nemici sottomessi in battaglia, per un totale, quindi di 6000 persone.
Sotto i piedi scalzi del re si trova una terza sezione, in cui sono raffigurati due nemici nudi con la barba ed in posizione scomposta. Sono stati uccisi, gettati nel fiume e disegnati come se fossero visti dall'alto. A sinistra della testa di ognuno di loro si trova un segno geroglifico: una città murata per il primo, un tipo di nodo per il secondo, che probabilmente indica il nome della città sconfitta.
La tavoletta ha scatenato un acceso dibattito tra gli studiosi nel corso degli anni. In generale gli argomenti di discussione si dividono in due campi: studiosi che credono che la tavoletta rappresenti eventi reali, e studiosi secondo i quali si tratterebbe di un oggetto forgiato per creare il mito della riunificazione dell'Egitto fatta dal re. Si crede che la tavoletta raffiguri l'unificazione del Basso Egitto ad opera del sovrano dell'Alto Egitto, oppure che registri un recente successo militare sui Libici, o l'ultima roccaforte di una dinastia del Basso Egitto con base a Buto. Studiosi più recenti, quali Nicholas Millet, ipotizzano che la tavoletta non rappresenti eventi storici (come l'unificazione dell'Egitto), ma che piuttosto raffigurino eventi dell'anno in cui l'oggetto fu offerto al tempio. Whitney Davis ha ipotizzato che l'iconografia presente in questa ed in altre tavolette predinastiche sia volta a mostrare il re come metafora visiva del cacciatore conquistatore, colto nel momento in cui porta il colpo mortale ai propri nemici. John Baines ha ipotizzato che gli eventi raffigurati siano risultati ottenuti dai re del passato, e che "l'obiettivo principale di questo oggetto non sia quello di registrare avvenimenti, ma affermare che il re domina il mondo civilizzato nel nome degli dei, ed ha sconfitto le forze interne e soprattutto esterne del Caos".


EGITTO - Cairo, ME / Maschera funeraria di Psusennes I

 


La maschera funeraria di Psusennes I è la maschera funeraria in oro dell'antico faraone egizio Psusennes I (1047–1001 a.C.) della XXI dinastia egizia. Fu scoperta dall'egittologo francese Pierre Montet nel febbraio/marzo 1940 nella necropoli di Tanis e si trova al Museo egizio del Cairo. Nella sepolture reali di Tanis furono complessivamente rinvenute quattro maschere funerarie, tutte in oro, appartenute ai faraoni Psusennes I (ellenizzazione dell'originale Pasebakenniut), Amenemope (1001–992 a.C.), Sheshonq II (887–885 a.C.) e al generale Uendjebauendjed (contemporaneo di Psusenne I). Pierre Montet si imbatté nella camera sepolcrale di Psusennes I il 15 febbraio 1940 e vi penetrò il 21 febbraio successivo alla presenza di re Fārūq I d'Egitto; fu necessario rimuovere un enorme blocco di granito prima di raggiungere il sarcofago del re. Una volta dischiuso il grande sarcofago in granito rosa (sottratto alla tomba di Merenptah, successore di Ramses II) circondato da statuette ushabti e un secondo sarcofago in granito nero, gli archeologi si trovarono di fronte al maestoso feretro del re in argento massiccio, parzialmente danneggiato dall'umidità di Tanis. La salma del faraone indossava, oltre alla maschera, vari gioielli (30 anelli, 22 bracciali), ditali, talismani, sandali e un manto: tutto in oro.
La maschera, rinvenuta sulla mummia, ormai ridotta a scheletro, di Psusennes I, è la più ricca ed elaborata fra quelle del sito — seconda solo, fra le maschere funerarie egizie a noi giunte, a quella celeberrima di Tutankhamon, risalente a oltre trecento anni prima e con la quale ha una certa somiglianza. Mentre la maschera di Tutankhamon reca iscrizioni, quella di Psusennes I non ne ha alcuna; inoltre, gli inserti in pasta vitrea e lapislazzuli riguardano solamente gli occhi e le sopracciglia, senza sottolineare le strisce del copricapo nemes, né gli intrecci della barba posticcia o i dettagli del grande ureo che sormonta la fronte del sovrano.
La maschera fu realizzata in una lamina d'oro di spessore inferiore al millimetro (0,6 mm) e la decorazione svolta quasi solamente mediante incisione; l'ureo e la barba posticcia furono preparati separatamente e applicati in un secondo momento. L'artista conferì al viso del sovrano una avvenenza giovanile, verosimilmente diversa dal reale aspetto di Psusennes I, ricostruito basandosi sul teschio.
L'egittologo ceco Jaromír Málek ha così espresso il suo parere sulla maschera funeraria di Psusennes I:
«Si tratta di una splendida opera d'arte, intensa e controllata, la cui purezza e semplicità le fa quasi superare la maschera di Tutankhamon

EGITTO - Cairo, ME / Testa di Tutankhamon come Nefertum

 


