domenica 18 maggio 2025

Sicilia - Collezione Veneroso a Sciacca

 


La collezione Veneroso è una collezione archeologica di epoca preistorica, dichiarata di eccezionale interesse storico ed archeologico con Decreto n.8182 /1997 dell’Assessore ai Beni Culturali A. e P. I. della Regione Siciliana. Essa prende il suo nome dall'Avv. Primo Veneroso (Cagliari 15/06/1933-Sciacca 14/09/2014), uomo di cultura, appassionato di archeologia, che ha studiato, curato, pubblicato ed ampliato la collezione di famiglia, accorpata a fine '800. Si tratta di una collezione molto vasta, probabilmente la più estesa collezione privata archeologica sul territorio nazionale italiano, ed è costituita da numerosi reperti, la cui gran parte concerne ceramica preistorica, ma anche un considerevole numero di bronzi e diversi esemplari di ceramica greca di epoca storica, monetazione greca e romana.
Nella collezione spicca un notevole numero di ceramiche appartenenti al bicchiere “Campaniforme”, un'importante cultura ceramica diffusa in tutta l'Europa occidentale preistorica dalla Scandinavia al mediterraneo meridionale, dalla Spagna al territorio dell'attuale Repubblica Ceca. La collezione costituisce per questo fenomeno un autentico punto di riferimento.
I materiali della collezione mostrano la grande varietà stilistica del Campaniforme siciliano e consentono di rivalutare il posto della Sicilia nel contesto europeo di questo processo di diffusione; infatti, dopo essere stata a lungo considerata come marginale nella sfera Campaniforme, la Sicilia occidentale ha rivelato un'inaspettata fioritura di questa cultura grazie alla collezione Veneroso che per questo è stata oggetto di interesse a livello nazionale ed internazionale da parte di studiosi Francesi del Collège de France e Statunitensi attraverso pubblicazioni, numerosi articoli e tesi di laurea.
La maggioranza dei reperti, provengono con certezza da siti archeologici della Sicilia. La più alta incidenza si è registrata nell'epoca compresa tra Eneolitico e Bronzo antico.
L'ossatura dell'intera raccolta è costituita da specifici manufatti provenienti dalla stessa area. I manufatti sono quelli che toccano le problematiche legate agli stili di Moarda, Campaniforme e Castelluccio. L'areale di provenienza è quello intorno alla Sicilia Sud Occidentale, con saltuarie e significative attestazioni di altri contesti culturali da zone più distanti.
I reperti preistorici costituiscono un insieme selezionato secondo specifici parametri, peraltro tra i più specialistici di tutta la preistoria siciliana.
La collezione si trova attualmente a Sciacca (AG).
Recentemente proprio la collezione Veneroso sembra porsi alla base della terza e più recente teoria sulla diffusione del vaso campaniforme in Europa: superando sia la tesi della nascita nella penisola Iberica, che quella della prima comparsa in aria Germanica, il professore Jean Guilaine ne "Les chemins de La protohistoire" ((Ed. Odile Jacob - Ottobre 2017 Paris, pag. 197) propone una provenienza nordafricana della cultura del vaso campaniforme. Tale cultura sarebbe arrivata dalla costa africana del Mediterraneo nella penisola Iberica per poi diffondersi successivamente in tutta Europa.
Le tappe intermedie di questo cammino sarebbero la Sardegna e soprattutto la Sicilia, così come testimonia proprio la collezione Veneroso con la sua grande varietà di vasi campaniformi, offrendo un'ulteriore conferma di quanto l'isola ha costituito uno snodo essenziale negli scambi commerciali e culturali tra il Mediterraneo orientale ed occidentale.

(nella foto, che non ha relazione con la Collezione Veneroso: Bicchieri e altri reperti provenienti dalla necropoli megalitica di Le Petit-Chasseur a Sion (Musée d'histoire du Valais, Sion, PC1 MVI_1) © Musée d’histoire du Valais, Sion; fotografia Heinz Preisig)

Sicilia - Sarcofago di Adelfia, SIracusa

 

