lunedì 17 marzo 2025

Campania - Museo Archeologico di Pithecusae


Il Museo Archeologico di Pithecusae si trova a Lacco Ameno, sull'isola d'Ischia, nella città metropolitana di Napoli. La sede si trova nell'edificio principale del complesso di Villa Arbusto.
Museo Archeologico
Nel 1947 Giorgio Buchner e il vulcanologo Alfred Rittman crearono un museo, chiamato Museo dell'Isola d'Ischia, che più tardi sarebbe confluito, assieme ai reperti rinvenuti negli scavi successivi, nel nuovo Museo Archeologico di Pithecusae. Il museo, inaugurato ufficialmente il 17 aprile 1999 alla presenza di studiosi di primo piano come sir John Boardman, docente oxoniense, ed il conservatore capo del Museo del Louvre, Alain Pasquier, ha sede in Villa Arbusto. La villa fu costruita nel 1785 da don Carlo Acquaviva, Duca di Atri, lì dove si trovava la masseria dell'arbusto. Estintasi nel 1805 la linea maschile degli Acquaviva, la proprietà, dopo essere passata per molte mani, fu acquistata nel 1952 da Angelo Rizzoli, quindi dal Comune di Lacco Ameno, con il contributo di Provincia e Regione, perché diventasse sede del museo. Il Museo illustra la storia dell'isola, dalla preistoria all'età romana, e occupa il primo piano dell'edificio.
I principali reperti del museo riguardano i ritrovamenti effettuati a Pithecusa, l'abitato greco fondato nel secondo quarto dell'VIII secolo a.C., scavato da Giorgio Buchner dal 1952.
Molti dei vasi, fra cui la più nota Coppa di Nestore, provengono dalla necropoli della valle di San Montano, utilizzata dalla seconda metà dell'VIII secolo a.C. per quasi mille anni: la celebre coppa può essere infatti annoverata come il primo e più antico esempio di scrittura greca. Si tratta, in realtà, di un epigramma a tre versi inciso in alfabeto euboico, probabilmente riguardante il celebre vaso del Nestore dell'Iliade.
Altre terrecotte risalgono alla vicina acropoli del Monte di Vico, in particolar modo ceramiche da mensa, verniciata in nero (la cosiddetta Campana A) e commerciata in gran parte del Mediterraneo.
Le testimonianze di epoca romana, minori a causa del modesto abitato (dovuto alle continue eruzioni vulcaniche), sono rappresentate da alcuni rilievi votivi marmorei del Santuario delle Ninfe di Nitrodi, a Barano, e da alcuni lingotti di piombo e stagno di una vicina fonderia, oggi sommersa.
Museo Angelo Rizzoli
In un piccolo edificio nei pressi del Museo Archeologico è situato il Museo Angelo Rizzoli, dedicato alla vita e all'opera dell'omonimo imprenditore, che qui abitò periodicamente, portando un contributo fondamentale per il luogo.

Marche - Museo civico archeologico di Jesi e della Vallesina

 

Il Museo civico archeologico di Jesi e del territorio di Jesi (AN) ha sede nelle scuderie di Palazzo Pianetti.
L'istituzione culturale è nata nel 1785 quando Mons. Cappellari, allora governatore di Jesi, consegnò al Comune delle sculture romane che aveva rinvenuto nel Complesso di San Floriano.
Dal 1867 ai primi anni '90 del XX secolo la collezione, arricchita di altri reperti, fu collocata a Palazzo della Signoria in Piazza Colocci. Venne spostata a Palazzo Pianetti e poi nel complesso di San Floriano nel 2003.
Nel dicembre del 2017 la collezione è definitivamente collocata nelle scuderie di Palazzo Pianetti.
I reperti vengono presentati secondo un ordinamento cronologico in tre sezioni, riservate rispettivamente alla preistoria, protostoria (civiltà picena) ed età romana. Tra i reperti più interessanti il lapis aesinensis, documento epigrafico con preziose informazioni sulla viabilità nell'Italia centrale, e l'importante complesso di statue e ritratti di età giulio-claudia fra cui si segnalano i busti di Augusto e di Tiberio unitamente alla statua di Agathè Tyche (Buona Fortuna).
Paleolitico

Nel territorio della Media Vallesina sono stati rinvenuti reperti che certificano la presenza di industrie litiche tra il Paleolitico Inferiore e il Paleolitico medio. Questo territorio attraversato dal fiume Esino costituiva un'importante via di comunicazione tra la zona appenninica e la costa adriatica. Qui, a partire dal Paleolitico Inferiore si insediarono gruppi di cacciatori e raccoglitori. La presenza di cacciatori nella zona risale ad un periodo compreso tra 400.000 e 130.000 anni fa. Sono infatti stati rinvenuti, tra le cittadine di Monte San Vito e di Jesi dei ciottoli scheggiati e dei bifacciali. Il ritrovamento di strumenti di caccia di più pregevole fattura certifica la presenza di industrie litiche in un periodo compreso tra 130.000 e 120.000 anni fa, riconducibili all'Acheuleano recente. Tra Jesi e Monsano gli studiosi hanno certificato la presenza di industrie litiche di tecnica Levallois prive di bifacciali, attive presumibilmente 120.000-80.000 anni fa.
Neolitico
L'avvento dell'agricoltura e dell'allevamento, introdotte in Italia dall'Oriente 7.500 anni fa, segnò una tappa fondamentale nel cammino dell'umanità e diede il via alla costruzione di villaggi. Tra questi gli studiosi hanno riconosciuto Monte Cappone, Coppetella e Castel Rosino. Nei villaggi sopra citati venivano praticate la tessitura, la filatura, la lavorazione della selce, l'allevamento e l'agricoltura, che sfruttava la fertilità dei terreni vicini ai fiumi. Risale all'Eneolitico la prima testimonianza di un insediamento jesino. Negli scavi di Palazzo Mestica, infatti, sono stati rinvenuti dei frammenti ceramici prodotti nella metà del quarto millennio.
Primo Millennio

La media Vallesina è abitata da popolazioni picene che raggiungono un buon livello di benessere grazie al controllo del fiume Esino e allo sfruttamento delle risorse naturali. Tali popolazioni si concentrano tra 800 e 300 a.C. attorno agli attuali centri di Pianello di Castel bellino e Monteroberto. La presenza dei Piceni è attestati dal ritrovamento di alcuni manufatti nei territori di Mergo e Monsano. Nelle zone di San Vittore di Cingoli, Staffolo, Maiolati Spontini, Jesi e Castelbellino sono state rinvenute sculture votive, dedicate tra gli altri alla dea Cupra. Alcuni culti risultano mutuati dalla tradizione etrusca (si veda l'Ercole di Pantiere). Le popolazioni picene che abitarono questi territori erano suddivise in comunità di tipo non urbano e questo tipo di organizzazione comporta l'assenza di una cultura comune condivisa. Uomo e donna hanno una sostanziale parità, in particolare nell'accesso a cariche religiose e politiche. Nello specifico all'uomo è riconosciuto il valore militare, mentre alla donna quello di garante della comunità familiare.
Epoca romana

