giovedì 26 giugno 2025

VENETO - Teatro romano di Verona

 

Il teatro romano di Verona è un teatro all'aperto costruito nel I secolo a.C. ai piedi del Colle San Pietro, sulla riva sinistra dell'Adige. Si tratta di uno dei teatri meglio conservati dell'Italia settentrionale, tanto da essere parte del percorso espositivo dell'omonimo museo archeologico cittadino, oltre che spazio teatrale e sede, durante i mesi estivi, dell'estate teatrale veronese, le cui edizioni si svolgono ininterrottamente sin dal 1948.
Con la fase che vide l'urbanizzazione della Verona romana all'interno dell'ansa dell'Adige si liberarono nuovi spazi su Colle San Pietro, luogo dove sorgeva l'abitato protostorico veneto. Un piano di monumentalizzazione riguardò quindi le pendici meridionali del colle di cui fece parte anche la costruzione del teatro, realizzato negli ultimi anni del I secolo a.C. Questo luogo infatti aveva evidenti vantaggi dal punto di vista della conformazione del terreno e del valore di scenograficità che aveva assunto rispetto alla città di nuova fondazione, diventando quindi luogo ideale per realizzare una grande scena urbana su più livelli, che partendo dall'edificio teatrale sulla sponda del fiume potesse chiudersi in cima alla collina tramite un tempio romano.
Prima della sua costruzione fu tuttavia necessario realizzare dei muraglioni d'argine tra i ponti Pietra ed il Postumio paralleli al teatro stesso, in modo da difenderlo da eventuali piene del fiume. La realizzazione degli argini in pietra fu utile anche per ricavarsi valida base alle fondazioni del teatro ed evitare futuri smottamenti, oltre che a farvi passare la strada di raccordo tra i due ponti. Tra i lavori preliminari alla costruzione dell'edificio vi fu anche lo scavo di una profonda intercapedine attorno a quella che sarebbe diventata la cavea del teatro, in modo da isolarla rispetto alla collina e convogliare in essa l'acqua piovana, che veniva convogliata verso il fiume tramite canalizzazioni sotterranee.
La costruzione del teatro romano proseguì per alcuni decenni vista la mole e grandiosità dell'edificio, di cui rimangono purtroppo pochi resti archeologici. Alcune ipotesi di come doveva essere sono state tuttavia riportate in alcuni disegni e schizzi da Giovanni Caroto e Andrea Palladio già nel Cinquecento, anche se con alcune imprecisioni. L'ultima fase di lavori riguardò invece la costruzione delle terrazze soprastanti il teatro, facenti parte del progetto unitario di sistemazione monumentale del Colle San Pietro, e dell'edificio monumentale in cima alla collina (molto probabilmente un tempio), di cui si sono trovate diverse tracce durante i lavori di ristrutturazione di Castel San Pietro nell'Ottocento.
Durante il Medioevo l'edificio andò in disuso e quindi in rovina, tanto che sui suoi resti sorse un intero quartiere che sfruttava la struttura del teatro stesso. Le abitazioni infatti sorgevano direttamente sulle sostruzioni romane e alcuni antichi ingressi e scale del teatro venivano ancora utilizzati per l'accesso al quartiere, mentre la cavea veniva coltivata sfruttando il pendio seminaturale.
Gli scavi archeologici e la sua restituzione avvenne solo nell'Ottocento grazie all'opera di Andrea Monga, un facoltoso commerciante che si dilettava d'archeologia. Egli acquistò tutta l'area su cui insisteva l'antico edificio e tra il 1834 e il 1844 diresse gli scavi archeologici del sito: tra gli interventi eseguiti vi fu la demolizione di una trentina di case che sorgevano sopra i resti del teatro romano, gli scavi delle terrazze con la conseguente scoperta della profonda intercapedine per lo scolo delle acque, il rinvenimento dei resti dell'ambulacro all'interno del convento, riportò alla luce i due scaloni laterali e parte della cavea, ritrovò le strutture dell'odeon.
Nel 1904 l'area venne infine comprata dall'amministrazione comunale, che proseguì i lavori di scavo archeologico fino al 1914 grazie all'apporto di Ricci e Ghirardini, che restituirono l'intera cavea. Una volta restaurata la gradinata vennero ricomposte anche le dieci arcate della loggia di chiusura della cavea, oltre ad un arco di ordine ionico. Sotto la direzione di Antonio Avena vi fu il trasferimento del museo archeologico all'interno del complesso monumentale, mentre negli anni trenta venne scavata la fossa scenica e furono demoliti altri edifici ancora esistenti. Infine, tra il 1970 e il 1971, si svolsero gli ultimi lavori, che coinvolsero la fossa scenica nella sua parte orientale, con la relativa scoperta di una galleria sotto al proscenio.
Il prospetto esterno, che si mostrava alla città romana da poco sorta sull'altra sponda del fiume, possedeva un aspetto unitario, scandito da semicolonne che cambiavano ordine architettonico ad ogni piano: al piano terreno ordine tuscanico, al secondo livello l'ordine ionico e infine all'ultimo piano, posto sullo stesso livello delle gallerie che chiudevano la cavea, si trovavano dei semipilastri con capitelli riccamente decorati, che reggevano la trabeazione che chiudeva la facciata. L'intercolumnio era invece caratterizzato da pareti chiuse lisce o da aperture ad arco.
Il teatro veniva raccordato tramite due facciate monumentali laterali al colle, che dovevano presentarsi non molto dissimili dal prospetto principale posto verso l'Adige.
L'edificio scenico del teatro, che sorgeva 10 metri più a nord del muraglione d'argine, era lungo 71 metri e venne realizzato in opera quadrata. Esso si componeva di due parasceni laterali, di un muro rettilineo postscenio, e di un frontescena che si articolava in tre grandi nicchie, di cui una principale curva e due laterali quadrate. Le tre grandi nicchie inquadravano le tre porte di accesso al palcoscenico. Gli spazi dei parasceni e quelli compresi tra postscenio e frontescena erano dotati di diversi locali adibiti a servizi e a depositi. Purtroppo tutte queste strutture si sono conservate solo per un'altezza moderata, tuttavia in epoca romana la loro altezza raggiungeva quella della sommità della cavea. Davanti alla scena è presente il proscenio, limitato dal pulpito, dietro al quale si trovava il sipario.
La cavea ha una larghezza di 105 metri ed è adagiata per buona parte su Colle San Pietro: solamente nelle parti laterali, infatti, erano sorti muri radiali realizzati con la tecnica dell'opus caementicium. Per eliminare il pericolo di infiltrazione di acqua piovana venne scavata una profonda intercapedine tagliata nella roccia che corre lungo tutto il perimetro della cavea. Le gradinate erano divise in due settori orizzontali mediante parapetti, che a loro volta erano ulteriormente divisi dalle scalinate. Altre due scalinate che partivano dal piano terreno e i relativi vomitoria permettevano l'accesso alle gradinate direttamente dall'alto. La cavea era conclusa da due gallerie sovrapposte, parzialmente tagliate nella roccia, di cui rimangono pochi resti.
Sopra la cavea e le gallerie sovrapposte sommitali si sviluppavano tre scenografiche terrazze, poste su tre diversi livelli e larghe 123 metri, mentre la profondità variava dai 20 metri della prima, ai 1,50 metri dell'intermedia, ai 7 metri dell'ultima. La prima terrazza è quasi completamente obliterata dal convento che ospita il museo archeologico, anche se ad un'estremità si conservano i resti di un ninfeo. La terrazza intermedia è invece composta da cinque nicchie decorate da semicolonne e finestre; di queste nicchie le quattro laterali sono semicircolari mentre quella centrale, perfettamente in asse con il teatro, è a pianta rettangolare. Infine l'ultima terrazza è caratterizzata da un'unica nicchia ai cui lati si dipanano una serie di semicolonne tuscaniche che sorreggono fregio e architravi dorici.
Questa serie di terrazze si concludevano in una spianata che oggi ospita Castel San Pietro ma che in età classica presentava un tempio romano le cui tracce si rinvennero durante i lavori di costruzione del castello appena citato.