La testa di Tutankhamon come Nefertum (JE 60723), anche nota come Testa di Nefertum, Testa dal fiore di loto o Tutankhamon come dio-sole, fu rinvenuta nella tomba di Tutankhamon (KV62) nella Valle dei Re. Rappresenta il giovane faraone (1332–1323 a.C.) come un bambino ed è un esempio di arte di fine XVIII dinastia (Nuovo Regno). Si trova presso il Museo egizio del Cairo con la sigla d'inventario JE 60723.
Le vicende della sua scoperta sono controverse, dal momento che Howard Carter non ne registrò il ritrovamento nel diario degli scavi. La testa fu trovata nel 1924, due anni dopo la scoperta della sepoltura, da Pierre Lacau e Rex Engelbach, nella tomba KV4 del più tardo Ramses XI (utilizzata dallo stesso Carter come deposito dei propri scavi), in mezzo ad alcune bottiglie di vino rosso. All'epoca Carter non si trovava in Egitto a causa della chiusura, carica di polemiche, della tomba di Tutankhamon e della cancellazione della licenza a effettuare scavi, ormai revocata alla vedova di Lord Carnarvon, Lady Almina.
Carter affermò di aver rinvenuto la testa fra i calcinacci del corridoio d'ingresso della KV62. Il reperto non risultò mai menzionato nel corso della prima stagione di scavi nel sito: l'archeologo si era infatti limitato a registrare il ritrovamento di vasi e cocci in alabastro e creta dipinta nel suddetto corridoio. Non esiste documentazione fotografica della testa nel diario degli scavi, a differenza degli altri reperti della tomba. Questo controverso ritrovamento generò non poche polemiche, con il sospetto che Carter abbia tentato di rubare la testa per tenerla per sé.
La testa, parzialmente danneggiata, è scolpita nel legno ed è alta 30 centimetri. Lo stucco che ricopre il legno è dipinto di un vivace rosso-bruno, benché ampie sezioni di colore siano cadute (Carter incolpò dei danni i funzionari egiziani che sequestrarono il reperto). Le sopracciglia, il tipico trucco egizio e le pupille del giovanissimo re furono realizzate in blu; il cranio è completamente rasato, con una visibile ricrescita dei capelli. Il volto ha gli inconfondibili tratti somatici di Tutankhamon, e lo ritrae nella sua infanzia. Come nella sua celebre maschera funeraria, le orecchie del re presentano fori per gli orecchini. Si tratta dell'unica immagine certa di Tutankhamon bambino.
La scultura rappresenta il faraone nelle sembianze di Nefertum, il dio del sole nascente. Il dio-bambino Nefertum sboccia da un fiore di loto blu, associato alla rinascita perpetua del sole a causa della sua chiusura di notte e riapertura al mattino. La base del busto, colorata di blu, rappresenta le acque primordiali dalle quali gli Egizi credevano fosse sorto l'astro solare all'inizio dello creazione del mondo. La figura del faraone (considerato "Figlio di Ra") era strettamente connessa al Sole, ma la sua raffigurazione con le sembianze di questo particolare dio solare doveva magicamente garantirne la rinascita, dopo la morte, nella vita eterna (similmente al sorgere del sole dopo ogni notte).


EGITTO - Horemheb al cospetto di Atum, Luxor

 


La statua di Horemheb al cospetto di Atum (J 837) è un'antica statua egizia di grandi dimensioni, raffigurante il faraone Horemheb (1319–1292 a.C.), ultimo sovrano della XVIII dinastia egizia, in ginocchio nell'atto di presentare offerte al cospetto del dio-creatore Atum, esposta al Museo di Luxor.
Questo notevole reperto fu casualmente scoperto nel 1989 nel corso di ordinari lavori di consolidamento in un cortile nel sito del Tempio di Luxor: per la precisione, fu rinvenuto all'interno di un grande nascondiglio (cachette) di statue di divinità e sovrani, delle quali questa di Atum con re Horemheb fu la prima portata alla luce. Il dio (assiso in un trono decorato con il motivo del sema-taui, "Unione delle Due Terre", del dio Hapy) è raffigurato in una posa fissa e severa, investito di una solenne dignità, mentre riceve l'omaggio del faraone inginocchiato davanti a lui e di proporzioni leggermente minori. Atum indossa la Doppia Corona (pschent) dell'Alto e Basso Egitto, tipica della sua iconografia, oltre a impugnare il simbolo ankh della vita nella mano sinistra; re Horemheb reca il copricapo faraonico nemes sormontato dall'ureo.
Una simile composizione era comune nelle pitture parietali ma assai rara nella statuaria a tutto tondo, a causa delle difficoltà legate alla realizzazione di un progetto così complesso: la figura di Horemheb inginocchiato nell'atto di porgere vasi fu difatti lavorata separatamente e incastrata in secondo momento nella larga base della statua, verosimilmente per facilitare l'esecuzione dell'opera. Sia la schiena del sovrano che quella del dio poggiano contro un pilastro dorsale (basso quello di Horemheb, decisamente più alto quello di Atum), tipico dell'arte egizia, utile per rendere più stabili le figure scolpite e dare spazio a iscrizioni geroglifiche.

EGITTO - Statua di Amenofi III su slitta processionale, Luxor

 

La statua di Amenofi III su slitta processionale (J 838) è un'antica statua egizia di dimensioni monumentali raffigurante il faraone Amenofi III (1388/6–1350 a.C.) della XVIII dinastia egizia, oggi al Museo di Luxor.
Questo notevole reperto fu casualmente scoperto nel 1989 nel corso di ordinari lavori di consolidamento in un cortile nel sito del Tempio di Luxor: per la precisione, fu rinvenuto all'interno di un grande nascondiglio (cachette) di statue di divinità e sovrani, delle quali la statua di Amenofi III di dimensioni superiori alla grandezza naturale su una slitta processionale è una delle più pregevoli.
Il faraone indossa la Doppia Corona dell'Alto e Basso Egitto, una grossa barba posticcia intrecciata e un gonnellino da cerimonia particolarmente sofisticato; il suo viso è quasi fanciullesco, a dispetto del corpo atletico da uomo nel fiore degli anni. Alcune parti mai levigate e rimaste ruvide (il pettorale, i bracciali) erano probabilmente incrostate d'oro. La posa rigidamente retta, con le mani distese lungo i fianchi e il piede sinistro avanzato, è convenzionale, ma la presenza della slitta non ha riscontri nella iconografia scultorea: il pilastro dorsale e il basamento tra i piedi e la slitta indicano che si tratta di una scultura raffigurante non il sovrano, ma una sua statua: si tratterebbe perciò della riproduzione di una statua durante un trasporto (verosimilmente una processione) su una slitta. L'egittologo ceco Jaromír Málek ha commentato: «Una statua che raffigura una statua può parere un concetto assurdo, ma non impossibile nell'arte egizia, in cui molte delle rappresentazioni di divinità in rilievi e dipinti altro non sono che raffigurazioni delle loro statue
Tuttavia, è possibile che la slitta altro non sia che il geroglifico del nome del dio solare Atum: la statua sarebbe perciò un indizio della crescente importanza del culto solare durante il regno di Amenofi III, destinato ad avere una rivoluzionaria impennata (atonismo) con il successore Akhenaton: l'iscrizione sul retro paragona il faraone al dio Aton stesso. Ciononostante, la statua subì l'iconoclastia dell'enoteista Akhenaton e il nome del dio Amon, pure presente, fu cancellato e mai più restaurato: è dunque possibile che l'opera sia stata dimenticata alla fine dell'epoca amarniana.