La conquista romana viene sancita con la vittoria ottenuta nella Battaglia del Sentino, del 296 a.C. La prima colonia viene costituita nel terzo secolo e prende il nome di Aesis. Proprio da questa colonia provengono numerosi esempi di scultura colta e con funzione pubblica. Tra queste il complesso onorario rinvenuto nella zona del convento di San Floriano nel '700, costituito di statue acefale femminili e togate, oltre a ritratti di Augusto, Tiberio e Caligola. Tra gli altri reperti rinvenuti ci sono iscrizioni funerarie ed onorarie, realizzate tra il primo secolo a.C. e il terzo d.C; frammenti di statue, tra cui una della dea Fortuna e una testa di donna in marmo bianco lunense lavorata a tutto tondo. Il reperto, che ritrae una donna di età matura, è stato rinvenuto fortuitamente nella zona di San Vittore di Cingoli, ed è databile alla fine del secolo I a.C. in età tardo repubblicana. La scultura presenta alcune lesioni, più o meno vistose, sono comunque riconoscibili il tratto severo del volto, gli occhi a mandorla evidenziati da borse vistose, le gote rilassate marcate da duri solchi nasolabiali. Gli angoli laterali della bocca tendono a scendere e le trecce che partono dal nodus sulla fronte si riuniscono sulla nuca in una stretta crocchia. Inoltre è presente un mosaico, di forma rettangolare, con le dimensioni di 120 cm. di altezza e 263 di lunghezza, ritrovato casualmente nel 1960 presso il vicolo delle Terme a Jesi. Questo mosaico risale all'epoca romana del I secolo a.C. ed è composto da motivi geometrici a rombi neri su fondo bianco; molto probabilmente apparteneva ad una domus privata.
I signacula ex aere della regio VI adriatica

Il signaculum di Aesis è un timbro di bronzo con il manico di forma quasi cilindrica che termina con una placca rettangolare, dove si trova un caduceus alato; il timbro vero e proprio è di forma semicircolare su cui è stato inciso il nome del proprietario del signaculum: L GALERI PHILARG (Luci Galeri Philagyri). Si presume che la persona citata dalla lamina appartenga a una gens senatoria di origini riminese (Ariminum). Il praenomen non comune nel ramo di questa gens può indicare che risalga a una datazione alta, mentre il cognomen di origine greca potrebbe voler dire che fosse di origine libertina, dunque liberato dalla Gens Galeria e poi coinvolto nella gestione della fabbrica. È stato rinvenuto nella località Montegranale dove sono stati ritrovati anche dei resti d’impianti di cottura per produrre i laterizi da costruzione.


Gruppo scultoreo di prima età imperiale

Il Museo archeologico espone un gruppo scultoreo i cui reperti risalgono alla prima età imperiale, dal tardo periodo augusteo all'età flavia (e forse anche a quella adrianea). Esso fu ritrovato una prima volta nel 1559 nella zona dell'antico foro romano (attuale piazza Federico II), nel cortile dell'allora chiesa di San Floriano durante dei lavori di restauro, ma le autorità dell'epoca decisero di lasciare in situ i preziosi reperti. Il convento francescano di San Floriano è stato per molti secoli la più importante chiesa di Jesi ed oggi è stato trasformato in una istituzione culturale, al cui interno risiede, tra l'altro, il Teatro studio intitolato all'attrice Valeria Moriconi, originaria di Jesi.
Un secondo ritrovamento dei medesimi reperti avviene nel 1784, di nuovo durante lo svolgimento di importanti lavori di rifacimento che coinvolgono il cortile del convento. In questo caso il Gonfaloniere ed i priori di Jesi, d'accordo con le autorità pontificie, incaricano i nobili locali Niccolò Guglielmi Balleani ed Antonio Grizi di garantire e curare il ritrovamento. L'archeologo Ennio Quirino Visconti opera un primo riconoscimento del gruppo scultoreo, identificando i ritratti; è probabile che la struttura circolare nella quale vengono ritrovati i reperti appartenga alle antiche terme cittadine, oggi comunemente nota come "la cisterna". Si ritiene che la produzione delle statue sia avvenuta ad opera di maestranze locali; nel caso delle statue, la perdita delle parti fisiognomiche e la sostanziale uniformità della realizzazione artistica non permettono attribuzioni particolari.
Ritratto di Augusto

L'attribuzione del viso all'imperatore Augusto è resa agevole dalla "ciocca a tenaglia" che si nota sulla fronte e che caratterizza l'iconografia del fondatore dell'impero. Il volto è raffigurato giovane, non tanto dal punto di vista cronologico, ma come esaltazione della sua atemporalità e della sua giovinezza perenne. Da notare il movimento del volto verso destra, la capigliatura più netta nella parte alta, gli zigomi pronunciati, la mascella regolare, la bocca sottile e l'incavo del mento, tratti che denotano la floridezza del personaggio e la sua splendida ieraticità; il volto ha subìto, come accade di frequente, un vistoso danno al naso.
La testa, che appare più rifinita nella parte anteriore e più abbozzata nella parte posteriore, era posta forse in visione frontale addossata ad una parete, con molta probabilità facente parte di un busto o di una statua (come testimonia il taglio netto alla base del collo), forse sul modello di Augusto loricato (cosiddetto di Prima Porta); la resa artistica la avvicina anche ad Augusto capite velato e alla statua conservata nel museo archeologico di Chiusi, databile alla prima età tiberiana.
Ritratto di Tiberio

Il ritratto, identificato in Tiberio, prodotto nella prima metà del I secolo d.C. è considerato di secondo tipo. Pur essendo numerose le sbrecciature sul padiglione auricolare destro e le piccole cadute di grana sulla guancia destra, presenta la più grande mutilazione nella punta del naso. La testa, pensata per un possibile inserimento in una statua o in un busto, include, oltre al collo, anche parte della spalla, di cui è ben descritta la muscolatura. Il volto è lievemente rivolto a destra, ha forma triangolare, il naso è aquilino e il labbro superiore è sporgente. Il cranio, molto dettagliato, ha forma geometrica. Sono queste le caratteristiche che rendono possibile l’identificazione con Tiberio. Per quanto riguarda i capelli sono lavorati simmetricamente a ciocche a virgola, attaccati al capo e terminano sulla fronte, disponendosi a forbice, mettendo questa in evidenza. Sul retro, le ciocche sono più lunghe e le basette, anch’esse riprendendo la forma a virgola, hanno la punta diretta in avanti.
Ritratto di Caligola