VENETO - Via Annia


La via Annia era una strada romana lungo la costa Veneta (all'epoca più arretrata rispetto alla linea costiera attuale) della quale rimangono solo alcuni resti. Collegava Hatria (moderna Adria), dove si riuniva con la Via Popilia e divenendo Via Popilia-Annia, a Patavium (Padova), Altinum (Altino), Iulia Concordia (moderna Concordia Sagittaria, dove incrociava la via Postumia) e infine ad Aquileia. Nei pressi di Mestre la via si avvicinava alla costa, mentre tra Altino e Concordia utilizzava il sistema viario preesistente.
La strada venne costruita nel 131 a.C. dal pretore Tito Annio Rufo. Il suo declino avvenne durante la tarda antichità, sia a causa delle variazioni del territorio (in particolare della laguna) sia a causa dello spopolamento conseguente alle invasioni barbariche. Con la decadenza della strada tra Altino e Concordia non ci fu più un collegamento diretto. Sarà necessario aspettare al costruzione della Strada Statale per ripristinare tratti della via.
Della via sono rimasti quattro miliari, i resti di due stazioni di cambio (a Sambruson di Dolo e a Marghera) e di un ponte (presso Ceggia), oltre a vari resti (come nei pressi di San Donà di Piave). Al museo archeologico di Padova è stato ricostruito il tracciato della via sia dentro la città romana che nei dintorni; nell'area archeologica di Concordia sono conservate consistenti tracce di strada e vari reperti.
Molto probabilmente derivano dal nome della via alcuni toponimi oggi in uso, come Agna e Lugugnana.


VENETO - Porta Borsari, Verona

 

Porta Borsari, in antichità conosciuta col nome di porta Iovia per la presenza del vicino tempio dedicato a Giove Lustrale, è una delle porte che si aprivano lungo le mura romane di Verona. La costruzione della struttura risale alla seconda metà del I secolo a.C.; tuttavia la parte rimasta integra risale alla prima metà del I secolo. Porta Borsari costituiva il principale ingresso della città romana, immettendo l'importante via Postumia sul decumano massimo.
Porta Borsari venne costruita contemporaneamente alla cinta muraria romana e a porta Leoni intorno alla seconda metà del I secolo a.C., a seguito della definitiva romanizzazione della Gallia Transpadana avvenuta nella primavera del 49 a.C. e al conseguente spostamento dell'abitato di Verona entro l'ansa del fiume Adige. La costruzione, analogamente a porta Leoni, era a pianta quadrata con corte centrale, luogo in cui venivano fermati e controllati i viandanti, e verso l'agro era racchiusa tra due alte torri. Questo divenne l'ingresso principale della città essendo posto lungo il decumano massimo, prosecuzione della via Postumia, ma l'importanza della porta la si può dedurre anche dal nome che aveva la costruzione in antichità, ovvero porta Iovia: come il tempio di Giove Lustrale che sorgeva nelle immediate vicinanze, essa era dedicata a Giove, la principale divinità del pantheon romano. Durante la prima metà del I secolo la porta, che era stata costruita completamente in laterizio, venne ricompresa nell'opera di monumentalizzazione cui venne sottoposta l'importante città veneta: l'intervento previde la giustapposizione di nuove facciate lapidee sul prospetto lato Foro e lato campagna.
Vista l'importanza della struttura, principale via d'accesso alla città, nelle vicinanze era presente in epoca romana una stazione di posta in cui operavano i mancipes, che erano coloro che avevano ricevuto in appalto il servizio postale e dei trasporti riservato alle necessità della pubblica amministrazione, e iumentarii, un'associazione professionale che si occupava degli animali e della pulizia delle stalle. La funzione primaria di accesso all'abitato rimase anche in età medievale, quando la denominazione della porta cambiò in Borsari, prendendo il nome dai bursarii che in quell'epoca riscuotevano i dazi delle merci in entrata e in uscita. Con la costruzione delle cinte murarie comunali e scaligere perse quindi funzionalmente di importanza, tuttavia a partire dall'età rinascimentale divenne oggetto di studio e osservazioni da parte di autori quali Giovanni Caroto e Andrea Palladio, anche se da altri venne invece criticata. Sebastiano Serlio, per esempio, non la giudicò degna di essere riprodotta nella sua opera.
Nel corso dei secoli la porta ha subito diverse mutilazioni e ad oggi è sopravvissuta solo la facciata ad agro di età imperiale, che ha subito importanti interventi di restauro negli anni settanta e ottanta del XX secolo: in particolare vennero fissato gli elementi più danneggiati tramite stuccature in resine epossidiche o tondini d'ottone inseriti nella pietra, e ricoperte le superfici esposte con lastre di piombo, per evitare pericolosi ristagni d'acqua.
Della porta Iovia è scomparso completamente il fronte verso città e si conserva solo quello di età imperiale verso l'agro, che ha preso l'attuale denominazione di Borsari. La struttura difensiva è alta e larga circa 13 metri, mentre lo spessore della muratura è di 93 cm al terreno e 50 cm in cima.
La facciata, realizzata in pietra bianca della Valpantena, presenta al piano inferiore due fornici impostati su un alto zoccolo, oggi interrato. I fornici sono entrambi inquadrati in edicole composte da due semicolonne con capitello corinzio sorreggenti trabeazione e frontone, secondo un partito architettonico frequente dall'età augustea. Al di sopra si sviluppano altri due piani, ciascuno con sei finestre incorniciate da una fine decorazione: nel primo piano, le due finestre centrali sono caratterizzate da piccole edicole e sono riunite in un avancorpo cui ne fanno da contrappunto altri due alle estremità del piano, anche queste entro edicole; nel secondo livello, le finestre sono invece comprese tra colonnine coronate da una trabeazione articolata in corpi rientranti e sporgenti, disposti alternativamente rispetto all'andamento dell'ordine sottostante. Il lato verso la città della porta, invece, è priva di decorazioni in quanto originariamente questa parte si saldava alla preesistente porta in laterizio di epoca tardo repubblicana, analogamente a quello che si può ancora vedere a porta Leoni.
I singoli piani divenivano parte di una composizione unitaria tramite la notevole ricchezza ornamentale e il gusto coloristico assai marcato, che erano caratteri distintivi della facciata, come era necessario per la funzione di rappresentanza che aveva il principale ingresso a Verona romana.