Il sarcofago di Adelfia è un sarcofago in marmo di età costantiniana, rivenuto il 12 giugno del 1872 nella chiesa di San Giovanni a Siracusa durante la campagna di scavi diretta da Francesco Saverio Cavallari, con lo scopo di accertare l'epoca delle catacombe presenti. È composto da una cassa principale sormontata da un coperchio di dimensioni inferiori (20 x 200 x 81 cm). Il sarcofago è attualmente conservato al Museo Paolo Orsi di Siracusa.
l nome del sarcofago deriva dall'ipotesi che sia stato utilizzato per la sepoltura della nobildonna romana Adelfia, moglie del comes Balerius (Valerius): il medaglione centrale rappresenterebbe un ritratto della coppia, menzionata al centro del coperchio da un'epigrafe disposta su tre linee su sfondo rosso:
(H)IC ADELFIA C(LARISSIMA) F(EMINA)
POSITA CONPAR
BALERI COMITIS

Qui è deposta Adelfia, famosissima donna, moglie del conte Valerio.
Il sarcofago presenta tredici decorazioni di iconografia cristiana disposte su doppio registro sulla cassa: di queste, la maggioranza (otto) sono tratte dal Nuovo Testamento mentre le rimanenti sono citazioni del Vecchio Testamento.
Secondo quanto si apprende dal primo resoconto sugli scavi e dalle fonti, il ritrovamento del sarcofago suscitò un certo stupore, non per la presenza dei resti di un solo defunto espressamente dichiarato dall'epigrafe, ma per la disposizione della salma, non consona ad un monumento funerario così ricco di iconografie. Inoltre non si spiegherebbe il doppio ritratto per una sepoltura unica e le incertezze tipografiche. Questo, assieme alle differenti misure del coperchio, portò ad un dibattito sulla datazione dell'opera, sull'identificazione di Adelfia e Valerio come coppia effettivamente vissuta nel IV secolo e sull'integrità del sarcofago attraverso i secoli. Mentre poco si conosce di Adelfia, recenti studi hanno identificato il comes Baleri con Valerio, amico di Sant'Agostino e citato dallo stesso nell'introduzione del De nuptiis et concupiscentiâ (o Le nozze e la concupiscenza), scritto nel 419. Tale tesi è basata sull'integrità religiosa del conte Valerio, sulla cronologia in riferimento alle modifiche strutturali della zona in cui il sarcofago è stato ritrovato e sulla possibilità di aver riutilizzato due pezzi, la cassa e il coperchio, di diversa provenienza.


Sicilia - Sarcofago di Raffadali

 


Il sarcofago di Raffadali è un sarcofago di età romana che presenta una classica raffigurazione del ratto di Proserpina. Fu ritrovato nel Cinquecento in contrada Grotticelle a Raffadali, nel cui territorio sono note anche altre testimonianze del periodo romano.
Il sarcofago venne custodito prima nel palazzo dei principi di Montaperto, che in seguito lo donarono alla chiesa madre del paese, dove è tuttora conservato. 
Il sarcofago fu posizionato a destra dell’ingresso principale della chiesa, e lì rimase per secoli.
Nella seconda metà del XIX secolo, l’arciprete Di Stefano fu sul punto di venderlo a un antiquario a un prezzo irrisorio, incurante del suo alto valore storico. Il sindaco del tempo, Salvatore D’Alessandro riuscì però a impedirlo.
La scena centrale raffigura il momento in cui Plutone rapisce Proserpina, protetta da Diana. L'estremità destra è occupata da Mercurio, che tiene con una mano i cavalli infernali e con l'altra il suo scettro, accanto a lui vi è Atena che punta il dito indice sulla bocca. Sul lato sinistro si vede Cerere, la madre di Proserpina, che brandisce due fiaccole. La biga sulla quale si trova è guidata da due figure allegoriche, Trepidatio e Amore. Nella parte bassa si trovano due figure, la Terra e l'Oceano. Nella parte alta invece si trova Venere che riceve da un amorino una corona di ghirlande.
La figura di Venere e l'amorino rappresentano aggiunte successive. L’amorino fu realizzato dopo che lo scettro di Marte si era spezzato, forse durante il trasporto. Il volto della dea, disposto frontalmente, fu scolpito in modo da somigliare alla defunta.