Il ritratto, attribuito a Caligola, collocabile nel I secolo d.C. e più precisamente tra il 37 e il 41 d.C., è stata prodotto da marmo bianco ed è stato lavorato al fine di essere inserito in una statua o in un busto come la sezione conica alla base del collo dimostra. La damnatio memoriae, a cui Caligola è stato sottoposto, rende il manufatto raro e prezioso. La testa è orientata verso destra e i capelli a ciocche terminano in una frangia che si apre a forbice sopra l’occhio sinistro. Il viso asciutto, con mento ben distinto, presenta sopracciglia arcuate e il labbro superiore della bocca è pronunciato. Oggi il ritratto è parzialmente ricomposto, ma la parte posteriore, quella della nuca, è mancante. Il manufatto è danneggiato, inoltre, da tre fratture: una dalla tempia destra allo zigomo, una nella zona cranica sinistra e un taglio netto verticale sul retro che è riconducibile a una probabile iconografia a capite velato.
Statua di fanciullo con bulla

La statua è databile al I secolo d.C. e il suo stato di conservazione è mutilo, poiché mancante della testa, del braccio destro e della mano sinistra. Rappresenta una figura che, in piedi, insiste sulla gamba destra mentre la sinistra è flessa e leggermente arretrata. La scultura è rivestita di una toga che ricade in panneggi pesanti, che però lasciano trasparire, in alcune zone, l’anatomia della figura e contribuiscono a creare l’effetto chiaroscuro; tra le pieghe il sinus si allunga fino al polpaccio. Sul petto è ben evidente una bulla che denota l’età giovanile del personaggio riprodotto; allo stesso tempo però, sulla sinistra, addossata al plinto è visibile una cista con coperchio e manico che indica il rango di magistrato.
Statua femminile acefala

È stato ipotizzato che la statua raffigurasse la Fortuna o la dea Cerere. Il peso insiste sulla gamba sinistra mentre la gamba destra è piegata e spostata leggermente all’indietro. La figura è avvolta da una tunica fine fermata sotto il seno da una cintura, chiusa da un fiocco al centro della vita. Il capo, ora non più visibile, era originariamente avvolto dalla palla che ricopre completamente la statua lasciando scoperto il braccio destro ed è raccolta invece sul braccio sinistro facendo sì che scenda lungo il fianco. Ai piedi indossa delle alutae. Sono visibili delicati attributi femminili sia in questa statua che nel busto di statua femminile. È mancante della testa e di altre parti anatomiche come il braccio sinistro e la mano destra.
Busto di statua femminile

La donna appare nobilmente vestita. Si riconoscono i bottoni, tre di questi ben visibili, che fermano la tunica e una sopraveste in cui si nota una bretella con un motivo a spina di pesce che sorregge la stola. Si riconosce anche un mantello che panneggia il braccio sinistro e passa dietro a quello destro. La porzione di schienale che sembra essere presente lascia immaginare che la statua raffigurasse una donna seduta su uno scranno. Purtroppo non sono stare ritrovate le gambe ed altre parti anatomiche come braccia e testa.
Statua maschile togata
L’oggetto scultoreo è un corpo maschile togato, quasi certamente magistrato. Ciò risulta deducibile dalla presenza di una cista poggiata sul plinto che simboleggia l’istituzione Romana. Si evidenzia la morbidezza e l’eleganza del panneggio che avvolge completamente il corpo fino ai piedi. Le pieghe della toga formano fitte zone di chiaro-scuro. Lo stato di conservazione non è ottimale, infatti la statua presenta mutilazioni alla testa e alle braccia, diverse scheggiature agli orli dei panneggi ma un frammento del braccio è stato riattaccato.
Statua maschile togata piegata verso destra
La statua presenta la gamba sinistra come perno mentre la destra è leggermente flessa ed arretrata. Indossa una tunica e sopra una toga, che crea grandi panneggi come all’altezza del petto che si ordinano in un motivo a “V”. Si può notare anche il sinus che si arresta al ginocchio destro. La statua ha una leggera torsione del busto verso destra ed è mancante di testa e braccia che erano lavorate a parte. È presente anche una lunga frattura che interessa la parte inferiore della statua.
Statua maschile togata mutila dei piedi

All’interno del gruppo iconografico degli uomini togati, la statua seguente è sicuramente la più mutila. Presenta infatti la mancanza del capo, del braccio destro, della mano sinistra, dei piedi e anche scheggiature sugli orli dei panneggi. La figura stante frontalmente si erge sulla gamba sinistra mentre la destra è leggermente piegata. La toga risulta avvolgente e forma un ampio sinus aderente alla gamba flessa. Nel lato sinistro il panneggio si appesantisce per essere ripreso sul braccio e ricadere lungo il fianco corrispondente. Appoggiata sul plinto, è riconoscibile una cista, elemento da cui si può dedurre che il personaggio incarni la funzione di magistrato. La parte posteriore è solo abbozzata, cosa che ci permette di dedurre che fosse addossata ad una parete.
Statua maschile togata di grandi dimensioni
Rispetto alle altre statue togate, questa ha dimensioni superiore al vero: è alta infatti più di 2 m. È eretta frontalmente, mutila del capo che era originariamente coperto con la toga. La tunica forma un ricco panneggio a partire dal sinus ampio e articolato in quattro sborsature, che scende sino al polpaccio per poi risalire trasversalmente sulla spalla sinistra. L’orlo inferiore della toga, sollevato all’altezza dei fianchi, lascia intravedere l’anatomia della gamba. Risultano particolarmente evidenti i calcei patricii, annodati al polpaccio, che indossa ai piedi. La statua è, inoltre, mutila delle mani, che erano inserite con due perni, di cui si conserva quello di una mano, e presenta scheggiature lungo gli orli del panneggio.