EGITTO - Kheperer

 

Lo Scarabeo egizio, chiamato kheperer, era considerato un potente amuleto sin dal periodo tinita con funzione magica-apotropaica di eterna rinascita nel divenire e trasformarsi, assicurando solo eventi felici ed un costante miglioramento delle facoltà intuitive e spirituali. Il nome deriva dal verbo kheper che significa nascere o divenire ed era associato al dio solare del mattino Khepri, che donava la vita e rappresentava il sacro animale coprofago Scarabaeus sacer aegyptiorum. Ebbe tale larga diffusione da divenire quasi il simbolo stesso dell'Egitto ma divenne ben presto in uso anche presso altri popoli quali i Fenici, Cartaginesi e Greci e anche dalla Civiltà nuragica. Infatti centinaia  di scarabei sono stati ritrovati in Sardegna a testimonianza delle forti relazioni esistenti tra i due popoli.
Con la VI dinastia comparvero i primi amuleti, senza descrizioni e molto semplici. Divennero estremamente diffusi solo a partire dal Nuovo Regno ed erano decorati sull'addome piatto con iscrizioni e disegni.
Gli scarabei del periodo degli Hyksos sono facilmente riconoscibili per i motivi ornamentali di tipo orientaleggiante e quelli della XXVI dinastia vennero raffigurati con le zampe lunghe e piegate sotto il ventre convesso. Molti avevano inciso il nome di un sovrano, o più raramente di personaggi famosi, a scopo di protezione e di buon augurio. Per poter agire doveva essere fatto in pietra verde, a simbolo di Osiride, come il calcedonio e la steatite smaltata ma ne esistono esemplari anche in lapislazzuli, faience e paste vitree.
Era spesso associato con altri amuleti, tra cui lo shen, che ne rafforzavano il potere ed usato nei monili montato ad anello oppure inserito nei pettorali, come quelli appartenenti ai famosi corredi funebri di Sheshonq II e Tutankhamon.
Anche i sacerdoti ricorrevano, in rituali particolari, allo scarabeo, immerso nel latte bianco di vacca nera e successivamente bruciato, per richiamare gli dei che con la loro magica luce avrebbero dissolto le tenebre delle forze non più in equilibrio.
Era usato anche dai funzionari e dalle alte gerarchie come sigillo, sovente montato su anello, recante il nome del proprietario, o del sovrano se operavano in sua vece, per suggellare documenti, anfore e tutto ciò che doveva restare ben custodito.
Vi erano pure gli scarabei commemorativi emessi quasi tutti dal sovrano Amenhotep III per circostanze particolari quali per esempio il matrimonio con la regina Tyi, una grande caccia al leone e persino per la costruzione di un lago artificiale nei giardini reali.
Nella XVIII dinastia, lo scarabeo, o più specificatamente lo scarabeo del cuore, cominciò ad apparire in ambito funerario come amuleto che veniva posto sul petto della mummia dopo la cerimonia dell'apertura della bocca.
Per gli Egizi il cuore era il centro della forza divina, della spiritualità, di tutte le percezioni dell'essere che da esso erano vagliate e durante il processo di mummificazione esso non veniva estratto per essere conservato nei Vasi canopi.
Lo scarabeo era un cuore divino capace con i suoi poteri di percepire anche l'invisibile ed era determinante nel passaggio dalla vita terrena a quella eterna perché donava alla mummia il potere di scacciare il terribile serpente Apopi ed i pericoli disseminati lungo il cammino del viaggio notturno nel mondo dei morti verso i felici Campi di Aaru.
Erano incisi, nella parte inferiore, i geroglifici dei testi tratti dal Libro dei Morti ed in particolare un passo del capitolo XXX, detto "Formula dello scarabeo del cuore" e per questo motivo, le dimensioni erano più grandi dell'amuleto generico.
La formula, recitata dai sacerdoti durante il rito funebre, bloccava il cuore che non poteva manifestare ostilità e gli impediva di testimoniare contro il defunto al cospetto di Osiride e delle quarantadue divinità nella "Sala delle due verità" durante la psicostasia.
Ma lo scarabeo del cuore doveva essere usato anche in vita e veniva generalmente portato, come monile, al collo. Poi, quando sopraggiungeva la morte, esso continuava comunque ad agire con le forze occulte del suo magico potere e veniva quindi collocato tra le bende della mummia, come dimostrano gli scarabei usurati del tesoro di Tutankhamon.


Nelle foto, dall'alto:
Scarabeo con ali spiegate, ca. 712–342 a.C., 49.28a–c, Brooklyn Museum
Pendente di Tutankhamon con scarabeo alato di vetro del deserto libico ed Occhio di Horo (XVIII dinastia).
Scarabeo commemorativo di Amenhotep III (XVIII dinastia).