Sicilia - Cesare di Acireale

 
Il Cesare di Acireale è un busto in marmo probabilmente lunense ritrovato nel 1675 durante i lavori di costruzione di fortificazioni spagnole diretti dall'architetto militare Carlos de Grunenbergh a Capo Mulini, una frazione marinara del comune di Acireale che guarda verso l'isola Lachea ubicata in corrispondenza della discussa città greco-romana di Xiphonia-Akis; oggi è conservato nella Biblioteca e Pinacoteca Zelantea. L'archeologo e numismatico tedesco Erich Boehringer che prendeva parte a delle ricerche tenute in Sicilia durante il 1929-30, ebbe l'opportunità di studiare accuratamente il reperto, sul quale redasse un saggio ripubblicato nel 1980 nell'edizione Memorie e Rendiconti, serie II-vol. X dell'Accademia degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale.
Al ritrovamento del busto seguì nel 1730 il rinvenimento di un'iscrizione su un acroterio che il Vigo dice custodito dai Domenicani di Acireale: «C.IVL.CAESAR», mai visibile al pubblico. Dapprima la testa venne attribuita ad un fauno o, più in generale, a una creatura mitologica delle foreste; più tardi a Cicerone e, solamente a fine Ottocento, si accolse l'ipotesi del Cesare. Lionardo Vigo attribuisce la testa a Cicerone, anche se non aveva il porro comunque non osservabile dopo la rottura del naso del busto, avvenuta, secondo la tradizione del luogo, circa 70 anni prima della redazione del saggio di E. Boehringer.
Oggigiorno, a parte un'evidente rottura sulla punta del naso, una meno evidente sull'orecchio destro e nell'angolo destro del labbro superiore, la testa è quasi intatta e vi è traccia della pittura degli occhi. Sul petto è presente una vistosa ricostruzione di un grosso frammento. La fronte è divisa in due parti e le rughe sono marcate e perlopiù orizzontali, immancabile icona dell'età Repubblicana. Dai tratti del viso è possibile dedurre un accurato senso di osservazione e abile mano da parte dello scultore che dona naturalezza al complesso. L'attenzione cade ora sulla bocca: inespressiva, grande, tirata, troppo larga; vista singolarmente suggerisce cattiveria ma secondo l'intero complesso può anche esser letta come predisposizione alla clemenza. Il labbro superiore è magro e contratto, quasi per esprimere rassegnazione; invece, il labbro inferiore, più carnoso e marcato, denota sensualità. Può esser espressa una critica circa la conformazione del mento, il quale, anche secondo il parere di E. Boehringer, risulta troppo piccolo per un uomo d'azione ma nell'insieme abbastanza autoritario e «deciso come un elemento architettonico, come il kymation di Lesbo». Gli orecchi appaiono piccoli e attaccati alla zona temporale , altro segnale di fattura repubblicana, perché rappresentare una figura illustre come quella di Cesare con le cosiddette 'orecchie a sventola' sarebbe stato indegno ed irrispettoso. Le palpebre superiori sono piene e pesanti, quelle inferiori più piccole ma nettamente staccate dal sacco lacrimale; l'occhio destro è leggermente più piccolo e sporgente del sinistro; inoltre, al loro interno è stata impressa la figura dell'iride, in parte coperta dalle palpebre: ciò mette in risalto uno sguardo appena divergente. Importante è l'assenza di calvizie sulla nuca: essa è ricoperta da sottili riccioli appena accennati, i quali, raccolti in piccole ciocche dietro gli orecchi, risultano più marcati. Nel busto della Zelantea, Cesare è rappresentato in età matura, prossima alla vecchiaia, tanto da far pensare che fosse tratto da una maschera funeraria sul modello di quelle di cera (vedi Ius imaginum). Quest'ipotesi è stata scartata poiché i tratti sono troppo tonici per ricondurre l'opera ad una di queste; perciò si suppose che fosse uno dei pochi ritratti eseguiti in vita di Cesare. Lo scultore, quindi, era stato affascinato dal personaggio, seppur in tarda età; egli possedeva una bravura magistrale nel cogliere i particolari e la tensione del volto.

Sicilia - Tesoro di Morgantina

 