Umbria - Cantiere navale di Stifone


Il cantiere navale di Stifone è un sito archeologico, si suppone di origine addirittura Etrusca, rinvenuto nel 1969 in Umbria, in località Le Mole del comune di Narni (TR), all'interno di un canale artificiale adiacente al corso del Nera, circa 900 metri più a valle rispetto alla frazione di Stifone. La sua posizione è a ridosso di quello che era forse il porto fluviale dell'antica Narnia.
Alcuni di questi resti sono ancora visibili nell'alveo del fiume.
Il prof. Alvaro Caponi, docente, artista e appassionato di archeologia, che si è occupato di numerose ricerche effettuate in loco, tiene a precisare come l'origine del sito non possa che essere addirittura anteriore alla fase romana: troppi indizi ed elementi storici inducono a pensare come tutta l'opera, la propria minuziosa e ricercata collocazione strategica (lontano dal mare, lontano da attacchi nemici), fossero in origine frutto dell'ingegnosa inventiva del popolo etrusco.
Elementi a suo dire a favore delle origini etrusche del sito archeologico:
  1. la presenza di grosse pietre informi, dalla facciata spianata, assemblate con pochissima malta, senza l'impiego dell'"opus caementicium" caratteristico viceversa delle costruzioni romane;
  2. lo studio della funzione idrodinamica del Porto che per la sua geniale complessità e funzionalità è attribuibile plausibilmente all'ingegneria idraulica etrusca;
  3. il ritrovamento di numerose antiche e pesanti ancore di pietra evidentemente dismesse in epoca romana e la cui produzione ed utilizzo erano attribuibili secondo Plinio il Vecchio al popolo Etrusco;
  4. la presenza di un bacino idrografico tra i più grandi d'Italia fatto di centinaia di rigagnoli, sorgenti, veri e propri fiumi sotterranei dalla provenienza ancora sconosciuta che concorrono ad alimentare la portanza del fiume Nera in quel preciso punto, rendendolo navigabile proprio prima della sua confluenza nel fiume Tevere nei pressi di Orte, sulla direttrice fluviale per il mar Tirreno;
  5. la protezione strategica offerta dalle sovrastanti "gole" dal taglio fendente, così come l'abbondanza di legname adatto alla produzione cantieristica navale presente e disponibile nelle rigogliose foreste delle montagne circostanti (Teofrasto racconta come gli Etruschi abbattessero nelle foreste alberi talmente alti che il solo tronco bastava a fabbricare la chiglia di una grande nave);
  6. la chiara citazione di Virgilio quando nel libro VII, 716 dell'Eneide (le cui vicende sono collocate intorno al sec. XIII a.C.), parla della necessità del Re Turno (sentitosi minacciato dall'approdo di Enea nelle coste laziali) di far giungere nel luogo della battaglia, in soccorso delle proprie truppe, una flotta di navi partite da Orte ("hortiniae classes"): difficile pensare, in tale contesto storico-poetico, a luogo più adatto del Porto-cantiere di Stifone, posto nelle immediate vicinanze di Orte, per assemblare, nascondere e preparare alla battaglia navi da guerra che giungessero, eventualmente, in soccorso di Turno ed avessero facile accesso al mare.
  7. Pertanto, niente vieta secondo lo stesso Caponi che lo stesso Cantiere navale, oltre al Porto, sia di origine etrusca e che anch'esso sia stato successivamente utilizzato dai Romani, ai quali, in questo caso, si sarebbe presentata solo la necessità di eseguire lavori di ristrutturazione con l'utilizzo successivo anche dell'"opus caementicium".
Tali ipotesi sono del tutto ipotetiche e prive di riscontri scientifici debitamente accertati.
Già prima del rinvenimento, la storiografia locale aveva supposto l'antica presenza di una simile struttura, riprendendo dei racconti popolari tramandatisi nel corso dei secoli. Afferma in proposito il primo sindaco della Narni liberata, Rutilio Robusti:
«L'origine della parola "Stifone" è greco-pelasgica e servì per indicare una località dove si dovevano costruire e varare delle barche o zattere di legname per essere inviate verso Roma o altrove, per poi servire a costruzioni navali di mole maggiore» (Rutilio Robusti, Narni, guida della città e dintorni, 1924)
L'idea era stata poi ripresa da altri autori, quali Italo Ciaurro e Guerriero Bolli, il secondo associando il cantiere al periodo bizantino (V-VI secolo d.C.).
Non supportata dalle evidenze, quella di una struttura cantieristica era rimasta comunque una storia poco indagata, così da non potersi stilare un quadro conoscitivo che andasse oltre la semplice menzione. Quindi, prendendo alla lettera la citazione di Robusti e seguendo i dettami della logica tutto lasciava ricondurre ad un sito atto alla costruzione di zattere fluviali, destinate al trasporto delle merci o delle persone. Però, una volta avvenuto il ritrovamento e constatate le significative dimensioni dell'opera (nonché lo sforzo umano che si intuisce dietro alla sua realizzazione), il campo ha lasciato immediatamente spazio ad altre letture più suggestive: tra le più interessanti troviamo quella di un collegamento con i fatti bellici di Roma legati alle Guerre puniche (III-II secolo a.C.).
Che il Nera venisse anticamente navigato, come tramite per i trasporti del comprensorio umbro verso Roma, lungo la via naturale che prosegue ad Orte con il fiume Tevere, si ricava dalle testimonianze di autori classici quali Strabone e Tacito. Il geografo greco fa riferimento a "imbarcazioni non di grosse dimensioni", lo storico latino descrive invece nel dettaglio il viaggio del console Gneo Calpurnio Pisone e di sua moglie Plancina che, nel 19, di ritorno a Roma dalle province della Siria, decidono di lasciare la Via Flaminia e di imbarcarsi appunto a Narni.
«A partire da Narni, per evitare sospetti o perché chi teme è incerto nei suoi disegni, seguì il corso del fiume Nera e poi del Tevere. E accrebbe ancor più il risentimento popolare, perché, approdati con la nave presso la tomba dei Cesari, in pieno giorno e con la riva gremita di gente, si fecero avanti, allegri in volto, lui tra uno stuolo di clienti e Plancina con il suo seguito di donne» (Tacito, Annales, III, 9)
Quando si parla di navigabilità ci si riferisce tuttavia generalmente solo all'ultimo tratto del fiume, compreso fra Stifone e la confluenza del Nera con il Tevere. Le strette gole sotto Narni rendono infatti impossibile tale pratica, per quanto alcuni autori avessero ipotizzato la presenza di un antico punto per l'imbarco già a partire dalla città di Terni. Di una simile struttura si ha invece notizia certa relativamente all'altra frazione narnese di Guadamello, qualche chilometro a valle lungo il fiume rispetto a Stifone: qui esisteva uno scalo fluviale detto porto di Santa Lucida, citato dalle Riformanze Narnesi del 1533.
Grazie ad un contributo lasciato nel XVI secolo dal gesuita Fulvio Cardoli si hanno le coordinate geografiche dell'antico porto fluviale di Narni, le cui vestigia erano ancora visibili ai suoi tempi, come dimostrano queste parole:
«Lunge da questo luogo circa mille passi più in là di Taizzano dicemmo essere un tempo esistito un porto alla ripa del Nera qualmente dimostrano alcuni vestigi...» (F. Cardoli, Ex notis Fulvij Carduli S.J. presbyteri Narniensis de Civitatis Narniae, Origine et antiquatibus)
Ed è ancora in tale posizione che viene accertato da un informatore del marchese Giovanni Eroli nel 1879, in occasione di un suo carteggio con il primo bibliotecario di Terni, Ettore Sconocchia, che aveva come riferimento proprio la navigabilità del fiume Nera. Dal resoconto si evince tuttavia come i suoi resti fossero da considerarsi di scarsa significatività (due grossi pilastri per legarvi le barche).
Della precisa posizione del porto non si parla più nei contributi successivi, tanto da ritenerlo tacitamente sommerso dopo l'innalzamento del fiume avvenuto a causa della costruzione di dighe, di cui consistente quello avvenuto nel 1939 per opera della Soc. Valdarno. I resti del porto, a differenza di quanto si riteneva, sono però rimasti sempre lì dove erano stati visti dal gesuita e segnalati al marchese Eroli.