VENETO - Leone del Pireo, Venezia

 


Il Leone del Pireo è una delle quattro statue di leoni presenti all'esterno dell'Arsenale di Venezia.
La statua originariamente si trovava al Pireo, l'antico porto di Atene. Fu portata a Venezia come bottino, dal comandante navale Francesco Morosini nel 1687, durante le guerre della Lega Santa contro l'Impero ottomano, quando i veneziani assediarono Atene. Copie della statua si trovano al Museo Archeologico del Pireo e al Museo Storico di Stoccolma.
Il leone era un monumento molto noto del Pireo, dove si trovava dal I o II secolo. La sua notorietà era tale che gli italiani chiamavano il porto Porto Leone.
L'animale è seduto, ha la gola cava e aveva sul retro il segno (ora scomparso) di un tubo. Ciò fa pensare a un suo precedente utilizzo come fontana.
La statua, di marmo bianco, alta circa 3 metri, è particolarmente conosciuta per essere stata oggetto di una singolare manomissione avvenuta intorno alla seconda metà dell'XI secolo, a opera di alcuni scandinavi che incisero due lunghe iscrizioni runiche sulle spalle e sui fianchi del leone. Le rune sono incise seguendo la forma di un elaborato lindworm (dragone), motivo ricorrente in altre pietre runiche che si trovano in Scandinavia.
Gli incisori erano quasi certamente Variaghi, mercenari scandinavi al servizio dell'Impero bizantino che erano stati inviati in Grecia a reprimere una rivolta della popolazione locale. Qualche anno fa una copia di questo leone è stata ricollocata nella posizione che occupava nel porto del Pireo.
Le iscrizioni non vennero identificate come rune sino alla fine del XVIII secolo quando furono notate dal diplomatico svedese Johan David Åkerblad. Furono trascritte e tradotte per la prima volta nella metà del XIX secolo da Carl Christian Rafn, segretario della Kongelige Nordiske Oldskrift-Selskab (Società Reale degli Antiquari Nordici). Le iscrizioni sono state erose dalle intemperie e dall'inquinamento atmosferico, che hanno reso difficilmente leggibili alcuni dei suoi caratteri. Le lacune nel testo sono state pertanto colmate dagli interpreti mediante ipotesi e inferenze sul loro significato, basandosi su ciò che è rimasto leggibile.
Lato destro del leone:
Asmund incise queste rune con Asgeir e Thorleif, Thord e Ivar, su richiesta di Harold l'Alto, nonostante i greci riflettendoci lo vietino.
Lato sinistro del leone:
Hakon con Ulf e Asmund e Örn conquistarono questo porto. Questi uomini e Harold l'Alto imposero una forte tassa a causa della rivolta dei greci. Dalk è tenuto prigioniero in terre lontane. Egil è andato in missione con Ragnar in Romania e in Armenia.
Alcuni hanno tentato di collegare il nome Harald, citato nelle iscrizioni, con il sovrano Harald III di Norvegia, ma il periodo in cui esso fu inciso non coincide con quello in cui fu al servizio dell'Imperatore di Bisanzio.

VENETO - Criptoportico romano di Vicenza

 

Il criptoportico romano di Vicenza è un criptoportico della antica Vicetia (odierna Vicenza), risalente alla fine del I secolo a.C. Al criptoportico, perfettamente conservato, si accede dall'ingresso posto nell'attuale Piazza Duomo e si estende sotto alla canonica della cattedrale e a palazzo Roma.
Il criptoportico rimase in uso almeno fino al IV secolo, dapprima come luogo per rinfrescarsi, poi come dispensa di generi alimentari.
È l'esempio meglio conservato di criptoportico romano di abitazione privata situato a nord del Po.
Il criptoportico apparteneva a una domus romana, non conservata (ma viste le dimensioni del criptoportico certamente ricca), ubicata nel settore di sudovest della città romana. È formato da tre bracci disposti a U . Il piano del pavimento si trova a una profondità di 6,31 m rispetto all'attuale piano della piazza. Il braccio centrale, quello rivolto a ovest e più lungo, misura 29,5 m in lunghezza e 3,28 m in larghezza, mentre quelli laterali misurano entrambi 27,35 m in lunghezza e 2,98 m in larghezza. I bracci sono a singola navata e coperti con volta a botte realizzata in opus caementicium. L'altezza del criptoportico è pari a circa 2,75 m e lo spessore della volta e delle pareti è circa 1 m.
Il criptoportico riceveva luce da 31 piccole finestrelle a bocca di lupo collocate nella parte alta dei lati interni, molto probabilmente in corrispondenza del giardino del peristilio soprastante. Vi si accedeva tramite una stretta scala, in parte corrispondente a quella tuttora in uso, che immetteva nel braccio settentrionale. Gli ultimi 4 scalini in pietra sono originali; per gli altri è stata ricostruita la struttura in laterizio sfruttando la pendenza indicata dalle campiture nell'affrescatura che si trova sulla parete alla sinistra di chi scende.


Alle due estremità del braccio centrale sono presenti in posizione simmetrica due vani, che avevano funzioni differenti. Quello settentrionale, detto normalmente vano A, doveva essere adibito all'immagazzinamento di materiali; nelle tre pareti infatti è presente una doppia fila di fori di incasso per il posizionamento di travi destinate a sostenere ripiani lignei che correvano tutt'attorno alla stanza. L'accesso a questo ambiente è delimitato da una soglia di ingresso in pietra alta circa mezzo metro, probabilmente in funzione di protezione dalle alluvioni. Nella stessa soglia e nell'architrave superiore sono ricavati gli smussi di battuta per la porta di chiusura, che quindi era in grado di sigillare l'ambiente. Tutti questi accorgimenti indicano che questo vano era destinato ad accogliere materiali o oggetti che si voleva assolutamente proteggere dall'acqua. Considerando le dimensioni dei fori sui muri, le travi che vi si dovevano incastrare dovevano essere molto robuste, destinate quindi a sostenere pesi piuttosto elevati, ma generati da materiali non molto ingombranti, in quanto la distanza tra le due file di fori è di circa mezzo metro. In questa stanza sono alloggiati frammenti di colonne e una vasca in pietra per l'acqua, databile al periodo tardo-antico, dopo la fine dell'impero romano.