EGITTO - Seneb

 
Seneb
 (fl. 2528-2520 a.C) è stato un sacerdote e funzionario egizio affetto da nanismo.
Il nome Seneb significa "sano" - forse dato da sua madre come nome augurale. Molti egiziani, infatti, portavano nomi simili, non per indicare un'assenza di malattia, ma come augurio di salubrità e vigore.
La carriera di Seneb è nota grazie alle iscrizioni della sua falsa porta e dei piedistalli delle sue statue, che registrano venti titoli tra i quali: "amato dal signore [re]", "sovrintendente della tessitura nel palazzo", "sovrintendente dei nani" (presumibilmente indicando che ce ne furono altri nel palazzo), "sovrintendente dell'equipaggio della nave ks" (riferito a una nave cerimoniale o di culto), "sovrintendente del jwḥw " (probabilmente riferito a gare per animali), e "custode del sigillo di Dio della barca Wn-ḥr-b3w" (riferendosi ad una corteccia di papiro usata in certe feste).
I suoi titoli suggeriscono che avrebbe potuto iniziare la sua carriera come funzionario responsabile della biancheria reale e possibilmente anche gli animali domestici, un ruolo che anche altri nani svolsero, e successivamente guadagnato posti di rango superiore incaricati di barche reali o di culto. In alternativa, avrebbe potuto essere nato in una famiglia di alto rango e potrebbe aver ricevere ruoli appropriati per le sue nobili origini. Seneb svolse anche riti religiosi nel suo duplice ruolo di sacerdote, infatti era "Sacerdote di Wadjet", sacerdote del "grande toro che è alla testa di Sṯpt" e del toro Mrḥw e partecipò ai riti funebri per i faraoni Cheope e il suo successore Djedefra. Sua moglie Senetites, una donna di statura normale, era una sacerdotessa, al servizio delle dee Hathor e Neith, ed ebbe da lei tre figli: Radjedef-Ankh, Awib-Khufu e Smeret-Radjedef, probabilmente anche loro affetti da nanismo.
I rilievi e la falsa porta della sua tomba testimoniano la sua ricchezza e il suo potere. Seneb è descritto come proprietario di diverse migliaia di bovini e viene mostrato in varie scene della vita domestica - trasportato in una cucciolata, navigando su una barca nel delta del Nilo o ricevendo i suoi figli. La falsa porta mostra Seneb che svolge le normali attività di cortigiano di alto rango, come ispezionare la sua biancheria e il bestiame, ricevere resoconti e sorvegliare i suoi servitori. Viene mostrato con un kilt e una veste sacerdotale di pelle di pantera, e porta simboli del suo ufficio come uno scettro e un bastone. Un rilievo lo mostra accompagnato da due cani da compagnia, ognuno con un nome con didascalia. Viene inoltre raffigurato mentre è seduto su sgabelli bassi e una lettiera appositamente adattata con schienale basso e grandi pannelli laterali per nascondere le gambe.
Come per la scultura, Seneb viene raffigurato più grande dei suoi servitori, anche se questo era chiaramente l'opposto nella realtà, ma con le caratteristiche fisiche di un nano. Insolitamente nel rilievo, sua moglie non è raffigurata accanto a lui ma appare separatamente, probabilmente per evitare le complicanze che sarebbero derivate dal dover rappresentare realisticamente le dimensioni del marito. Seneb non viene mostrasto in attività tipiche maschili come la caccia, che era presumibilmente poco pratico per la sua statura, anche se un rilievo lo mostra tirare su delle canne di papiro per guidare la sua barca attraverso le paludi del delta del Nilo.
Seneb fu sepolto in una mastaba situata nel Campo Occidentale della Necropoli di Giza, riscoperta dall'archeologo tedesco Hermann Junker nel 1926. La tomba è situata vicino a quella di un altro nano, Perniankhu, un cortigiano reale di alto rango che potrebbe essere stato il padre di Seneb.
Il nome di sua moglie appare anche nella vicina tomba di un funzionario, Ankh-ib, suggerendo che le famiglie di Seneb, Perniankhu e Ankh-ib potrebbero essere state imparentate. Seneb fu sepolto apparentemente con sua moglie, ma non rimane traccia dei corpi, e la tomba fu saccheggiata molto tempo fa, come la maggior parte degli altri a Giza. Fu uno dei primi tentativi noti di costruire una cupola a soffitto su una camera quadrata, con la cupola appoggiata su mattoni sporgenti agli angoli della stanza.
L'interno rettangolare della mastaba di Seneb conteneva due nicchie di culto con una falsa porta e cavità contenenti casse di pietra. Tre statue sono state trovate all'interno dei forzieri - la scultura in pietra calcarea dipinta di Seneb e della sua famiglia e altre due statue in legno e granito. Il legno si disintegrò quando fu scoperto, ma Junker registrò che era alto circa 30 cm e raffigurava Seneb in piedi con un bastone da passeggio in una mano e uno scettro nell'altra.
I resti della statua di legno sono ora nel Museo di Roemer - und Pelizaeus Hildesheim in Germania, in uno stato molto frammentario; il contorno di una parrucca arricciata può ancora essere visto, così come la posa del braccio sinistro, che è stato tenuto in avanti al gomito. Il sarcofago da 1,5 tonnellate di Seneb fa parte della collezione del Museo Egizio dell'Università di Lipsia.


EGITTO - Ritratti del Fayyum

 