Verso la fine degli anni Sessanta il prof. Alvaro Caponi, dopo avere acquistato un vecchio molino sul fiume Nera, in località Le Mole (a Nera Montoro di Narni), si accorse, dopo una piena invernale, che il fondale del fiume si era ripulito lasciando affiorare una grossa struttura in pietra sulla sponda destra, che egli fotografò nel 1969. Il prof. Caponi pensò subito che si trattasse dei resti del porto fluviale citato da Fulvio Cardoli, porto che non poteva essere cercato più a monte dove il fiume, restringendosi in piccola cascata, diventa impetuoso e non navigabile. Nel 1992 l'archeologo locale e speleologo Roberto Nini e, qualche anno dopo, Daniela Monacchi, in qualità di Soprintendente archeologico dell'Umbria, nomineranno il porto, riportando le indicazioni di Cardoli, in un'ottica più contestualizzata alla storia del territorio. Del resto Fulvio Cardoli aveva fornito delle coordinate precise, dicendo: “[…] Esistono ancor oggi, in ripa ad esso fiume, passato il Castel di Taizzano, un tre miglia da Narni, alcune vestigia del porto, dove alfin la Nera, dopo aver lottato, strettamente rinchiusa tra mezzo altissimi monti, contro l'impaccio degli scogli e de' sassi del suo letto, incomincia a sostenere le barche, ed ivi veggonsi pure i ferrei anelli impiombati nel vivo sasso, ai quali siccome a palo ferrato legavansi le barche […]”.
Dopo il ritrovamento del 1969, Roberto Nini inizialmente ipotizzò che si trattasse dei resti di un antico molino, ma incoraggiato dal ritrovamento delle strutture verosimilmente portuali, continuò l'esplorazione dei luoghi adiacenti, indagando là dove il gesuita Cardoli non si era spinto perché “alcuni strati di acque stagnanti impedivano di fare innanzi”. Queste ricerche lo portarono a scoprire un'altra area archeologica che, per la vicinanza al porto e per le sue caratteristiche, si configurava come un cantiere navale, vicino al quale, sulla opposta sponda del fiume, era situata una cava laboratorio per ancore in pietra. La notizia del ritrovamento del porto e del cantiere navale venne divulgata (gennaio 1992) e riproposta (aprile 1997) dall'emittente locale ternana “Tele Galileo” nel corso di due trasmissioni condotte da Wilma Lomoro a cui partecipò lo stesso prof. Caponi. A gennaio del 2006, nel corso di un'ulteriore trasmissione, viene annunciata l'imminente pubblicazione (aprile 2006) del volume I segreti del porto etrusco e il cantiere navale di Narnia, in cui Alvaro Caponi raccoglie e documenta i risultati di anni di studi.
Nel 2006 è nata l'associazione culturale Porto di Narni Approdo d'Europa con lo scopo di porre il sito archeologico all'attenzione delle istituzioni. Il 29 gennaio 2006 sono intervenute sul posto le telecamere di Rai 3 Umbria, mentre il 26 marzo 2006, in una visita guidata ai reperti organizzata dai soci, anche il sindaco di Narni Stefano Bigaroni ha voluto accertarsi di persona circa l'entità del reperto. Gli studi condotti dai volontari, con l'avallo di alcuni esperti dell'Università degli Studi di Perugia per conto di una casa editrice, hanno poi faticato per reperire i fondi necessari per la pubblicazione. Nel febbraio del 2012 è stata pubblicata una ricerca scritta da Christian Armadori, con l'obiettivo di stimolare il recupero dell'area archeologica e di incentivare gli studi sul luogo.
I resti si trovano all'interno di un canale artificiale scavato nella roccia, lungo circa 280 m, un tempo unito al fiume Nera, a monte ed a valle, come rilevano alcune mappe catastali. Si tratta di due pareti tagliate, opposte e distanti l'una dall'altra circa 16,5 m, che presentano una serie di buchi squadrati su tre file, per un totale di 30 incisioni a parete secondo le misurazioni effettuate sul posto da chi si era preso cura di ricostruirne il disegno (sono 27 in totale quelli ancora visibili). La funzione di tali fessure è stata interpretata facendo riferimento al bisogno di stabilità dell'imbarcazione in fase di assemblaggio, potendo fare da incassi per l'inserimento laterale di puntelli a sostegno. Intervallandosi i buchi per circa 13m a parete, e considerando come la puntellatura non riguarderebbe prua e poppa (ovvero le parti più sottili di un'imbarcazione), le misure sono parse piuttosto consistenti per dei semplici zatteroni fluviali, tanto più considerando la notevole distanza tra una parete e l'altra. Si è preferito finora adoperare prudenza nel parlare di quinqueremi o triremi romane senza avere i necessari raffronti, specie se si considera come neppure gli storici abbiano stabilito con esattezza la misura di tali navi da guerra. Si è tuttavia concordi nel parlare di imbarcazioni a ridotto pescaggio quindi potenzialmente adatte per discendere l'ultimo tratto del fiume Nera, copiosissimo, prima di gettarsi nel Tevere. Le ragioni di una struttura cantieristica piuttosto lontana dal mar Tirreno, ma comunque ad esso ben collegata attraverso la via d'acqua, si rifanno invece all'abbondanza di materie prime offerte dal territorio dell'Umbria (legname di diversa qualità), con il comprensorio narnese caduto sotto la dominazione romana già dal 299 a.C. È interessante poi constatare come gli autori classici del periodo, incluso quel Polibio da ritenersi lo storico per eccellenza delle Guerre puniche, non abbiano fornito grosse indicazioni rispetto alla posizione dei diversi arsenali romani. L'esigenza di sicurezza potrebbe collegarsi alla scelta di costruire imbarcazioni nell'entroterra, senza quindi esporsi alle potenziali minacce nemiche dal mare. Ed è difatti all'interno della città di Roma, nella zona del Campo Marzio, che gli storici moderni pongono la collocazione dei "Navalia", dovendosi ritenere che quella di Stifone, laddove venisse confermata una qualsiasi attinenza con quel periodo, possa essere stata solo una delle diverse strutture cantieristiche utilizzate all'epoca. Noto peraltro quanto fu imponente lo sforzo bellico che nel 261 a.C. vide la flotta romana scendere sul mare a combattere contro Cartagine nella prima guerra punica. Doveroso però ribadire come, per alcuni aspetti della scoperta, si tratti al momento di ipotesi generalmente condivise ma ancora al vaglio.
Che la zona a ridosso del porto romano avesse potuto ospitare in passato un certo insediamento abitativo era emerso da tutta una serie di reperti venuti alla luce dai terreni circostanti. Nel 1914 venne accertata la presenza nei pressi di un antico bagno termale (l'area è ricchissima di sorgenti), mentre due lapidi vennero rispettivamente in superficie poco distanti nel 1850 e nel 1970 Ad avvalorare l'importanza che dovette avere la zona in epoca romana ha inoltre contribuito la scoperta, ad opera di A. Caponi nel maggio 2007, di una cisterna lunga circa 25 metri, proprio a poca distanza dal Cantiere e che in antichità i Romani considerassero quella specifica parte dell'Umbria pure per la sua importanza strategica lo rivela un passo di Tito Livio da riferirsi all'anno 207 a.C. Intercettata una corrispondenza tra Asdrubale Barca e suo fratello Annibale Barca, le legioni decisero di sbarrare il passo al nemico nelle vicinanze di Narni, dovendosi ritenere che il fatto avvenne nelle immediate prossimità del Cantiere Navale viste le indicazioni geografiche fornite dall'autore
«Due cavalieri di Narni erano giunti dalla battaglia nell'accampamento collocato all'ingresso della stretta che si apre sull'Umbria» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXVII)
La stretta gola che si apre sull'Umbria è infatti proprio quella alle spalle dell'area archeologica, la cui ubicazione è esattamente allo sbocco di essa.
I resti archeologici del Cantiere Navale, nonostante gli appelli, si trovano ancora oggi in stato di abbandono, avvolti dalla vegetazione e circondati da acque stagnanti, con il rischio che la testimonianza possa subire ulteriori danni che ne mettano a repentaglio la già parziale integrità. L'area, soggetta peraltro al rischio di piene improvvise, vista la presenza di dighe più a monte, è di proprietà della multinazionale dell'energia Endesa Italia: l'organizzazione di eventuali visite guidate deve sottostare quindi al rilascio di particolari permessi per l'accesso all'area di proprietà privata. Inoltre, tutta la zona, interessata in epoca medievale da una fiorente industria basata sui mulini ad acqua, sia stata fortemente stravolta nella sua originaria natura. 