Al vano meridionale B si accede attraverso una soglia poco elevata, destinata quindi solo a isolare l'ambiente dall'eventuale pioggia che potesse bagnare il pavimento del corridoio. In questa stanza non sono presenti fori sui muri che indichino la presenza di mensole. Da qui si accede a una seconda stanzetta C aperta verso una rampa larga 1,8 m, solo parzialmente indagata. In queste due stanze sono stati posizionati due lacerti delle pavimentazioni ritrovate durante i lavori di scavo.
La pavimentazione originaria era costituita da un mosaico di esagonette in laterizio, alternate a componenti romboidali. Lo spessore, la finitura irregolare e le differenze tra i vari pezzi indicano che le esagonette erano ricavate a mano dallo stampo di mattone prima della cottura. In una piccola incisione al centro di ogni esagonetta è stata posta una tessera di pietra bianca. La pavimentazione originaria fu poi ricoperta da un mosaico a tessere bianche intervallate da rade tessere nere. Questo secondo pavimento è stato posato sopra al precedente innalzando la quota del piano di calpestio (la prima stesura si trovava a -2,75 m dall'intradosso della volta, la seconda a -2,70 m). In uno dei vani è presente parte di una terza pavimentazione in posizione rialzata, posta alla quota di -2,30 m dall'intradosso, e costituita da più grandi mattoni sesquipedali, cioè della lunghezza di un piede e mezzo, vale a dire all'incirca mezzo metro di lato. Non è chiarito l'utilizzo di questa struttura, che si è ipotizzata utilizzata per lavori di officina o laboratorio.
La pavimentazione attuale è moderna ed è posta a 0,15 m sopra la pavimentazione antica. L'innalzamento è dovuto alla necessità di prevedere lateralmente uno scolo alle infiltrazioni di acqua piovana, dal momento che il pavimento si trova circa 6 metri al disotto dell'attuale piano stradale ed è anche situato al di sotto della falda freatica della città, con conseguenti problemi di percolazioni in caso di violenti temporali. La scelta delle piastrelle è stata fatta in modo da riprodurre l'aspetto della pavimentazione originaria.


Le pareti presentano un'intonacatura a marmorino chiaro sovrapposta ad uno strato di intonaco più grossolano. Nella parte superiore, al limite dell'intradosso della volta, l'intonaco è delimitato da una fascia in rosso pompeiano larga circa tre dita, a cui è sovrapposta una cornicetta in stucco dalla forma di scala rovesciata con tre gradini aggettanti. L'insieme indica chiaramente che si trattava di un ambiente molto curato e che quindi doveva essere utilizzato dalla famiglia per attività di vita domestica. L'uso del criptoportico quindi, almeno per una parte della sua vita, non fu limitato a quello di ripostiglio.
Nei più frequenti esempi di criptoportici romani presenti nell'Italia meridionale, dove il clima è decisamente più caldo, questi spazi offrivano refrigerio d'estate in quanto ambienti a temperatura più gradevole. Nel caso vicentino il problema del caldo estivo era meno impellente, ma in compenso questo spazio poteva offrire riparo anche durante l'inverno quando la temperatura al suo interno era più mite che nelle stanze non riscaldate della domus al piano superiore.
Al termine del braccio meridionale è presente la canna di un pozzo in laterizio, certamente non parte dell'originaria struttura romana e di probabile origine medioevale, che sbocca nel cortile del soprastante palazzo Roma. Il pozzo fu probabilmente costruito per attingere all'acqua che si trovava nell'ambiente sottostante. Nel corso dei lavori di restauro successivi alla scoperta del 1954, fu ricavata un'apertura nella parete del pozzo dotandola di grata di protezione. Con questo accorgimento si è instaurato un flusso d'aria che si incanala poi verso il cancello posto all'ingresso, favorendo così l'aereazione dell'ambiente sotterraneo e contribuendo a ridurre la formazione di muffa.
Il criptoportico fu rinvenuto all'inizio dell'estate del 1954 nel corso dei lavori per la realizzazione della canonica della cattedrale di Vicenza lungo il lato meridionale di Piazza Duomo.
Per ricavare le cantine della canonica, i lavori prevedevano lo scavo fino alla profondità di 3,20 m. Arrivati però alla quota di 3 metri, gli operai si imbatterono in una struttura compatta molto più dura della terra e ghiaia circostante, probabilmente un frammento di pavimento. Nel delimitare la struttura ci si accorse che al di sotto essa appariva vuota. Con l'aiuto di una torcia apparve quello che sembrava una canaletta, poco profonda e non molto lunga. I lavori di pulizia e consolidamento subito programmati, rivelarono invece che si trattava di una struttura molto più complessa.
Gli esperti della Soprintendenza archeologica, subito interpellati, intuirono che potesse trattarsi di un criptoportico di epoca romana. Furono pertanto predisposti i lavori di pulizia, restauro, illuminazione e messa in sicurezza che si protrassero per tre anni. Nel 1957, dopo la posa del pavimento in piastrelle, il criptoportico fu finalmente aperto al pubblico.
I reperti qui rinvenuti durante lo scavo del 1954 sono conservati presso il Museo naturalistico archeologico di Santa Corona. In particolare, si rinvennero antefisse in terracotta, vasetti, lucerne, un mattone ellittico con bollo T. Delli Sereni, un'applique di bronzo raffigurante una divinità marina, elementi in marmo fra cui quelli di un tavolo. Nel giardino del vicino palazzo vescovile fu rinvenuto un capitello ionico probabilmente relativo al peristilio soprastante il criptoportico.


VENETO - Museo naturalistico archeologico di Santa Corona, Vicenza

 

Il Museo naturalistico archeologico di Santa Corona a Vicenza, inaugurato nel 1991, ha sede nei locali e chiostri dell'ex convento dei Domenicani adiacente alla chiesa di Santa Corona, in pieno centro storico.
La parte naturalistica si trova al primo piano e ospita numerosi fossili, pesci e animali impagliati del territorio della Provincia di Vicenza, con piantine e riproduzioni dell'ambiente geologico, fluviale e territoriale della provincia. La parte archeologica espone teschi e ossa di animali, resti di palafitte trovate nel lago di Fimon e una raccolta di utensili preistorici ritrovati nei resti di insediamenti del Paleolitico e del Neolitico.
Un settore al piano terra è dedicato ai paleoveneti: cortei di uomini e donne, guerrieri e altri ex voto metallici di un santuario di Reitia dei Paleoveneti, ritrovate negli anni 1960 durante gli scavi in piazzetta S. Giacomo a Vicenza. Vi si trova anche una laminetta con l'alfabeto in venetico.
Lungo il portico del cortile interno è collocata la vasta raccolta di lapidi, cippi, pietre miliari, sarcofaghi di pietra e monumenti della Vicetia romana. Molti reperti provengono dalla necropoli posta lungo la via Postumia situata presso la Basilica dei Santi Felice e Fortunato, nel cui cortile si conservano alcuni sepolcri di pietra e nei cui pressi è stato allestito un piccolo Antiquarium. Un tratto di pavimentazione romana è stato ricollocato nel cortile del museo.