Con l'espressione «ritratti del Fayyum» si designa una serie di circa 600 ritratti funebri, realizzati per lo più su tavole lignee, che ricoprivano i volti di alcune mummie egizie d'età romana. Il nome deriva dall'oasi del Fayyum, da cui proviene la maggior parte delle opere. L'importanza di tali raffigurazioni deriva, oltre che dal loro spiccato realismo, anche dal fatto che, insieme agli affreschi di Ercolano e Pompei, a quelli della tomba del tuffatore a Paestum e ad alcune raffigurazioni tombali a Verghina nella Macedonia Centrale, sono tra gli esempi meglio conservati di pittura dell'antichità.
L'Egitto di epoca ellenistica e romana ospitava numerose comunità greche, soprattutto ad Alessandria e nelle altre città principali. Ai tempi della dinastia dei Tolomei (specie sotto Tolomeo II Filadelfo) la zona del Fayyum venne popolata da coloni greci, principalmente veterani e ufficiali militari (i cleruchi). Al seguito dei coloni giunsero anche molti egizi, impiegati nella lavorazione delle terre. Secondo gli studiosi, ai tempi dei Tolomei la popolazione del Fayyum era composta per circa il 30% da Greci e, per il resto, da Egizi. Fu così che, durante la successiva dominazione romana, il Fayyum risultò essere popolato da individui di origine mista greco-egizia, nonché da egizi ellenizzati. I ritratti del Fayyum, dunque, raffigurerebbero i volti dei discendenti di quei primi coloni greci che presero in moglie donne egizie e che adottarono le credenze religiose del paese ospitante. In tal senso, i ritratti costituirebbero una sintesi delle due culture.
Alcuni storici evidenziano come, all'epoca dei Tolomei, la commistione fra la cultura greca e quella egizia rimanesse però alquanto limitata. I Tolomei - che pure si proclamavano faraoni - e i loro notabili continuavano a seguire per lo più le usanze greche (tra queste, ad esempio, la cremazione). Dal canto loro, i sudditi egizi continuarono a mantenere i costumi dei loro antenati, assorbendo solo in minima parte la cultura ellenistica, mentre l'ellenizzazione dell'Egitto subì una forte accelerazione con l'arrivo dei Romani. Molte antiche usanze vennero così abbandonate nel giro di poche generazioni. Un discorso a parte vale per le pratiche religiose. Mentre l'uso dei sarcofagi cadde effettivamente in disuso entro il II secolo d.C., l'usanza di mummificare i corpi dei defunti restò popolare. In particolare, le maschere funebri (già usate al tempo dei faraoni) cominciarono ad essere realizzate non secondo i canoni egizi ma secondo quelli greco-romani.
Il fatto che la ritrattistica del Fayyum si sia sviluppata solo con l'avvento della dominazione romana fa pensare che vi sia stata un'influenza della tradizione romana di realizzare maschere in cera dei volti dei defunti, da conservare nelle abitazioni. In tal senso, i ritratti del Fayyum costituirebbero una sintesi di usanze funebri romane ed egizie.
Benché l'usanza di realizzare ritratti delle mummie fosse diffusa in Egitto già in epoca faraonica, i ritratti del Fayyum sono considerati come un filone a sé stante per due ragioni: la prima, di tipo geografico, deriva dal fatto che essi sono stati ritrovati principalmente (anche se non esclusivamente) nel bacino del Fayyum; la seconda, di tipo cronologico, è dovuta al fatto che tali opere risalgono esclusivamente all'epoca romana: esse coprono un periodo che va dalla fine del I secolo a.C. alla metà del III secolo d.C. Ad oggi rimangono sconosciute le cause della fine di questo tipo di produzione artistica.
I ritratti possono essere suddivisi in due gruppi a seconda della tecnica utilizzata (encausto o tempera a base di uovo). Non mancano tuttavia esempi di utilizzo di altre tecniche, a volte ibride.
Generalmente, le opere più pregevoli appartengono al primo gruppo: l'encausto, infatti, riusciva a rendere i colori molto più vividi, creando così un forte effetto impressionistico. In alcuni casi, fu impiegata foglia d'oro per raffigurare gioielli e diademi. Spesso si notano variazioni nelle tonalità, impiegate per indicare la provenienza della luce. La maggior parte dei ritratti è dipinta su tavole di legno duro, principalmente importato (quercia, tiglio, sicomoro, cedro, cipresso e fico). Vi sono alcuni esempi di tavole ridipinte o dipinte da ambo i lati, forse perché i ritratti furono eseguiti quando il soggetto era ancora in vita e aggiornati in seguito. Esistono inoltre alcuni esempi di raffigurazioni realizzate direttamente sulle bende usate per la mummificazione. Ciascuna tavola veniva applicata al volto del defunto, inserendola tra le bende. Sebbene la gran parte dei ritratti sia stata asportata dalle mummie, al Museo Egizio del Cairo e al British Museum si trovano alcune mummie con la tavola ancora applicata.
Nella gran parte dei casi ad essere raffigurato è il volto di una sola persona, ritratta frontalmente. Lo sfondo è solitamente monocromo, a volte arricchito da alcuni elementi decorativi.
Dal punto di vista artistico, risulta netta la prevalenza dei canoni stilistici greco-romani rispetto a quelli egizi.
La scarsità di opere comparabili con tali ritratti rende però difficile inserire le raffigurazioni del Fayyum all'interno di una precisa corrente stilistica. Mentre è evidente la discontinuità rispetto alla precedente ritrattistica funebre egizia, poco si può dire sui rapporti con la pittura greco-romana. Se, infatti, il clima particolarmente secco dell'Egitto ha permesso la conservazione di queste tavole, non è invece possibile ritrovare in Grecia o in Italia opere dello stesso genere. Il confronto con affreschi e mosaici d'epoca classica, comunque, permette di affermare con certezza il forte legame con l'arte greco-romana, al tempo dominante in tutto il Mediterraneo.
La maggior parte dei ritratti raffigura persone molto giovani (raramente compaiono persone con più di 35 anni), spesso bambini. Ciò si spiegherebbe con la bassa aspettativa di vita del tempo. Studi compiuti sulle mummie indicano una forte corrispondenza di età e sesso tra le persone rappresentate e le mummie a cui erano applicate le tavole. Mentre in passato si era pensato che i ritratti fossero stati realizzati quando il soggetto era ancora in vita (seguendo la tradizione greca di esporre propri ritratti in casa), tali evidenze (nonché il fatto che alcuni siano stati eseguiti direttamente sulle bende e sui sarcofagi) fanno pensare che le raffigurazioni fossero solitamente effettuate dopo il decesso.
Pur essendo molto noti per il loro forte realismo, i volti dei soggetti ritratti non corrispondevano forse ai defunti in modo integrale.
Analisi dettagliate hanno evidenziato come, malgrado la variabilità di acconciature e barbe, siano presenti alcuni “profili-standard”.
I soggetti dovevano appartenere alla classe dirigente, visto l'alto costo di onori funebri tanto preziosi. Del resto, molte mummie sono state ritrovate senza una tavola che le ritraesse (Flinders Petrie riportò che solo l'1-2% delle mummie da lui rinvenute era abbellita da una tavola dipinta).
In tal senso, la Tomba di Aline è molto significativa. In essa vennero rinvenute non solo la mummia della donna, ma anche quelle del marito e di due bambini. La mummia del marito, diversamente dalle altre, non era abbellita da un ritratto ma ornata da una maschera dorata. Il fatto che la maschera appartenesse al capofamiglia lascia pensare che, quando le disponibilità economiche lo permettevano, le maschere fossero preferite ai ritratti su tavola.
Le iscrizioni sulle tombe (nonché i tratti somatici dei soggetti) dimostrano come, al tempo, il Fayyum fosse abitato da genti molto diverse. Si ritrovano infatti nomi egizi, greci, greco-macedoni e romani. I vestiti e le acconciature sono chiaramente influenzati dalla moda romana del tempo, mentre a volte si ritrovano iscrizioni in greco ellenistico indicanti la professione del defunto. Donne e bambini indossano in molti casi ornamenti di grande valore, mentre gli uomini, a volte, esibiscono il balteo.
Le acconciature portate dai soggetti raffigurati sono di grande aiuto nella datazione delle opere. Al tempo dei Romani, infatti, le sculture raffiguranti gli esponenti della famiglia imperiale venivano utilizzate con fine propagandistico. Inevitabilmente, esse finivano con l'avere anche una forte influenza sulle mode del momento, per quel che riguarda sia i vestiti che le acconciature. Insieme ad altri ritrovamenti, anche i ritratti del Fayyum confermano che, probabilmente a causa delle distanze geografiche, nelle province le mode tendevano a durare più a lungo rispetto alla città di Roma. Ciò comporta sovrapposizioni di stili diversi.
Sono le acconciature femminili ad essere di particolare aiuto nella datazione. I ritratti femminili risalenti all'epoca dell'imperatore Tiberio presentano un'acconciatura semplice, con una riga centrale. Molto più elaborate sono quelle della fine del I secolo, con riccioli e trecce avvolte a forma di nido. In età antoniniana andavano invece di moda piccole trecce ovali avvolte a nido, mentre nella seconda metà del II secolo si assiste a un ritorno alla semplicità, con una riga centrale e una treccia lasciata cadere sul collo.
Nell'epoca di Settimio Severo ricompaiono acconciature più complesse, con trecce elaborate e cotonature vaporose. Un ultimo stile, con trecce annodate sopra la testa in modo particolare, si può invece notare solo su alcune raffigurazioni direttamente eseguite sulle bende.
Mentre in precedenza si pensava che la produzione ritrattistica funeraria avesse avuto termine intorno alla fine del IV secolo, oggi si tende ad anticipare tale data al III secolo: le ultime tavole lignee risalirebbero infatti alla metà del secolo, mentre le ultime mummie direttamente dipinte si spingerebbero solo pochi decenni più in là. Diverse cause potrebbero spiegare il declino di questa usanza:
  • la crisi economica dell'impero romano durante il III secolo (crisi del III secolo) avrebbe impoverito anche le classi più agiate, non più in grado di finanziare opere così costose.
  • un certo declino della sensibilità religiosa antica, testimoniato anche dal fatto che, a partire dal II secolo, si costruirono in Egitto sempre meno templi.
  • mutamenti intervenuti all'interno della classe dirigente a seguito della promulgazione della Constitutio Antoniniana, con cui si garantì la cittadinanza romana a tutti i soggetti liberi dell'impero. Questo avvenimento avrebbe contribuito a ridurre
    Questo avvenimento avrebbe contribuito a ridurre l'importanza della classe dirigente del tempo.
L'esploratore italiano Pietro Della Valle, durante il suo viaggio in Egitto nel 1615, fu il primo europeo a ritrovare e descrivere i ritratti del Fayyum. Egli portò con sé in Europa alcune mummie, che ora sono conservate all'Albertinum di Dresda.
Attualmente, i ritratti del Fayyum si possono ammirare nei maggiori musei del mondo, tra cui il Museo di antichità egiziane del Cairo, il British Museum, il Royal Museum of Scotland, il Metropolitan Museum of Art di New York, il Louvre di Parigi, museo Museo Puškin delle belle arti a Mosca, la Pinacoteca di Brera di Milano nonché il museo egizio di Torino e quello di Firenze. Se ne trovano anche al Landesmuseum Württemberg. Dal momento che i ritratti furono per lo più rinvenuti da esploratori che non utilizzavano tecniche soddisfacenti rispetto agli standard odierni, si può dire che essi siano tutti privi di una vera e propria contestualizzazione, il che ha notevolmente compromesso la possibilità di ottenere informazioni specifiche su ogni singolo ritratto.
Differentemente dai ritratti, che tesero a scomparire tra la fine del IV secolo e l'inizio del V secolo, le stoffe vennero prodotte anche in età copta ed araba. Il loro utilizzo principale derivò dalla tradizione siriaca di avvolgere i morti in un sudario. I tessuti sono in lino o in lana, impreziositi da riquadri, tondi o bordi lavorati ad arazzo policromatico o monocromatico, con motivi alessandrini o ellenistici raffiguranti scene bacchiche, nereidi e amorini.