Veneto - Museo nazionale atestino



Il Museo nazionale atestino, conosciuto anche come Museo archeologico di Este o semplicemente Museo di Este (in passato "Museo Euganeo-Romano"), è un museo archeologico situato ad Este, in provincia di Padova.
Dal 1902 il museo è ospitato presso la cinquecentesca Villa Mocenigo, distrutta da un incendio nel '700 e in seguito ricostruita, vicino alla cinta muraria trecentesca.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale del Veneto, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
I primi reperti rinvenuti nella zona sono documentati già a partire dal XIII-XIV secolo. Tuttavia solo nel XVII secolo, il senatore della Repubblica di Venezia Giorgio Contarini iniziò a collezionare alcune lapidi iscritte, la maggior parte comprate da antiquari padovani di Padova, presso la villa Contarini degli Screni, detta "Vigna Contarena".


Nel XVIII secolo, lo storiografo estense Isidoro Alessi riuscì a recuperare presso la sua abitazione molte epigrafi rinvenute ad Este e dintorni, mentre nella vicina Battaglia Terme il marchese Tommaso Obizzi collezionò molte monete, lapidi e ceramiche nel proprio castello del Catajo, il quale poi fu ereditato da Ercole Rinaldo III d'Este, già duca di Modena e facente parte della famiglia reale d'Austria-Este: per questo motivo già nel 1822 e soccessivamente nel 1896 molti oggetti (in particolare i bronzetti e le monete) facenti parte della preziosa collezione furono trasferiti a Vienna (presso il museo di storia dell'arte e il museo di storia naturale) e Modena. Nello stesso periodo i cittadini di Este iniziano a percepire la grave perdita culturale a cui potevano andare incontro, se non avessero fermato tale dispersione.
Nel 1834 Vincenzo Fracanzani fonda all'interno della chiesa di Santa Maria dei Battuti, dentro al complesso del convento di San Francesco, il primo e piccolo Museo Civico Lapidario, in seguito acquistato dall'amministrazione comunale, in cui sono raccolti 89 reperti provenienti dalle collezioni di Giorgio Contarini e Isidoro Alessi. Il museo ha un grande successo e nel 1867 viene visitato dallo storico tedesco Theodor Mommsen.
A partire dal 1876 inizia una campagna di scavi che porta al ritrovamento di sette tombe contenenti ricchissime decorazioni e una necropoli preromana, che fa intuire la presenza di un'antica civiltà. L'aumento del ritrovamento di reperti e la loro straordinarietà portò all'ampliamento del museo, che venne ridenominato in "Museo Euganeo-Romano" nel 1880. Tuttavia, a causa della crisi economica, nel 1882/1883 l'amministrazione comunale chiese di nazionalizzare il museo e finalmente il 3 aprile 1887 venne emanato il Regio Decreto che ufficialmente istituiva il Regio museo nazionale atestino, nominando direttore Alessandro Prosdocimi.


Il 6 luglio 1902 viene inaugurata la nuova sede del museo presso Villa Mocenigo. Durante la prima guerra mondiale gli oggetti più preziosi vengono trasferiti temporaneamente a Firenze e Roma fino al 1919. Negli anni successivi continuano le campagne di scavo, che portano al ritrovamento di oltre 50 tombe. Durante l'epoca fascista il museo viene ristrutturato ed ampliato e viene acquisito il famoso medaglione aureo di Augusto coniato nell'anno 2 a.C., oltre ad alcune ceramiche cinquecentesche dell'abbazia di Santa Maria delle Carceri.
Nel secondo dopoguerra inizia l'opera di risistemazione del museo, che comporta la diminuzione degli ormai troppi reperti esposti (accatastati in maniera caotica) ed inizia un'imponente opera di catalogazione, che comporta però l'interruzione degli scavi a causa della carenza di personale e di risorse economiche.
Nel 1979 il museo venne chiuso per il restauro di Villa Mocenigo. Dopo 5 anni di lavori, il museo venne riaperto offrendo al pubblico una rinnovata sistemazione degli oggetti.


Il museo conserva oltre 65.000 oggetti ed è suddiviso in undici sale con varie sezioni tematiche: al pianterreno sono esposti i reperti archeologici dell'età romana dell'antica città di Ateste, suddivisi in monumenti funerari, lapidi, monete, mosaici in tessere bianche e nere con nuotatori e la ricostruzione di un soffitto affrescato di una villa. Infine vi è una sala dedicata all'epoca medievale e moderna, che espone statue medioevali e alcuni pezzi della rinomata ceramica di Este. Alla parete si può ammirare una pregevole Madonna col Bambino dipinta su tavola da Cima da Conegliano nel 1504 e proveniente dalla chiesa degli "Zoccoli".
Al primo piano, preceduta da una serie di stampe storiche della città di Este, si trova la ricca sezione protostorica, che conserva le testimonianze dell'epoca paleoveneta, suddivisa in reperti preistorici, vasellame e oggetti di uso quotidiano, ex voto e bronzetti di offerenti, connessi al culto della dea Reitia e i corredi funerari. Sulla terrazza superiore sono collocati stemmi e statue di epoca rinascimentale e barocca, tra cui una raffigurazione allegorica del Tempo e un putto con in mano un copricapo a forma di triregno.
Inoltre il museo dispone di una biblioteca specialistica, un laboratorio di restauro, una sala conferenze ed ospita regolarmente diverse esposizioni temporanee.