Il tesoro di Morgantina è costituito da 15 pezzi in argento, risalenti al III secolo a.C. e provenienti da Morgantina, scoperti casualmente nel 1978. Il tesoro è stato rinvenuto presso un edificio di Morgantina in Sicilia, forse nascosto in occasione del saccheggio della città ad opera dei Romani nel 211 a.C. La realizzazione degli oggetti è datata al 240 a.C. circa, all'epoca in cui la città era sottoposta a Gerone II di Siracusa.
Secondo alcuni studiosi il tesoro sarebbe appartenuto allo ierofante, sommo sacerdote di Demetra e Persefone. Nel febbraio del 2006 del il ministro dei beni culturali, l'assessore regionale ai beni culturali e ambientali della Regione Siciliana e il direttore del Metropolitan Museum di New York Philippe De Montebello, hanno convenuto che gli argenti fossero restituiti all'Italia, Ma che ogni quattro anni tornassero al Metropolitan Museum per essere esposti. Nel 2010, dopo il primo rientro, il tesoro è stato temporaneamente esposto a Palazzo Massimo alle Terme a Roma, e poi consegnato alla Regione Siciliana per essere esposto nel museo archeologico di Aidone.
Nel 2015 gli Argenti tornano negli Stati Uniti dove restano per altri 4 anni. Il ritorno ad Aidone è datato giugno 2020 e dopo il rientro dei preziosi reperti, l'assessore dei Beni culturali e dell'Identità siciliana Alberto Samonà annuncia la volontà del governo siciliano di non trasferire mai più gli Argenti negli Stati Uniti - anche a causa della loro fragilità - ma di voler rivedere l'accordo del 2006 d'intesa con il museo newyorkese. Nasce una trattativa, sovrintesa dal Mic, il Ministero italiano della Cultura, che si conclude felicemente nel settembre del 2022 con un accordo siglato tra il museo archeologico siciliano Salinas di Palermo e il Met, che modifica la convenzione del 2006 e sancisce che ogni tre anni i due musei si scambieranno opere d'arte da selezionare insieme, al posto degli Argenti di Morgantina, destinati a restare così stabilmente in Sicilia. Il provvedimento, reso noto dallo stesso assessore Alberto Samonà pone fine all'annosa questione del tesoro trafugato e della sua movimentazione quadriennale.

Il tesoro è costituito dai seguenti pezzi:
  • due coppe profonda a profilo concavo (diametro 22 cm; peso 407-418 g);
  • pisside con lamina decorata a sbalzo (diametro 10,5 cm peso 81 g) con la raffigurazione di Eirene con la cornucopia e il piccolo Eros o Pluto;
  • coppa semisferica (diametro 13–14 cm; peso 151 g);
  • skyphos ovoide (diametro 13,3 cm;q peso 300 g);
  • kyathos (diametro 5,5 cm; altezza 24,7 cm; peso 119 g);
  • due recipienti tronco-conici per mescolare il vino, con tre appoggi forgiati come maschere teatrali raffiguranti Demetra, Persefone e Dionisio (altezza 20 cm; diametro 26 cm; peso 891 g);
  • coppa profonda a profilo conico altezza 6,8 cm;
    diametro 21 cm; peso 479 g;
  • olpe a corpo ovoidale (altezza 9,1 cm; diametro 8 cm; peso 178 g);
  • phiale mesomphalos a 12 raggi (altezza 2,3 cm; diametro 14,8 cm; peso 104 g);
  • pisside (altezza 5,5 cm; diametro 8,3 cm; peso 148 g) con la raffigurazione della Scilla, o forse Sikelia, in atto di lanciare un masso di pietra lavica;
  • piccolo altare cilindrico (bomiskos) su base quadrata (altezza 11 cm; base 10,6 cm; peso 368 g) decorata con un bucranio e la scritta greca "Sacro agli Dei" .
  • coppia di corna (lunghezza 15,5 cm; peso 74 g) utilizzate per il rito religioso.