martedì 27 maggio 2025

EGITTO - Museo Imhotep, Saqqara

 

Il Museo Imhotep è un museo archeologico situato nei pressi della necropoli di Saqqara, vicino all'antica Menfi. Il museo, intitolato all'antico architetto egizio Imhotep, il costruttore della piramide di Djoser, fu pensato già nel 1990 dal Supremo Consiglio delle Antichità, ma i lavori di costruzione iniziarono nel 1997 dopo aver trovato il luogo di costruzione su un altopiano che non avrebbe intaccato la veduta del paesaggio circostante: i lavori terminarono nel 2003. È stato inaugurato il 26 aprile 2006 da Suzanne Mubarak e Bernadette Chirac.
Il museo si compone di cinque sale: nella sala d'ingresso è presente un frammento della statua di Djoser, su cui è possibile leggere il nome del re e dell'architetto Imhotep; la statua è in prestito dal Museo egizio del Cairo ed è esposta solo nei mesi di apertura del museo. Nella seconda sala sono esposti reperti ritrovati sull'altopiano di Saqqara. La terza sala è dedicata all'arte egizia e conserva vasi, statue e steli in legno e pietra, nonché strumenti per costruire i monumenti. Nella quarta sala si custodiscono elementi architettonici come colonne e piastrelle di maiolica verde e blu che decoravano le camere sotto il complesso della piramide di Djoser, oltre a una piccola statua di Imhotep. 
La quinta sala mostra oggetti usati nelle sepolture della VI dinastia e strumenti chirurgici. Infine una galleria espone oggetti appartenuti all'egittologo Jean-Philippe Lauer, come effetti personali e fotografie mentre eseguiva le esplorazioni sull'altopiano: Lauer iniziò a lavorare nel complesso di Djoser negli anni '20 e continuò per tutto il resto della carriera, circa settantacinque anni. Tra gli altri reperti esposti: una mummia tolemaica (nella foto) scoperta da Zahi Hawass durante lo scavo del complesso della piramide di Teti e una grande statua che è stata trovata nei pressi della strada del complesso di Unis: raffigura il sommo sacerdote Amenemopet e sua moglie.