Veneto - Situla Benvenuti



La cosiddetta situla Benvenuti è una situla di bronzo, simbolo dell'arte metallurgica della civiltà atestina fiorita a Este (Padova) nel VII secolo a.C., e conservata nel locale Museo nazionale atestino.
La situla venne ritrovata nel XIX secolo durante la campagna di scavi di una necropoli situata in via Santo Stefano ad Este, nei giardini di Villa Benvenuti. L'oggetto faceva parte degli ornamenti della tomba di una bambina (tomba Benvenuti n° 126).
La situla rappresenta un'importante testimonianza dei contatti dei popoli della pianura padano-veneta con le più avanzate civiltà del Mediterraneo orientale dell'epoca protostorica, tramite un sistema di complesse mediazioni che passavano dagli Etruschi e dalle colonie greche dell'Adriatico e della penisola balcanica.
Si tratta di una situla, o contenitore a secchiello, alta 31,5 cm e con diametro massimo di 25,4 cm. Il coperchio è ancora esistente, mentre la parte inferiore della situla è perduta. Il vaso è realizzato in bronzo con la tecnica a sbalzo.
Il recipiente è decorato nella parte principale da tre fasce con motivi a sbalzo, intervallate da file di borchiette e punzonature. Nei tre registri si trova un repertorio decorativo vario, composto da animali, reali o fantastici, che rivelano influssi orientali.
La prima fascia, più bassa, è decorata con scene rituali: è raffigurata una sfilata di guerrieri, probabilmente di ritorno da una grande vittoria in quanto sono presenti anche dei prigionieri in maniera evidente;
La seconda fascia, centrale, presenta scene forse a carattere mitologico, con animali reali o immaginari;
La terza fascia, più alta, narra la vita quotidiana di vari personaggi, tra cui alcuni commercianti e due pugili in lotta, la vita rurale e la guerra, che forniscono preziosissime indicazioni sui costumi di questa popolazione.


Calabria - Museo archeologico di Metauros

 

Il museo archeologico di Metauros o museo Metauros è un museo archeologico situato a Gioia Tauro, in Italia. Il museo illustra la storia di Metauros, un centro fondato dagli abitanti di Zancle (odierna Messina) in collaborazione con Reggio, per motivi espansionistico-commerciali e passato sotto l'influenza della colonia di Locri nel VI secolo a.C.
Il museo Metauros e il Metropolitan Museum of Art di New York custodiscono numerosi reperti provenienti da Metauros, tra cui terrecotte architettoniche e altri oggetti di valore storico e artistico. Gran parte di questi reperti sono stati portati dagli emigranti calabresi nel tardo XIX secolo, che avevano l'opportunità di esportare e vendere i reperti archeologici scoperti nelle loro terre d'origine.
Il percorso museale propone in prevalenza materiali provenienti dall'area della necropoli scavata nel secolo scorso. Tra i manufatti esposti vi sono aryballoi, alabastra di produzione insulare, vasellame attico a vernice e figure nere,
nonché anfore da trasporto di tipo SOS. La collezione documenta anche significative testimonianze di presenze indigene del VII secolo a.C.
Uno spazio è dedicato ai rinvenimenti funerari di età romana (II-III secolo d.C.), quando la città è stata nuovamente abitata, dopo l'abbandono durante l'età classica ed ellenistica. Tra il vasellame esposto si distinguono raffinati vasi in vetro decorati con motivi applicati, probabilmente importati dall'area mediterranea, a conferma della vocazione commerciale di Metauros anche in età romana.
L'età medievale è testimoniata da materiali ceramici provenienti da un'area di butto localizzata tra i resti della cosiddetta torre quadrata "normanna" e le mura di cinta, nella parte più settentrionale del Piano delle Fosse. Sono documentati anche vasellame databile tra il XIII secolo e l'età rinascimentale.

Nelle foto, dall'alto:
- corredo funerario Petrelli: anfora calcidese a figure nere (seconda metà del VI sec. a.C.) e modellino di carro in bronzo (VI sec. a.C.) (l'anfora ha su entrambe i lati un auriga alla guida di un carro trainato da cavalli; il secondo è un giocattolo di pregio costituito da un abitacolo con ruote a quattro raggi in amina di bronzo, stanga ed asse per il fissaggio delle ruote in ferro)
- cratere di produzione calcidese a figure nere (la fascia decorativa è ispirata ai cortei dionisiaci)
- balsamario del III sec. a.C. (vetro soffiato incolore con iridescenze argentee e un raffinato decoro a motivi fitomorfi)



Emilia Romagna - Sezione dell'Antico Egitto del Museo archeologico nazionale di Parma (Egitto)

 


Il Museo archeologico nazionale di Parma è situato in piazza della Pilotta a Parma, nell'ala sud-occidentale del palazzo della Pilotta; fondato nel 1760, è uno dei primi musei archeologici sorti nel territorio italiano.
La sezione dell'Antico Egitto, esposta in gran parte nelle sale egizie, riunisce materiali raccolti nel museo prevalentemente durante il governo di Maria Luigia, a partire dalla donazione, nel 1826, di alcuni oggetti da parte del pittore Giuseppe Molteni, cui seguì, due anni dopo, l'acquisto di alcuni scarabei da Pietro Gennari. Nel 1830 il direttore Michele Lopez, su finanziamento della Duchessa, comprò dal viaggiatore Francesco Castiglioni 44 oggetti, tra cui il sarcofago del sacerdote Shepsesptah, creando così la sezione aggiunta di Antichità Egiziane del Ducale Museo di Antichità. La collezione si arricchì due anni dopo di altri reperti, acquistati ancora da Castiglioni e da Giuseppe Scaglioni. Nel 1845 Lopez comprò, grazie a nuove sovvenzioni di Maria Luigia, un altro consistente gruppo di manufatti dal mercante Claude Marguier. Dopo la morte della Duchessa, il museo non acquistò più oggetti d'arte egizia, ma grazie ad alcune donazioni la collezione si accrebbe ancora; il reperto più importante, la mummia con sarcofago del dignitario tolemaico Osoreris, fu regalato nel 1885 al direttore Giovanni Mariotti dal deputato Pietro Delvecchio. Infine nel 2009 pervennero al museo i 429 scarabei della collezione Magnarini, ceduti in comodato dalla Fondazione Cariparma alla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le Province di Parma e Piacenza. La collezione risulta così costituita da circa 200 reperti, comprendenti i sarcofaghi del sacerdote Shepsesptah, del dignitario Mesehiu e del dignitario Osoreris, parti consistenti dei papiri geroglifici funerari del dignitario Amenothes (nella foto) e del dignitario Harimuthes, un frammento di rilievo calcareo di Amenemone, una mummia di gatto, numerosi vasi canopi, vari ushabti e alcuni bronzetti, cui si aggiungono le centinaia di scarabei della collezione Magnarini.
Le due sale, restaurate sul modello delle antiche tombe egizie, sono coperte da volte a botte dal colore blu come il cielo notturno e sono raggiungibili attraverso un basso corridoio, simile alla necropoli di Tebe; i due ambienti espongono, all'interno di una serie di vetrine e di nicchie parietali, i principali reperti della collezione, a partire dai disegni dipinti ad acquerello e dagli scritti, donati da Maria Luigia, del resoconto della spedizione effettuata nel 1828 dall'egittologo Ippolito Rosellini con l'archeologo Jean François Champollion.
Elemento di spicco della sezione, grazie alle condizioni ottimali di conservazione, è il sarcofago di Shepsesptah (nella foto), risalente alla XXVI dinastia; il manufatto ligneo finemente scolpito mantiene intatto il rivestimento a foglia d'oro sul volto, le pitture sul petto, raffiguranti una grande collana e, poco più in basso, la dea Nut con le ali spiegate, e le colonne di geroglifici del Libro dei morti sulla parte inferiore.
Degna di nota, in quanto considerata per varietà e ampiezza una delle più importanti in Europa, è anche la collezione Magnarini, creata da Franco Magnarini a partire da un primo nucleo di circa 60 esemplari e dichiarata nel 2000 d'"eccezionale interesse artistico" dal Ministero per i beni e le attività culturali; essa include 429 scarabei sigillo, 80 dei quali reali, ossia incisi col sigillo dei faraoni; gli oggetti, realizzati in steatite, lapislazzulo, corniola e pasta colorata e invetriata, risalgono a epoche diverse, comprese all'incirca tra il 2100 a.C. e il 525 a.C., e si aggiungono ai 20 esemplari già appartenenti al museo, di cui 2 reali e 7 del cuore, ossia utilizzati nelle sepolture.