Sicilia - Gela, Emporio arcaico

 
Bosco Littorio è una zona sabbiosa con fitta vegetazione sulla costa siciliana nel comune di Gela, al cui interno si trova un'area archeologica che conserva i resti di un emporio greco, risalente al periodo compreso tra VIII e V secolo a.C.
La zona prese il nome attuale durante il Ventennio. Fino agli anni settanta l'area veniva usata dai gelesi per rinfrescarsi d'estate e da qui scendere a mare. Era inoltre frequentata dai tombaroli, che vi sottraevano manufatti scavati dalle sabbie.
Nel 1983 vi furono condotti gli scavi archeologici che portarono alla conoscenza dell'emporio e dal 1992 l'area appartiene al demanio regionale con l'istituzione della Soprintendenza di Caltanissetta di cui tuttora ospita la sede gelese. L'area boschiva, ad ingresso libero è stata recintata e protetta dal Corpo Forestale della Regione Siciliana; l'area archeologica è dal 29 maggio 2009 aperta alle visite.
L'Emporio arcaico, così identificato dagli archeologi, conserva numerose strutture (oltre la decina) che appartengono ad un ampio quartiere, il quale si estendeva dal porto sul mare all'acropoli (il sito dell'antica acropoli occupa oggi la collina denominata Molino a vento) dell'antica città greca di Ghélas, in una zona delimitata dal fiume Gela a sud-est. Si tratta di edifici costituiti da vani quadrangolari piuttosto regolari. I muri sono conservati fino a più di 2 m di altezza e in alcuni casi conservano la linea di posa delle antiche travi del tetto. In diversi casi si conserva ancora lo strato di intonaco che rivestiva internamente le pareti. In una delle strutture è integra la porta di ingresso composta dagli stipiti e dall'architrave. L'alzato era edificato in mattoni crudi, essiccati al sole, probabilmente realizzati in serie dato che quasi tutti presentano le stesse misure: circa 60 x 60 x 15 cm.
Una prima fase di vita di questo quartiere è databile al periodo della fondazione della colonia greca (VIII secolo a.C.). Il sito si sviluppò nel VI secolo, fino alla sua distruzione dopo il 480 a.C., probabilmente per cause naturali, forse un maremoto: tracce di un evento traumatico sono evidenti nei crolli delle pareti di alcuni degli ambienti. Sui resti del quartiere arcaico è testimoniata un'ulteriore fase vitale, caratterizzata dalla celebrazione di banchetti probabilmente a scopo rituale.
La scoperta del sito avvenne durante i lavori per le fondamenta di quello che avrebbe dovuto essere un asilo comunale. Sulla base di una segnalazione i lavori vennero interrotti e il cantiere per la struttura venne spostato in un'area più sicura.
Nel dicembre 1999, durante alcuni scavi archeologici effettuati ad ovest del Bosco sotto la direzione della soprintendente Rosalba Panvini e condotti dall'archeologa Lavinia Sole, sono stati rinvenuti tre altari fittili, datati al decennio 490-480 a.C. e decorati da figure mitologiche a rilievo: in uno la gorgone Medusa (la cui raffigurazione rimanda al modello analogo in antefissa esposto al museo "Paolo Orsi" a Siracusa), con i due figli Pegaso e Cresaore sotto le braccia, in un altro la dea Eos nell'atto di rapire Thanatos ed infine nel terzo altare la rappresentazione di una triade femminile di incerta identificazione. Gli altari sono esposti nel Museo archeologico regionale di Gela.
Un nuovo ciclo di campagne di scavo è iniziato a novembre del 2007 per la realizzazione della nuova copertura e si è concluso nell'anno successivo, a settembre, ed è stato svolto in concomitanza al recupero delle navi arcaiche rinvenute sul fondale antistante. Le due scoperte, le navi arcaiche e l'emporio, sono considerate dagli studiosi un unico oggetto di ricerca, in quanto probabilmente legati dal medesimo evento catastrofico.
In occasione della "tre giorni" intitolata Traffici, commerci e vie di distribuzione nel Mediterraneo tra protostoria e V secolo a.C. (27- 29 maggio 2009) si è potuto inaugurare il sito che è oggi usufruibile al pubblico. L'emporio, aperto al pubblico degli "addetti ai lavori" partecipanti al convegno il 27 maggio, è aperto alle visite da venerdì 29 maggio 2009.
All'interno dell'area sorgerà il Museo del Mare, dove troverà collocazione stabile la nave greca di Gela risalente al V secolo a.C.

Sicilia - Cuba delle Rose, Alcamo

 