(nella foto in alto, di Harald Gaertner, uno scriba risalente alla V dinastia)

EGITTO - Ramesseum, Tebe

 

Il Ramesseum è il tempio funerario del faraone Ramses II in Egitto. Esso è collocato a Tebe, nell'Alto Egitto, nei pressi del fiume Nilo a poca distanza dalla moderna città di Luxor. Il nome - nella sua forma francese Rhamesséion – venne coniato da Jean-François Champollion, il quale visitò queste rovine nel 1829 identificandovi per primo i geroglifici col nome di Ramses ed i suoi titoli sulle mura. Originariamente il sito venne chiamato Casa di milioni di anni di Usermaatra-setepenra che unisce la città di Tebe coi domini di Amon.
Ramses II modificò, usurpò o costruì molte tra le più belle strutture del Nuovo Regno tra le quali proprio il Ramesseum, un tempio dedicato al faraone, dio in terra, dove la memoria sarebbe stata nota per generazioni a tutto il mondo dopo la sua morte corporale. I lavori per la costruzione del tempio iniziarono secondo i registri all'inizio del suo regno e si conclusero in 20 anni.
Il disegno del tempio di Ramses aderisce perfettamente ai canoni standard dell'architettura dei templi del Nuovo Regno. Orientato da nord-ovest a sud-est, il tempio stesso comprendeva due piloni di pietra per ingresso che conducevano al cortile del tempio. Oltre il secondo cortile, al centro del complesso, si trovava una sala ipostila sorretta da 48 colonne che circondava il santuario interno. Nel primo cortile inoltre si trovava una gigantesca statua del re di cui ancora oggi si possono ammirare i resti.
Come da costume, i piloni d'ingresso e le mura esterne vennero decorate con scene commemoranti scene di vittorie militari del faraone oltre a raffigurazioni di dei egizi. Nel caso del Ramesseum si trovano scene della Battaglia di Kadesh (c. 1285 a.C.) che rappresentano un'enorme opera propagandistica portata avanti dal faraone in quanto lo scontro fu in realtà funesto per gli egizi che qua vengono rappresentati trionfanti.
Della gigantesca statua di Ramses II (alta 19 metri e del peso di 1000 tonnellate) oggi rimangono solo dei frammenti ancora visibili sul terreno. Dalle cave in cui venne sbozzata, la statua venne trasportata poi per 170 miglia. I resti oggi rappresentano i più grandi resti in situ di statua colossale al mondo assieme ai colossi di Ramesse a Tanis.
I resti che si trovano nel secondo cortile includono parte della facciata interna dei piloni e una porzione del portico di Osiride sulla destra. Altre scene di guerra con gli ittiti a Kadesh si ripetono sui muri. Nella parte alta si trovano invece feste in onore del dio Min, dio della fertilità. Sul lato opposto al cortile di Osiride si trovano altre colonne che forniscono l'idea originaria di splendore del sito perché meglio conservate. Qui si trovano anche parti di due statue del re, una in granito rosa e l'altra in granito nero, affiancate all'entrata del tempio. Una delle teste di queste statue venne rimossa e si trova oggi al British Museum. 31 delle 48 colonne della sala ipostila (misure 41m x 31m) si trovano ancora in piedi. Esse sono decorate con scene che raffigurano il re con diversi dei. Parte del soffitto è decorata con stelle dorate su sfondo blu ed è ancora conservato in pittura. I figli e le figlie di Ramesse appaiono in processione sulle mura di sinistra. Il santuario è composto da tre camere consecutive con otto colonne e una cella tetrastila. Parte della prima stanza, col soffitto decorato con scene astrali, è ancora oggi conservata.
Adiacente alla sala ipostila si trova un tempio più piccolo dedicato alla madre di Ramses, Tuia ed alla sua amata prima moglie Nefertari. Il complesso è circondato da numerose sale di rappresentanza, granai, laboratori, e costruzioni accessorie, alcune costruite in epoca romana.
Nell'area della sala ipostila si trovava precedentemente un tempio fatto costruire da Seti I, ma oggi ne sono emerse le sole fondamenta. Esso consisteva di una corte a peristilio e da due cappelle. Papiri tra l'XI e l'VIII secolo a.C. indicano il tempio come il sito di un'importante scuola di scribi.
A differenza di molti altri templi in pietra che Ramesse ordinò di scolpire durante il suo regno, questo è quello posto in un angolo del Nilo e legato profondamente al fiume.
Da questo tempio, per la sua grandezza e bellezza, trassero ispirazione altri faraoni per i loro templi funerari come Ramses III a Medinet Habu.
Le origini della moderna egittologia possono essere fatte risalire all'arrivo di Napoleone Bonaparte in Egitto nell'estate del 1798. Ispirati dagli ideali dell'illuminismo, al seguito delle truppe napoleoniche giunsero in Egitto anche uomini di scienza che redassero una monumentale opera in 23 volumi dal titolo Description de l'Égypte. Due ingegneri francesi, Jean-Baptiste Prosper Jollois e Édouard de Villiers du Terrage, vennero assegnati allo studio del sito del Ramesseum, e fu con grande propaganda che essi lo identificarono come la "Tomba di Ozymandias" o "Palazzo di Memnon" del quale Diodoro Siculo aveva scritto nel I secolo a.C.
Il successivo visitatore, ingegnere, studioso ed antiquario, fu l'italiano Giovanni Battista Belzoni. Egli si recò al Cairo per la prima volta nel 1815 dove vendette a Mehemet Ali le sue invenzioni idrauliche per la gestione delle acque del Nilo. Qui egli conobbe il console britannico al Cairo, Henry Salt, che lo prese al proprio servizio per recuperare dal tempio di Tebe il cosiddetto Giovane Memnone, una delle due colossali statue di granito di Ramses II, per trasportarla poi in Inghilterra. Grazie alle abilità ingegneristiche di Belzoni la testa della statua già da tempo crollata alla base della stessa, del peso di 7 tonnellate, giunse a Londra nel 1818 e venne battezzata Giovane Memnone e posta anni dopo al British Museum.
L'arrivo della statua provocò una grande sensazione e concentrò l'attenzione dei primi egittologi sul sito del Ramesseum, a tal punto che il poeta Percy Bysshe Shelley scrisse un sonetto dal titolo Ozymandias. In particolare, il Giovane Memnone è il diretto ispiratore della poesia di Shelley in quanto la frase User-maat-re Setep-en-re posta sul braccio della statua venne tradotta già dallo storico Diodoro in greco col termine "Ozymandias". Mentre le "grandi e tronche gambe di pietra" descritte da Shelley erano più una licenza poetica che materia di archeologia, il "mezzo busto... dal volto schiacciato" si addice pienamente alle forme della statua. Le manie e i piedi si trovano in posizione piatta. Il colosso si elevava per un'altezza di 19 metri, rivaleggiando coi Colossi di Memnone e con le statue di Abu Simbel.
Un team franco-egiziano ha esplorato e restaurato il Ramesseum dal 1991 ed ancora oggi è in attività. Tra le scoperte, durante gli scavi sono emerse cucine, panetterie e sale esterne al tempio, oltre ad una scuola chiamata "Casa di Vita" dove i ragazzi ricevevano l'educazione adatta a divenire degli scribi.
 