All'interno una sala è dedicata ai resti del Berga: vi sono esposte le decorazioni marmoree e statue di Augusto e della dinastia giulio-claudia che ornavano il teatro romano di epoca augustea. Oggi del teatro di Vicenza restano solo le fondazioni, coperte da altri edifici che ne seguono il percorso circolare, come è avvenuto per il teatro romano di Lucca. Tra le collezioni private donate al Museo spicca quella di sculture romane del nobile vicentino e archeologo Girolamo Egidio di Velo (1792-1831), provenienti da uno scambio effettuato con i Musei Vaticani, in seguito agli scavi da lui effettuati nell'800 a Roma, dove rinvenne il grande mosaico con atleti dalle Terme di Caracalla. Si nota un resto di colonna colossale in porfido, resti di statue di divinità fluviali, un torso di satiro in riposo, copia da Prassitele, atleti, una ninfa su roccia di età ellenistica, divinità, oltre a due pregevoli ritratti, di cui una dama attribuibile al periodo antonino, forse Faustina maggiore. Dal 27 novembre 2022 è esposta anche un'antefissa in terracotta di epoca romana, rinvenuta a Vicenza nel 1965, raffigurante la dea Potnia theròn, la signora degli animali. Proseguendo al piano terra vi sono resti di anfore, foto del criptoportico ritrovato in centro città nei pressi dell'attuale Duomo di Vicenza e un mosaico geometrico tardo-antico proveniente da una villa, con cinque tondi frammentari raffiguranti scene di caccia mitologiche, con Meleagro e il cinghiale Calidonio e al centro Bellerofonte a cavallo di Pegaso che uccide la Chimera.
Si passa infine alle sale con i corredi funebri (crocette auree, pettini d'osso, fibbie, spade, armi e accessori) dei Longobardi. È presente la ricostruzione di una sepoltura di età longobarda.
Il sistema museale comunale comprende anche la vicina pinacoteca civica di palazzo Chiericati e il Museo del Risorgimento e della Resistenza a Monte Berico oltre all'adiacente Chiesa di Santa Corona. Il percorso " Vicenza romana", con appositi cartelli, consente di scoprire nel centro storico i resti della città romana, come il criptoportico, le domus sotto la cattedrale e sotto la Basilica, il teatro Berga, ponte Furo, e i resti dell'acquedotto sotto Corso Fogazzaro. Nei pressi della Chiesa di San Lorenzo nel centro di Vicenza è esposto un pezzo di strada romana, perfettamente conservato. Resti di marmi e di cippi usati come pietra miliare in epoca romana sono esposti nel cortile della vicina Ca d'Oro, in Corso Palladio.



VENETO - Museo archeologico nazionale di Venezia

 