La Cuba delle Rose di Alcamo è una cisterna araba che risale a circa mille anni fa e si trova a circa 300 metri dal lato nord/ovest del Castello di Calatubo.
Il termine Cuba potrebbe provenire dall'arabo qubbah, da cui la parola siciliano cubba, cupola che ricopre un serbatoio per la raccolta delle acque o sorgente. È una particolare costruzione di origine araba che ha resistito al passare dei secoli, che ancora oggi raccoglie le acque di una sorgente antidistante e che rappresenta un'opera molto importante dal punto di vista archeologico e architettonico, unica nel suo genere in Sicilia; è infatti una delle rare costruzioni tuttora esistenti aventi alcune caratteristiche tipiche dei “dammusi”, a forma quadrata e con un tetto simile a una cupola, utilizzate per raccogliere le acque piovane.
Le cube, come le gebbie, la saie, li gibbiuna, li cunnutta d'acqua, i wattali e i mulini, sono la riprova di una tradizione culturale e tecnologica di immenso valore storico, che deve essere recuperata e salvaguardata dall'oblìo.
L'edificio era la fonte di rifornimento d'acqua per gli abitanti che risiedevano nel distretto medievale di Calatubo: le acque di una vicina sorgente venivano convogliate per mezzo di particolari canali di scolo dalle stesse funzioni dei qanat persiani, un sistema di condutture di origine araba che, grazie a delle pendenze, faceva riaffiorare l’acqua nel serbatoio. La fontana è composta da una camera interna contenente l’acqua, comunicante con una vasca esterna (bevaio animali grossa taglia) che a sua volta, un tempo, riportava le acque in eccesso ad altri piccoli bevai (per animali di stazza minore) ormai perduti per sempre. I bevai, frutto dell'esigenza di diverse attività di allevamento, vennero costruiti in epoche successive allo spopolamento dell'abitato di Calatubo, dovuto alla fuga forzata dei contadini saraceni a causa della pulizia etnica condotta da Federico II.
Secondo antiche testimonianze e leggende, un giardino e un folto palmeto circondavano la Cuba: le palme davano l'ombra, rinfrescando durante la calda estate e rendendo possibile la coltivazione di alberi da frutto e ortaggi, introdotti nel territorio.
Il giardino di tipo arabo rivela un grande simbolismo: aveva una forma rettangolare e l’area circondata da muri e divisa in quattro parti (come i quattro elementi sacri, cioè il fuoco, l'aria, l'acqua e la terra); esso è attraversato da canali d’acqua, con una fontana collocata al centro.
I lavori di restauro facevano parte del Piano Triennale delle Opere Pubbliche 2012/2014 e sono stati finanziati attraverso il GAL (gruppo di azione locale) "Golfo di Castellammare", con il contributo del Comune di Alcamo (per il restauro, il consolidamento e la riqualificazione del sito), sfruttando il P.S.R. Sicilia 2007-2013 (Programma Sviluppo Rurale), riguardante la tutela e la riqualificazione del patrimonio rurale.
Scopo finale del restauro è stato quello di riattivare l'utilizzo dello stesso impianto, assieme a quello di mantenere viva la memoria dell'antica comunità, salvaguardando la protezione del bene ai fini del pubblico utilizzo. Dopo questi lavori la cuba è divenuta un luogo di richiamo per i turisti.
L’equipe dei tecnici era così composta: Enza Anna Parrino: coordinamento generale e progetto di restauro; Patrizia Minà: coordinamento tecnico-scientifico; Riccardo Faraci: progetto restauro e direzione lavori; Gaetano Cusumano: progetto restauro e direzione lavori, con la collaborazione esterna dell'associazione culturale "Salviamo il Castello di Calatubo" che ha curato alcuni aspetti storici e umani a dimostrazione del protagonismo e dell'importanza che l'antico complesso ha ricoperto nel tempo per il vasto feudo di Calatubo.
Una leggenda legata alla Cuba delle Rose, racconta di un giardino lussureggiante nei pressi del Castello di Calatubo: nei primi anni del 1700, qui c’era il roseto della baronessa Donna Gaetana De Ballis, ultima baronessa della nobile famiglia proprietaria del castello di Calatubo e del feudo dal 1584, e moglie di Giuseppe Papè Principe di Valdina e Protonotaro del Regno.
La bellissima Gaetana fu sposata dal principe Papè (molto più grande di lei) per puro interesse, priva del vero amore, riversò tutto il suo affetto verso suo figlio Ugo Papè che ben presto fu indirizzato dal padre a prendere i voti diventando uno dei più grandi vescovi della diocesi di Mazara del Vallo (ancora oggi ricordato per le sue opere).
Ancora una volta priva dell'amore, la baronessa, divenuta principessa all'atto del matrimonio, riversò tutto il suo affetto verso le sue amate rose, da lei coltivate segretamente per non farsi vedere dalle cortigiane e dai residenti; secondo la leggenda esse fiorivano solo di notte e in sua presenza, e da quando lei morì, nel 1769, le rose smisero di fiorire. Ma si racconta: che ogni anno, la notte del 19 febbraio, il suo fantasma, con un candeliere in mano esce dal Castello di Calatubo per recarsi in giro per la Cuba in cerca dei suoi amati fiori.
Altre leggende sono legate all'antico serbatoio arabo; si dice anche che la Cuba fosse nota per la sua riconosciuta peculiarità di profetizzare l'incombente nefasto futuro, tramite i riflessi della luna piena nello specchio delle sue limpide acque.
Un'altra antichissima leggenda rievoca la storia dell'eterno amore tra due giovani nobili legati a baronie di fazioni opposte, durante il tremendo periodo (1300) delle fratricide guerre baronali per la gestione dei feudi. Una storia d'amore e di morte che non ha nulla di meno della più nota storia di Giulietta e Romeo.