 


EGITTO - The Younger Lady

 
The Younger Lady
 è il nome con cui è informalmente nota una mummia femminile scoperta nella Valle dei Re, nel 1898, da parte dell'archeologo francese Victor Loret. Attraverso esami del DNA, questa mummia è stata identificata come madre del faraone Tutankhamon, figlia di Amenofi III e Tiy, nonché sorella di Akhenaton. È anche designata con le sigle KV35YL (YL sta per Younger Lady) e 61072. Si trova al Museo egizio del Cairo. Un tempo si credeva che si trattasse della mummia della regina Nefertiti, ma gli esami del DNA hanno confutato questa ipotesi.
La mummia fu scoperta giacente accanto ad altre due mummie, nella tomba KV35: un ragazzino morto intorno ai 10 anni, forse il principe Ubensenu, e un'altra donna, più anziana (soprannominata The Elder Lady), identificata come la grande regina Tiy grazie agli esami del DNA compiuti sui resti dei congiunti di Tutankhamon. Le tre salme furono rinvenute una accanto all'altra, denudate e private di ogni oggetto identificativo in una piccola anticamera della tomba; tutte e tre mostrano danni inflitti con particolare violenza da parte dei tombaroli.
La maggior parte delle teorie identificative si raccolse intorno alla Younger Lady. Al momento della scoperta, Victor Loret credette che si trattasse del corpo di un giovane uomo, a causa del capo rasato. Una quindicina d'anni dopo, l'analisi dell'anatomista G. Elliot Smith accertò il sesso femminile dei resti; fino ad allora l'asserzione di Loret non era mai stata confutata.
Gli esami del DNA autosomico e mitocondriale ne hanno definitivamente dimostrato il sesso femminile. Ciò portò anche alla scoperta che era sorella (non sorellastra) di suo marito, la mummia della tomba KV55, e che entrambi erano figli di Amenofi III e Tiy. Il matrimonio fra fratelli era pratica assai comune all'interno della famiglia reale egizia, riprendendo il mito di Osiride e Iside, fratelli e sposi. Anche l'identità della mummia maschile della KV55 è oggetto di dibattiti fin dalla sua scoperta, nel 1907. I resti sono attribuiti da alcuni studiosi ad Akhenaton, da altri a Smenkhara. Tale legame di parentela attenuerebbe la possibilità che la Younger Lady (vale a dire, la madre di Tutankhamon) fosse Nefertiti oppure Kiya, una importante moglie secondaria di Akhenaton, dato che né Nefertiti né Kiya furono sorelle di Akhenaton o figlie di Amenofi III, come attesta invece il DNA della Younger Lady. La possibilità che si tratti di Sitamon, Iside o Henuttaneb, figlie di Amenofi III, è ritenuta improbabile, poiché queste tre erano già andate in mogli al loro padre Amenofi III, assumendo così il titolo di Grandi Spose Reali: qualora fossero andate in spose al fratello Akhenaton, con il loro rango avrebbero surclassato Nefertiti; invece soltanto Nefertiti è nota come Grande Sposa Reale di Akhenaton e regina d'Egitto. Si potrebbe concludere che la mummia apparterrebbe a Nebetah o Baketaton, figlie di Amenofi III che non pare abbiano sposato il loro padre. Tuttavia è noto che Amenofi III ebbe dalla regina Tiy 8 figlie.
Vi è anche la teoria secondo cui la Younger Lady sarebbe Merytaton, primogenita di Akhenaton e Nefertiti, oltre che sposa di Smenkhara. Tale teoria si basa sullo studio degli alleli ereditati da Tutankhamon; Merytaten avrebbe sposato Smenkhara, ritenuto suo zio, rendendo così Tutankhamon pronipote di Akhenaten da parte materna.
La teoria prende corpo dalla difficoltà di distinguere fra le generazioni, causata dalle continue unioni fra famigliari.
Ma questa ipotesi ha un problema. Merytaton dovette essere una discendente mitocondriale della regina Tiy, o della di lei madre Tuia, siccome il DNA mitocondriale della Younger Lady combacia con il suo essere figlia di Tiy. L'ascendenza di Nefertiti non è conosciuta e, qualora Merytaton fosse la Younger Lady, allora Nefertiti dovrebbe discendere da Tuia.
È stato anche suggerito che la Younger Lady sarebbe Nefertiti, siccome l'incesto era pratica molto comune all'interno della famiglia reale (per preservare l'ascendenza, considerata divina). Ciò significherebbe che Akhenaton avrebbe sposato la propria sorella, come aveva già fatto quasi ogni sovrano della XVIII dinastia, e che con lei avrebbe generato Tutankhamon. Una difficoltà che si pone a tale interpretazione è l'età della donna al momento della sua morte: Nefertiti diede alla luce una figlia nell'anno 1 del regno di Akhenaton, e sicuramente era ancora viva nell'anno 16; visse quasi sicuramente fino a dopo i 30 anni. Ciò rende quest'ultima ipotesi piuttosto improbabile.
L'anatomista Grafton Elliot Smith ha redatto per primo agli inizi del XX secolo un'attenta descrizione della mummia nel corso dei suoi studi sulle mummie reali dell'Egitto faraonico. Alle sue misurazioni, la mummia risultò alta 158 centimetri e non più vecchia di 25 anni al momento della morte. Elliot Smith prese inoltre nota dei danni maggiori arrecati alla salma dai razziatori di tombe, che ne fracassarono il torace e sottrassero il braccio destro all'altezza della spalla. Già Elliot Smith ipotizzò che si trattasse di un membro della famiglia reale.
In passato anche la grave ferita sul lato sinistro del viso, che distrusse parte della bocca, della mandibola e della guancia, fu ritenuta un risultato dei tombaroli, ma un ri-esame della mummia, svoltosi nell'ambito dei test genetici e delle tomografie computerizzate del 2010, ha rivelato che la ferita fu provocata prima della morte e che costituì probabilmente la causa del decesso della giovane.