Il Museo archeologico nazionale di Venezia è un museo statale dedicato all'archeologia, situato in piazza San Marco, presso le Procuratie Nuove. Ospita una raccolta d'antichità, frutto del collezionismo veneziano, con esempi di sculture greche del V-IV secolo a.C., i Galati Grimani, ritratti di epoca romana, rilievi, iscrizioni, ceramiche, avori, gemme e una raccolta numismatica.
Nel 2013, col circuito museale dei musei di piazza San Marco, è stato il diciannovesimo sito statale italiano più visitato, con 265.034 visitatori. Nel 2015 ha fatto meglio con 298.380 visitatori, migliorando ulteriormente nel 2016 con 344.904 visitatori, risultando il diciottesimo sito statale per numero di visitatori.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale del Veneto, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
Il Museo archeologico nazionale ha avuto origine nel Cinquecento, per le donazioni di famiglie veneziane, acquistando in questo modo carattere collezionistico.
Nel 1523, il cardinale Domenico Grimani (1461-1523) lasciò in eredità alla Repubblica di Venezia un gruppo di sculture antiche provenienti dalla sua collezione privata. La maggior parte di queste opere proveniva da una vigna nei pressi del Quirinale a Roma, dove il cardinale stava edificando la propria residenza.
Il nipote, Giovanni Grimani (1500-1593), a partire dal 1563 si dedicò all'ampliamento e alla decorazione delle sale del palazzo di famiglia a Santa Maria
Formosa, con lo scopo di creare un allestimento scenico per accogliere la propria collezione. Questa fu ospitata al primo piano del palazzo: quasi duecento sculture greche e romane furono ordinatamente collocate nella sala centrale. La raccolta comprendeva sculture provenienti dai possedimenti romani della famiglia, un nucleo di marmi giunto dalla terraferma veneziana e dalla costa istriana e sculture antiche provenienti dalla Grecia. Nel 1587 anche questa raccolta venne donata alla Repubblica di Venezia e il 3 febbraio il collegio dei senatori, d'accordo con Giovanni, stabilì che tutti i marmi Grimani fossero ospitati nell'antisala della Libreria Marciana.
Nel 1593, alla morte di Giovanni Grimani senza che l'allestimento della collezione fosse completato, i senatori della Repubblica incaricarono di curare l'allestimento della collezione Federico Contarini. Questi, contando sul Consiglio dei Dieci e giungendo ad un accordo con alcuni nipoti del patriarca, decise di lasciare nel palazzo Grimani alcune sculture mentre altre vennero trasportate nello "Statuario pubblico". Questo allestimento fu completato nel 1596, grazie anche ad alcune donazioni dello stesso Federico Contarini.
Altre donazioni di opere si ebbero nel 1683 (medagliere di Pietro Morosini) e nel 1795 (gemme e vasi antichi di Girolamo Zulian). Nel Settecento Anton Maria Zanetti redasse un inventario, grazie al quale conosciamo la disposizione dello Statuario e il suo aspetto.
Nel 1811 le ulteriori donazioni avevano accresciuto le opere dello Statuario a tal punto che alcune di esse dovettero essere esposte presso il Palazzo Ducale.
Durante la prima guerra mondiale le opere ospitate nel Palazzo Ducale vennero spostate a Firenze, per poi ritornare a Venezia tra il 1919 e il 1920. In quegli anni fu realizzata un'adeguata sistemazione delle opere nelle Procuratie Nuove, dove furono organizzate per epoche e per correnti artistiche. Per tutto il secolo il numero delle opere ha continuato ad aumentare.
Percorso espositivo
La sala I ospita iscrizioni greche, tra le quali alcuni decreti appartenenti a città dell'isola di Creta e l'iscrizione funeraria per Sokratea (II secolo a.C.), un frammento di piede di una statua colossale, un altorilievo con Mitra nell'atto di uccidere il toro e due monumenti funerari attici (II secolo). Sono anche presenti ritratti e frammenti di epoca romana.
La sala II, un lungo corridoio, espone sulle pareti la collezione numismatica del museo, con oltre 9000 esemplari di monete dal periodo greco a quello bizantino.
La sala III conserva copie romane di originali greci della prima metà del V secolo a.C., tra le quali la replica romana della testa di Ermes attribuita alla scuola dello scultore Agoracrito, una testa di kore attribuita alla scuola dello scultore Calamide, una statuetta di Artemide in marcia del I secolo a.C., la cui testa è stata ricostruita in gesso sul modello di una copia di età pompeiana, e due Cariatidi, una delle quali (quella di sinistra) proveniente dall'isola di
Cherso.
La sala IV ospita originali greci di età classica (fine del V-prima metà del IV secolo a.C.), in gran parte di ispirazione fidiaca, appartenenti alle collezioni di Giovanni Grimani e di Federico Contarini e provenienti da diverse località del mar Egeo (Grecia, Creta, Asia Minore). Tra queste le statue di dimensioni inferiori al vero delle peplophoroi ("portatrici di peplo"). Forse provenienti da un santuario greco sono due statue di Demetra di produzione attica (prima metà del IV secolo a.C.), del tipo della statua attribuita a Cefisodoto il Vecchio, una statua di kore di scuola ionica (inizi del IV secolo a.C.), nota come Abbondanza Grimani e restaurata in epoca rinascimentale e una statua di Atena di scuola attica (410 a.C. circa), con testa romana non pertinente del II secolo ricomposta con il corpo in epoca rinascimentale.
Nella sala V sono esposte copie romane di sculture greche del V-IV secolo a.C., tra cui le copie dell'Atena di Kresilas e dell'Apollo Liceo di Prassitele, la copia di una testa di Meleagro della scuola di Skopas e di una testa di Dioniso della scuola di Lisippo. Sono anche presenti due teste di Atena,
entrambe originali attici del IV secolo a.C.: la prima, datata alla prima metà del secolo, riprende la testa della Atena Parthenos di Fidia, priva di elmo, mentre la seconda, realizzata nella seconda metà dello stesso secolo, è riconducibile a uno scultore della scuola di Skopas. Alla sinistra della porta d'ingresso è collocata una statua acefala di Atena Nike proveniente da Creta (II secolo a.C.). Accanto alla porta verso la sala successiva sono rilievi votivi e funerari.
La sala VI è dedicata alle opere dello scultore Lisippo e alle testimonianze della scultura ellenistica, con ritratti greci dall'Asia Minore e dall'Egitto del III-I secolo a.C., tra i quali quello di un fanciullo e quello di Tolomeo III Evergete). Vi è conservata anche la copia romana di un Dioniso con satiro della seconda metà del II secolo a.C. Al centro della sala è esposta l'Ara Grimani, forse il basamento di una statua, decorata con satiri e menadi a rilievo e con modanature e decorazioni vegetali di epoca augustea.
La sala VII ospita manufatti in bronzo dell'età del bronzo e del ferro (V secolo a.C.-III secolo), rinvenuti nella zona di Treviso. Nelle vetrine sono esposte gemme e cammei, tra i quali il Cammeo Zulian, in onice raffigurante Zeus Egioco. Vi si trova anche parte della collezione numismatica, con monete
greche provenienti dalla Dalmazia e monete romane della Roma repubblicana; e la stele funeraria di Lisandro, proveniente da Smirne, databile attorno al II secolo a.C.
Nella sala VIII sono ospitate copie romane di originali ellenistici, tra i quali Ulisse, i tre Galati Grimani (raffigurati nell'atto di cadere, in ginocchio e morto), da originali della scuola di Pergamo databili al III e II secolo a.C. e statue raffiguranti Eros e Psyche, l'Ermafrodito e satiri. Sul lato destro è presente la statua di una musa, originale del II secolo a.C. proveniente dall'Asia Minore che venne trasformata in Cleopatra nel restauro rinascimentale attribuibile alla bottega dei Lombardo.
Nella sala IX sono ospitati ritratti romani, soprattutto di personaggi della famiglia imperiale (Pompeo, Silla, Augusto, Tiberio, Domiziano, Traiano e Adriano. Altri ritratti sono repliche rinascimentali di modelli romani, come il Caracalla Farnese.
La galleria di ritratti romani prosegue nella sala X (cosiddetto Balbino, Caracalla giovinetto, Filippo il giovane e Lucio Vero e ritratti femminili, tra cui due dame di età flavia e Plautilla). Una vetrina ospita la capsella di Samagher, un reliquiario in avorio e argento del V secolo con scene e simbologie di carattere cristiano. Alle pareti sono presenti rilievi di epoca romana.
La sala XI ospita una collezione di sarcofagi, tra cui parte di un esemplare a ghirlande con il ratto di Proserpina, la fronte di un altro con la strage dei Niobidi (entrambi del II secolo) e un frammento di sarcofago attico con la scena della battaglia presso le navi (III secolo). A sinistra sono presenti due lastre appartenenti al cosiddetto trono di Saturno (I secolo), provenienti da Ravenna e collocate nella
veneziana chiesa di Santa Maria dei Miracoli, da dove furono spostate al museo nel 1812 per
interessamento di Antonio Canova.
Le sale XIII e XIV ospitano monumenti funerari romani, urne e altari. Tra questi un rilievo sepolcrale raffigurante la storia dei fratelli argivi Kleobis e Biton (metà del II secolo) e un'urna cineraria doppia, decorata a rilievo con festoni e sfingi.
Nella sala XV è conservata una collezione di ceramica micenea, cipriota e greca a figure nere e a figure rosse, prodotta in Attica, Magna Grecia e Lazio, oltre ad un frammento di bucchero etrusco.
La sala XVII ospita due mattoni con iscrizioni in alfabeto cuneiforme dell'epoca di Nabucodonosor II; rilievi assiri raffiguranti scene di corte, di guerra e di caccia del I millennio a.C., rinvenuti nell'attuale Iraq in scavi ottocenteschi dell'archeologo Inglese e scopritore di Ninive, Austen Henry Layard ed entrati nel museo nel 1891, precedentemente esposti nella galleria Layard a Ca' Cappello; e sculture egizie di epoca tarda (712-332 a.C.), tra cui una statua-cubo in basalto e due naofori. Di fronte si trovano un candelabro di epoca romana e alcune raffigurazioni di divinità egizie. In
una vetrina dedicata al tema "religione e magia" si trovano reperti di epoca greco-romana in stile egizio, scarabei egizi e altri amuleti, due stele magiche e un pilastrino di sostegno di una piccola statua con un testo geroglifico.
La sala XVIII conserva statuette femminili acefale, originali di epoca greca classica, ritratti maschili, copie romane di originali greci (tra cui una testa dall'Hermes Propylaios). Sulla parete destra sono tre teste di scuola alessandrina in pietra nera (I secolo a.C.).
Nella sala XX si trovano antichità egizie e assiro-babilonesi, con opere di ambito funerario o templare, tra cui due mummie (I-II secolo), una delle quali conservava un frammento di papiro sul quale era riportata parte del "Libro delle respirazioni", statuette di "ushabti", vasi canopi e statuette e bronzetti raffiguranti divinità egiziane. Sulla parete di sinistra sono esposti rilievi funerari dalla Grecia orientale.


nelle foto, all'alto in basso:
- Mummia con maschera e copripiedi in cartonnage, I-II sec. d.C. Collezione Salvatore Arbib, 1899
- Nereide su Delfino, Replica di epoca romana da modello greco del 390 a.C. Da Ierapetra (Creta) Collezione Federico Contarini, 1596
- Demetra, Scuola attica, metà del IV sec. a.C. Collezione Giovanni Grimani, 1587
- Epichysis sovradipinta, con tralcio di vite fine IV sec. a.C. Deposito dei Civici Musei Veneziani, 1939
- Statuetta di Ercole con i pomi delle Esperidi Fine II – inizio III sec. d.C. Rinvenuta al largo di Malamocco (Venezia), 1983
- Statua cubo di dignitario, Età saitica, XXV – XXVI dinastia (VIII-VII secolo a.C) Collezione Girolamo Zulian, 1795
- Cammeo con Giove Egioco, Prima metà del II sec. d.C. Da Efeso Collezione Girolamo Zulian, 1795
- Frammento di sarcofago con scena di battaglia, Officina attica, inizi del II sec. d.C. da Roma Collezione Giovanni Grimani 1587