Emilia Romagna - Bologna, Teatro romano

 

Il Teatro Romano di Bologna era il primo teatro romano in muratura, costruito a Bologna nel I secolo a.C. di cui oggi restano alcune rovine.
La costruzione risale a circa l'80 a.C e fa parte di un insieme di opere pubbliche che vennero eseguite in occasione del passaggio da colonia romana al rango di municipium, passaggio che consentì agli abitanti di Bononia di ottenere la cittadinanza romana.
L'emiciclo aveva un raggio di circa 75m, con una apertura verso Nord, seguendo le prescrizioni di Vitruvio. È il primo teatro romano in muratura, fino a quell'epoca i teatri erano costruiti con strutture lignee. A Roma il primo teatro in muratura (theatrum marmoreum) venne costruito alcuni anni più tardi, attorno al 65 a.C. da Gneo Pompeo Magno nel Campo Marzio.
Un primo rinnovamento venne eseguito in epoca Augustea, con la costruzione di alcune colonne (corrispondenti all'attuale Piazza De' Celestini). Ma i lavori più grandi vennero eseguiti durante il regno di Nerone, che inviò numerosi finanziamenti alla città per favorire la ricostruzione dopo un incendio che avvenne nel 53 d. C.
Venne ampliata la cavea ad un diametro di 93m e venne costruito un nuovo prospetto esterno, costituito da arcate duplici alte circa 11m. È risalente a questo periodo la statua di Nerone trovata durante gli scavi ed esposta al Museo Civico di Bologna. La testa della statua venne staccata, in seguito alla morte dell'imperatore (Damnatio memoriae) e venne ritrovata già nel XVI secolo.
Il teatro, trovandosi sotto edifici privati ancora in uso, è chiuso al pubblico e generalmente non accessibile.
Il teatro venne scoperto per caso quando nel 1977 iniziarono i lavori di ristrutturazione in un edificio privato, in via de'Carbonesi, destinato ad un uso commerciale e residenziale. Durante l'esecuzione dei lavori emersero i resti del teatro, di cui si supponeva l'esistenza senza aver certezze, sulla base di alcune tracce storiche e scarsi indizi.
I primi rinvenimenti risalgono al 1978, quando le opere di scavo per la bonifica dei sotterranei e l'abbassamento dei vecchi scantinati portarono a ritrovare un pezzo di strada romana acciottolata e una pavimentazione di laterizi, non riconducibili all'edificio teatrale. I lavori proseguirono e la rimozione degli intonaci svelò alcuni tratti di strutture murarie di origine antiche e di una estensione tale da richiedere l'intervento di archeologi. Gli scavi proseguirono dal 1982 al 1984 (ulteriori verifiche vennero compiute nel 1989). L'esplorazione era molto difficoltosa in quanto si doveva operare su un cantiere sotterraneo di circa 1500mq, interrotto dai muri di stretti cantinati e attraversato da fogne e condutture idriche.
I ruderi si presentavano distrutti fino al livello delle fondazioni e in pessimo stato di conservazione. I rilievi planimetrici permisero di individuare i resti di un sistema di murature di sostegno a raggiera, chiaramente riferibile ad un emiciclo destinato ad accogliere gli spettatori (cavea) in un complesso teatrale romano. I rilievi permisero anche di definire l'area in cui il complesso si trovava, allargandola ad un intero isolato compreso tra le via de' Carbonesi, d'Azeglio e Val d'Aposa.
La fortunata apertura di altri cantieri in zona permise di allargare gli scavi, ritrovando resti della costruzione anche nelle cantine di altri edifici.

Lombardia - Mantova, Raccolta egizia Giuseppe Acerbi (Egitto)

 

La raccolta egizia Giuseppe Acerbi è una raccolta di antichità egizie ospitata al MACA - Mantova Collezioni Antiche di Mantova. Si compone di circa 500 pezzi raccolti da Giuseppe Acerbi (1773-1846), esploratore ed egittologo, dal 1826 al 1834 console generale d'Austria in Egitto, che nel 1840 donò alla città di Mantova, atto confermato dal nipote erede Agostino Zanelli.
I vari reperti provenienti dall'Egitto, hanno un notevole valore didattico e documentale. Tra questi:
la Testa bronzea della regina Arsinoe, sposa di Tolomeo IV; un Gatto di bronzo; il Cane Anubi, statua lignea.
In una sala è esposto il Ritratto di Giuseppe Acerbi, dipinto ad olio di Luigi Basiletti del 1826.

Lombardia - Milano, situla di Gotofredo

 

La situla di Gotofredo è un vaso liturgico commissionato da Gotofredo, arcivescovo di Milano, e oggi conservato nel Museo del Tesoro del Duomo di Milano.
Gotofredo la commissionò per l'incoronazione di Ottone II nel 979; in seguito non fu donata alla basilica di Sant'Ambrogio di Milano, come già ritenuto, ma rimase nel Duomo di Milano, dove è già attestata in tempi antichi. L'opera fu realizzata in avorio, mediante intaglio, negli anni Settanta del X secolo.
Un elegante fregio d'acanto corre nel bordo superiore sotto a un'iscrizione, mentre nel bordo inferiore trova posto un motivo a chiave greca. Fra queste due fasce, entro quattro arcate, le figure degli Evangelisti con i loro relativi simboli (tetramorfo) convergono verso la quinta arcata, che ospita la Vergine che tiene in braccio il Bambino, affiancata da due angeli che reggono rispettivamente una situla e un turibolo.
I volumi delle figure, solidi e ben torniti, emergono dallo spazio delle arcate. La composizione è ordinata e gli spazi sono suddivisi in egual misura, separati da colonne con capitelli. Fra gli archi si nota un'architettura che richiama delle torri: si ipotizza siano le porte della Gerusalemme Celeste.
Gli Evangelisti sono molto simili fra loro nell'aspetto, nei gesti e nei volti con la barba appuntita. Questa omogeneità rivela che l'artefice volle imitare la maniera antica, ma riprendendo anche i modelli carolingi.