Sicilia - Grotta di San Teodoro

 


La grotta di San Teodoro si apre a 140 metri sul livello del mare sulla parte rocciosa del pizzo Castellaro, propaggine settentrionale dell'imponente monte San Fratello, a circa 2 km a sud-est del centro abitato di Acquedolci (ME). Deve questo nome ai monaci Basiliani che intorno al mille si rifugiarono al suo interno, in fuga dall'oriente iconoclasta. La grotta, formatasi in seguito ad un fenomeno carsico verificatosi all'incirca otto-dieci milioni di anni fa, conserva una documentazione molto ricca e molto importante della storia della Sicilia, in termini di popolamenti di animali, ormai estinti, e di resti dell'uomo preistorico.
La prima segnalazione della grotta di San Teodoro e dei depositi paleontologici e paleoetnologici ubicati al suo interno e sul talus ad essa antistante, si deve alla esplorazione del Barone Anca che nel 1859 eseguì un primo saggio di scavo. Egli notò che all'interno vi erano depositi del Paleolitico superiore e nell'ampio saggio che fece all'ingresso della grotta trovò un sedimento che conteneva resti di animali (elefante nano, iena, cervo, cinghiale, orso, asino). Indagini successive furono condotte da Vaufray (1925), Graziosi e Maviglia (1942) e Bonfiglio (1982-1985, 1987, 1989, 1992, 1995, 1998,  2002, 2003, 2004, 2005, 2006).
La grotta di San Teodoro fu abitata dall'uomo entro uno spazio di tempo valutabile, all'incirca, tra i 12.000 e gli 8.000 anni a.C. che, dal punto di vista culturale, rappresenta l'ultimo periodo del Paleolitico Superiore italiano comunemente chiamato Epigravettiano finale. La singolarità e l'importanza della grotta è data dal ritrovamento delle prime sepolture paleolitiche siciliane: sono cinque crani e due scheletri eccezionalmente completi che per primi hanno consentito una conoscenza approfondita degli antichi abitanti della Sicilia.
Il rituale delle sepolture consisteva nella deposizione del defunto in una fossa poco profonda in posizione supina oppure sul fianco sinistro, circondato da ossa animali, ciottoletti ed ornamenti composti da collane fatte con denti di cervo. Tutte le deposizioni furono ricoperte da un leggero strato di terra e al di sopra fu sparsa dell'ocra (colorante naturale) che formava un sottile livello. La testimonianza più importante è data dal ritrovamento dei resti fossili di una donna di circa 30 anni, alta 164 cm alla quale è stato attribuito il nome di Thea (dal latino Theodora, nella foto) per collegarlo a quello della grotta.


Sicilia - Eraclea Minoa

 