VENETO - Museo archeologico nazionale concordiese

 

Il Museo archeologico nazionale concordiese (conosciuto anche come museo nazionale concordiese o museo archeologico concordiese) è un museo archeologico situato a Portogruaro, nella città metropolitana di Venezia: conserva gli importanti reperti rinvenuti nella zona di Concordia Sagittaria.
Inaugurato nel 1888, dopo appena 22 anni dall'annessione del Veneto al Regno d'Italia, è uno dei più antichi musei statali italiani e il primo tra questi fondato nel Veneto.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale del Veneto, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
Dalla fine del XVIII secolo la famiglia Muschietti di Portogruaro iniziò a collezionare reperti archeologici rinvenuti nella zona. Nella seconda metà dell'Ottocento la collezione fu lasciata in eredità all'amministrazione comunale di Portogruaro, che la conservò inizialmente presso la sede municipale.
Nel 1873 furono rinvenuti molti reperti archeologici nella vicina Concordia Sagittaria (anticamente chiamata Iulia Concordia) ed in particolare, durante la campagna di scavo negli anni 1880-1882, nel cosiddetto "sepolcreto dei militi". La Soprintendenza decise allora di creare un museo per riunire tutti i reperti rinvenuti e conservati temporaneamente presso il municipio di Concordia Sagittaria e nel seminario e nella casa Muschietti a Portogruaro. Il consiglio comunale di Portogruaro decise così di acquisire un terreno di proprietà del Seminario vescovile, su cui fu costruito il Museo Concordiese grazie ad un finanziamento del Ministero dei Beni Culturali.
La prima pietra del museo fu posta nel 1885 e il 28 ottobre 1888 si celebrò l'inaugurazione ufficiale. Il primo direttore del museo fu l'avvocato portogruarese Dario Bertolini, appassionato di archeologia e primo direttore degli scavi. Al posto di Concordia, il museo venne edificato a Portogruaro, più facile da raggiungere grazie alla presenza della ferrovia.
Nel 1986, dopo i lavori di restauro e riammodernamento, il Museo venne riaperto al pubblico.
In tempi più recenti è stato creato anche un museo civico a Concordia Sagittaria, che si inserisce nel percorso archeologico concordiese.
L'edificio a due piani del museo fu progettato dall'ingegnere Antonio Bon a forma di basilica paleocristiana, al fine di richiamare gli antichi edifici dei primi insediamenti di Concordia Sagittaria.
Il piano terra è costituito da una grande sala divisa in tre navate, a cui si accede da un atrio, nella quale sono esposti vari reperti architettonici, stele funerarie, ritratti e materiale epigrafico, raccolti ed esposti in base a criteri antiquari tipici della fine del XIX secolo. Nel pavimento della navata sono presenti tre mosaici, di cui il più importante raffigura le Tre Grazie, mentre i restanti due hanno stili geometrici. Nella sala laterale, a destra dell'entrata, vi sono oggetti decorati provenienti da Concordia Sagittaria e dintorni.
Al primo piano sono raccolti i reperti preromani e romani donati dai collezionisti locali e quelli scavati da Dario Bertolini alla fine dell'Ottocento, tra cui alcune raffigurazioni in bronzo. Nelle ulteriori vetrine sono poi esposti diversi oggetti di uso comune, come lucerne, vetri e monili.

VENETO - Museo nazionale e Area archeologica di Altino

 



Il Museo nazionale e Area archeologica di Altino è un museo archeologico situato nella frazione di Altino, nel comune di Quarto d'Altino, in provincia di Venezia, nei pressi del sito archeologico di Altinum.
Il museo, che conserva i reperti archeologici più rappresentativi di Altino (centro veneto e romano di grande importanza, attivo tra VIII secolo a.C. e V secolo d.C. sul margine settentrionale della laguna che sarà di Venezia), assieme al vicino sito archeologico, è incluso nel sito patrimonio dell'umanità "Venezia e la sua laguna" tutelato dall'UNESCO.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale del Veneto, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
Alla fine degli anni 1950 iniziò la costruzione della sede del museo, su progetto dell'architetto Ferdinando Forlati, per raccogliere i reperti rinvenuti alla fine del XIX secolo durante le lavorazioni agricole e nei primi scavi del 1936-1937. Inizialmente gli oggetti furono conservati presso Villa Reali a Dosson (Treviso).
Il piccolo museo, realizzato dalla Soprintendenza e dal conte Jacopo Marcello, fu inaugurato il 29 maggio 1960 e si componeva di due ambienti, una dei quali era utilizzato come spazio espositivo suddiviso in due sale, l'altro come magazzino dei reperti archeologici rinvenuti; nel porticato esterno sono esposte alcune lapidi. Fino ad allora, il numero e soprattutto l'importanza degli scavi nella zona in questione, sotto la gestione della Soprintendenza Archeologica, erano risultate estremamente basse. A partire dal 1966, tuttavia, furono effettuati nella zona di Via Annia numerosi scavi, che riportarono alla luce oltre 2000 reperti delle tombe e dei luoghi di sepoltura. All'epoca della sua inaugurazione il Museo aveva meno di un migliaio di oggetti, mentre oggi ci sono più di 40.000 reperti, provenienti dalle aree archeologiche circostanti di Altino, in mezzo alle quali si trova il museo.
Per alcune parti della raccolta, come ad esempio iscrizioni, stele funerarie o reperti vitrei, sono stati realizzati singoli studi archeologici e vengono organizzate mostre specializzate.
Il primo direttore del museo fu l'archeologo Michele Tombolani (1943-1989), sostituito nel 1987 dall'archeologa Margherita Tirelli. Dal 2015 il nuovo direttore del museo è l'archeologa Mariolina Gamba.
A causa del crescente numero di reperti, si decise di ampliare il museo e nel 1984 lo Stato italiano acquisì due nuovi edifici (facenti parte di una fattoria ottocentesca utilizzata per la produzione di riso) in località "Fornace", a poca distanza dalla prima sede. Tuttavia, a causa della mancanza di fondi, i lavori di restauro furono interrotti dopo poco tempo. Nel dicembre 2009, grazie all'intervento della Regione Veneto e ai fondi stanziati dall'Unione Europea per complessivi 6 milioni di euro, i lavori di restauro e ripristino ripresero.
Il 12 dicembre 2014 vi fu l'inaugurazione della nuova struttura del museo, che però rimase aperto solo un giorno.
Il 4 luglio 2015 è stata definitivamente aperta al pubblico la nuova sede del museo archeologico, che oggi dispone di circa 1 800 m² espositivi (rispetto ai 180 m² della vecchia sede, oggi utilizzata come magazzino) sui tre piani della ex-risiera, una barchessa e una nuova struttura moderna (disegnata dall'architetto Stefano Filippi) dotata di una torre di osservazione sulla campagna circostante e la laguna di Venezia.
Gli spazi per il restauro, la catalogazione e la creazione di riproduzioni e fotografie sono stati realizzati, unitamente ad un book-shop e ad una caffetteria, ma non sono ancora stati attivati.
Nella prima sezione, al piano terra dell'ex risiera, si trova una selezione di reperti che attestano l'occupazione preistorica del margine lagunare nell'ambito del quale sarebbe sorta Altinum tra il X e il II millennio a.C.; nella seconda sezione, le testimonianze dello o del centro attraverso l'età del ferro (I millennio a.C.) secondo una scansione tematica: la religione, l'abitato, la lingua e la scrittura, le necropoli (con la ricostruzioni di alcune sepolture venete, celtiche e romanizzate), fino alle imponenti tombe di cavalli con, accanto, l'esposizione delle relative bardature, pezzi assai di pregio in quanto piuttosto rari.
Il primo piano è dedicato alle trasformazioni del centro di Altinum documentate attraverso i secoli che portarono l'insediamento indigeno alla romanizzazione (II–I secolo a.C.) e successivamente la piena romanità (I–III d.C.), seguendo ancora una volta un criterio tematico: l'assetto territoriale ed urbanistico, le strade, le ville e le domus, la moda e i gioielli, i personaggi, la società, le professioni, i commerci. Qui si incontrano alcuni tra gli oggetti della vita quotidiana più significativi dell'Altino romana: la collana d'oro di fabbrica tarantina (databile tra fine II a.C. e I a.C.), i vetri murrini, i ritratti marmorei che decoravano i monumenti funerari dei più ricchi, ma anche i giocattoli per i bambini e le suole di cuoio delle scarpe degli antichi altinati.
Il secondo piano, non ancora allestito, ospiterà una sezione sulle necropoli romane altinati e una sulla storia tardoantica della città.
L'allestimento verrà completato da una sezione dedicata al santuario emporico in località Fornace, la cui scoperta ha evidenziato l'importante ruolo di porto commerciale svolto da Altino preromana e romana, e dall'esposizione, al terzo piano, dei reperti di età tardoantica.


VENETO - Riparo Solinas

 


Il Riparo Solinas, attualmente noto come Grotta di Fumane, è localizzato sopra la località Ca' Gottolo lungo la vecchia strada che va da Fumane alla frazione Molina, in provincia di Verona, mostra evidenze di frequentazione dell'Homo neanderthalensis e dell'uomo moderno, riferibili ad un periodo compreso tra 60 000 e 30 000 anni, mentre i resti di animali risalgono fino a 90 000 anni fa.
Il Riparo, noto agli abitanti della zona come "Gli Osi" per via dei numerosi reperti che si trovavano, fu scoperto nel 1964 da Giovanni Solinas con il figlio Alberto Solinas, entrambi appassionati e studiosi della Paleontologia e della Preistoria locale.
Viene considerato da molti uno dei più importanti siti in Europa per il lungo periodo di utilizzo e per caratteristiche proprie. Si unisce ad un sistema di presenze preistoriche nel nord veronese che ha le più ampie ed importanti ed accessibili nel Riparo Soman, Riparo Tagliente nel Covolo di Camposilvano, nel sistema di grotte ai piedi del Ponte di Veja, nel Castelliere delle Guaite e in una miriade di presenze minori, frequentabili e documentate.
Il riparo vero e proprio fu abitato in tempi più recenti e fu colorato con ocra rossa, con resti di più focolari. Particolare importante è la presenza negli strati più recenti di una fossa usata come deposito dei rifiuti lasciando la grotta sgombra di essi, segno anche di come l'homo sapiens suddivideva lo spazio in zone più precise di quanto faceva il neanderthal.
Dalla parete si sono staccati disegni in ocra, datarti a 35 000, tra i più antichi disegni mai eseguiti. Ad oggi ne sono stati identificati cinque, di cui un paio molto conosciuti. Il primo rappresenta un essere cornuto per il quale sono state avanzate diverse ipotesi tuttora discusse: potrebbe trattarsi di uno sciamano (ipotesi molto discutibile) come di un semplice operatore rituale, con in mano un oggetto votivo, che non ha nulla a che fare con le pratiche sciamaniche, ma potrebbe anche essere una figura simbolica che sintetizza la sfera umana e quella animale, o una madre che tiene per mano un bambino, oppure un cacciatore con la preda (l'immagine dopo quasi 35.000 anni è molto sbiadita e le interpretazioni sono aperte). L'altro disegno raffigura un animale, un felide o un mustelide.
Il riparo era abitato prevalentemente dalla primavera all'autunno con uno spostamento invernale in zone meno fredde.
Una parte degli oggetti è presente al Museo di Sant'Anna d'Alfaedo. I reperti trovati vanno da selci e da utensili di osso a oggetti ornamentali, conchiglie e denti di cervo. Il ritrovamento di resti animali ha permesso una conferma della fauna della zona: la volpe, la iena, il lupo, l'orso bruno, la lince, il gatto selvatico e il leone delle caverne questi resti sono successivi anche alla presenza umana.
Inoltre è stato ritrovato un dente datato a circa 41 000 anni fa che, sottoposto ad analisi del DNA, si è dimostrato appartenuto ad un uomo moderno, uno dei più antichi resti umani ritrovati in un contesto di reperti di tipo protoaurignaziano.
La ricerca attualmente è guidata dalle Università di Ferrara e Milano, ma è aperta alle collaborazioni internazionali, tantoché la recente inaugurazione è stata coordinata dal professor Janusz Kozlowski di Cracovia attuale presidente della Commissione Europea del Paleolitico Superiore.
Il Riparo Solinas è stato strutturato come un insolito museo. Con il contributo di una fondazione bancaria locale è stato reso accessibile alle visite del pubblico. Non ha accessibilità comoda per le persone diversamente abili per la sua localizzazione a centinaia di metri dal parcheggio più vicino e su una strada in forte salita. Il lavoro di musealizzazione è stato curato da un gruppo di architetti guidati da Arrigo Rudi. La struttura ha due entrate, la prima è diretta sulla strada con una struttura di legno lamellare e plastica trasparente al fine di permettere l'entrata più alta possibile di luce naturale più un accesso secondario nella parte interna del bosco che permette di entrare nella parte alta della grotta evitando il percorso con scale a pioli. È in evidenza, e spiegato, lo scavo stratigrafico, datato col sistema del radio carbonio.
Ogni strato è evidenziato con i reperti trovati: carboni, carcasse di animali con le relative zone di macellazione, le schegge e le selci, sostanze organiche e strumenti.
Vista la recente scoperta, dovrebbe trattarsi dell'unico importante sito dove visita e ricerca coesistono. La struttura entra nel sistema museale della Lessinia che coinvolge in prima istanza la Comunità montana della Lessinia e in secondo piano l'Ente Parco e il comune.

(da Wikipedia, l'enciclopedia libera)