Eraclea Minoa (in greco antico Ἡράκλεια Μινῴα; in latino Heraclea) fu un'antica città greca della Sicilia sud occidentale, fondata, secondo Erodoto, dai Selinuntini che la chiamarono originariamente Minoa.
Le sue rovine si trovano nell'area archeologica di Cattolica Eraclea, comune italiano della provincia di Agrigento.
Venne chiamata Eraclea in onore di Eracle mentre Minoa sembra collegarsi alla leggenda secondo cui il re cretese Minosse avrebbe inseguito Dedalo fino in Sicilia per punirlo del suo aiuto dato ad Arianna e Teseo alle prese con il labirinto. Minosse avrebbe poi trovato la morte proprio in questi luoghi per mano dello stesso re sicano presso cui Dedalo si era rifugiato. Il regno di Kocalos era in effetti situato lungo le rive del fiume Platani con capitale Kamikos.
Dalla fine del VI secolo a.C., Eraclea Minoa passò sotto il dominio di Akragas e successivamente alla invasione punica del 409 a.C. passò nella zona sotto il controllo cartaginese: durante le guerre greco-puniche il vicino fiume Platani ha segnato per secoli la linea di confine naturale tra la epicrazia cartaginese in Sicilia ed i territori sotto l'influenza siracusana. Contesa tra greci e cartaginesi cadde, ora in una, ora nell'altra mano, finché nel III secolo a.C. non divenne colonia romana. Dal I secolo a.C. in poi venne abbandonata.
La città viene riportata nelle Verrine di Cicerone tra le civitates decumanae della Sicilia romana. Nel 131 a.C. il pretore Publio Rupilio vi dedusse una colonia, da cui si suppone che la città si spopolò quasi del tutto durante la prima guerra servile.
Riporta Cicerone che anche Eraclea fu oggetto delle vessazioni di Verre:«Qui Verre non solo prese denaro, come negli altri luoghi, ma anche mescolò categorie e numero di cittadini vecchi e nuovi
Narra lo stesso Cicerone il suo arrivo notturno a Eraclea: «Se Lucio Metello lo avesse consentito, o giudici, erano pronte a presentarsi qui le madri e le sorelle di quegli infelici. Una di queste, mentre io mi stavo avvicinando a Eraclea, mi venne incontro con tutte le donne sposate di quella città alla luce di molte fiaccole, e rivolgendosi a me con l'appellativo di salvatore, chiamando te suo carnefice, invocando fra le lacrime il nome del figlio, l'infelice si prostrò ai miei piedi, quasi che io potessi risuscitare suo figlio dai morti.» Gli scavi archeologici sulle rovine vennero intrapresi in maniera sistematica a partire dal 1950.
La città viene considerata tipica per comprendere l'urbanistica delle città ellenistiche e romane. Di grande interesse sono: il teatro, costruito alla fine del V secolo a.C., che si apre con la cavea, divisa in nove settori a dieci gradoni (nella foto di Josè Luiz Bernardes Ribeiro, le gradinate del teatro), verso il Mar Mediterraneo; il quartiere delle abitazioni ellenistiche e romane con impianto urbanistico ad "insulae", separate da strade parallele; l'Antiquarium, che raccoglie una selezione di reperti ceramici e statuette votive provenienti dall'abitato e dalla necropoli.
Sono in parte visibili anche i resti della cinta muraria della città costruita tra la fine del VI e la fine del IV secolo a.C., della lunghezza stimata di circa 6 chilometri. A nord-est delle mura si riconoscono ancora otto torri quadrate. A Eraclea Minoa è attribuibile una rara emissione dedicata al culto di Eracle.
Eraclea Minoa è posta nel territorio del comune di Cattolica Eraclea in prossimità del fiume Platani (antico Alico); la zona oggi prende il nome di Capo Bianco per via di una candida collina marnosa che si protende sul mare nelle vicinanze. È facilmente raggiungibile, provenendo da Agrigento per mezzo della Strada statale 115, dopo il bivio per Montallegro, svoltando sulla destra seguendo poi la relativa segnaletica.

Sicilia - Terme romane di Misterbianco

 

Le Terme romane di Misterbianco sono una parte dei resti di un acquedotto romano costruito tra la fine del II secolo e terminato intorno al VIII secolo dopo Cristo. Oggi si trovano al centro della piazza della Resistenza nel comune di Misterbianco sul versante della periferia nord, a poca distanza dal centro storico. L'amministrazione comunale ha omaggiato l'antico acquedotto intitolandone a proprio nome (via delle Terme) una delle due strade che attraversano, in corrispondenza, la piazza.
La più antica menzione delle terme risale ad Ignazio Paternò Castello, Principe di Biscari. Anche Houel le segnalò e le raffigurò. Dalle poche notizie reperibili, si ha la certezza che la struttura venne ulteriormente adattata affinché divenisse fruibile come abitazione, ciò è dato dal fatto che le terme erano una proprietà privata al tempo in cui furono edificate; a partire dagli anni sessanta sono state oggetto di riqualificazione da parte dell'amministrazione comunale in seguito alla massiccia urbanizzazione che avvenne in quel periodo. Le terme furono edificate allo scopo di incanalare e agevolare il flusso d'acqua che scorreva dal comune più a monte di Santa Maria di Licodia fino a sfociare nella città di Catania, in modo da essere fruibile da tutti i paesi circondari in cui il torrente seguiva il percorso.