giovedì 19 giugno 2025

Campania - Napoli, MAN / Collezione egizia

 


Il Museo archeologico nazionale di Napoli (MANN) è un museo statale italiano. In virtù del suo ricco e pregevole patrimonio di opere d'arte e manufatti, è considerato uno dei più importanti musei archeologici al mondo nell'ambito dell'arte classica greco-romana: la collezione egizia, prima sezione egiziana in un museo europeo dal 1821 e ad oggi con oltre 18.000 reperti tra le prime venti al mondo e tra le prime tre d'Italia insieme alla collezione del Museo archeologico di Firenze e del Museo egizio di Torino.
Si trova nel piano seminterrato cui si accede dal piano terra, a destra dello scalone principale, alla fine della galleria degli imperatori (Sale 18-23). All'anno 2000 essa conta 2500 reperti.
Il primo nucleo fu costituito tra il secondo ed il terzo decennio dell'Ottocento acquisendo materiali da collezioni private e dagli scavi borbonici dell'area vesuviana e dell'area flegrea. In particolare, di grande importanza sono le opere appartenenti alla collezione Borgia, formata nella seconda metà del Settecento dal cardinale Stefano Borgia, già erede di una raccolta di oggetti antichi rinvenuti nei dintorni di Roma e di Velletri che, grazie agli incarichi affidatigli dal governo pontificio (in particolare, la sua attività di Segretario e poi Prefetto della Congregazione di Propaganda della Fede, durante la quale incoraggiò la formazione di sacerdoti indigeni nelle missioni cattoliche all'estero, specie in Oriente) poté entrare in possesso, grazie al favore dei missionari, di un immenso numero di oggetti dall'Egitto, oltre ai manoscritti copti ottenuti su sua precisa richiesta, tanto da costituire la più ricca collezione del genere dell'epoca.
Alla sua morte, nel 1804, la collezione fu in parte donata alla congregazione mentre la maggior parte passò al nipote Camillo Borgia il quale tentò di venderla prima al re di Danimarca, poi a Gioacchino Murat, allora re di Napoli, che l'acquistò nel 1814 (benché le trattative si conclusero solo l'anno successivo, con il ritorno dei Borbone, ad opera di Ferdinando I delle Due Sicilie).
La collezione Borgia, una delle più antiche della storia del collezionismo europeo, illustra l'interesse europeo per l'antico Egitto in un periodo ancora anteriore alla spedizione napoleonica del 1798-1799, e rispecchia il gusto antiquario tipico dell'epoca in cui fu formata (statue ridotte a busti o a teste-ritratto, e da molti oggetti di carattere funerario e magico-religioso rinvenuti principalmente nelle due zone più facilmente raggiungibili dagli Europei del XVIII secolo, il Delta del Nilo e Menfi).
La più rilevante tra quelle napoletane dopo la borgiana è la collezione Picchianti, raccolta durante un viaggio di sei anni (1819-1825) da Giuseppe Picchianti, un viaggiatore di origine veneta che risalì la valle del Nilo fino a raggiungere il deserto nubiano, attraversando le località archeologiche di maggiore interesse per i collezionisti come Giza, Saqqara, Tebe. Qui raccolse una notevole quantità di materiali, provenienti probabilmente da sepolture: la sua raccolta comprende infatti mummie, sarcofagi, canopi, ma anche oggetti facenti parte del corredo funebre che testimoniano aspetti del quotidiano, quali specchi, vasi per cosmetici, sandali. Vendette una parte al museo di Napoli nel 1828 ma insoddisfatto dal ricavato un mese dopo donò allo stesso museo la restante collezione, a patto d’essere assunto come custode e restauratore delle antichità egizie, approfittando del suo ruolo per trafugare oggetti rivenduti al British Museum.
Il reperto di più antica acquisizione è invece il naoforo (nella foto a sinistra), unico oggetto egizio appartenente alla collezione Farnese, già ospitato nel museo prima che tutte le altre collezioni vi approdassero.
Sono inclusi nella sezione egiziana anche oggetti di provenienza varia e raccolte di minore consistenza come quella dello Schnars, un viaggiatore tedesco che, formata una piccola collezione durante i suoi viaggi nell'alto e basso Egitto, la donò al museo nel 1842.
Nella sala XIX sono esposte tutte le statue della raccolta, che coprono un quadro cronologico di circa tremila anni, dagli inizi dell'antico regno all'età tolemaico-romana, tra cui il reperto più antico, una statua di funzionario della III dinastia (2700-2640 a.C.) nota come "Dama di Napoli" (foto successiva, in basso). Nella stessa stanza sono esposti frammenti di obelischi di epoca faraonica e romana.
La sala XX ospita alcuni elementi del corredo funerario, una serie di oggetti votivi (statuette in legno o pietra), e diverse steli arpocratee (lastre atte a proteggere magicamente il defunto dai pericoli cui poteva andare incontro nel suo viaggio verso l'oltretomba). Sono presenti anche tre sarcofagi di fattura ed epoca diverse: un frammento del sarcofago in basalto di Pa-ir-kap della XXX dinastia e due sarcofagi in legno dipinto, contenenti mummie.
Nella sala XXI si può osservare una raccolta di iscrizioni e di calchi ottocenteschi che coprono tutti i diversi metodi di scrittura in uso in Egitto nel corso della sua storia, dalle origini fino al demotico ed al greco. È qui esposta la celebre "Charta Borgiana", un papiro redatto in greco corsivo del II secolo d.C. Nello stesso luogo sono inoltre esposti numerosi oggetti egiziani o egittizzanti ritrovati in Campania, in particolare negli scavi vesuviani (come la stele di Samtowetefnakhte nel tempio di Iside a Pompei, o la mensa votiva in basalto nero di Psammetico II, riutilizzata come soglia nella casa del Doppio Larario).
Nelle sale XXII e XXIII è esposta la collezione Picchianti. Nella XXII sono esposti numerosi vasi databili dalle prime dinastie all'epoca tolemaico-romana, steli funerarie, e molte statuette votive, come il gruppo di centoquattordici appartenenti ad un personaggio di nome Her-udja della XXX dinastia. Nella stessa sala è inoltre esposta, insieme a due piccoli, una mummia di coccodrillo (ultima foto in basso).
La sala XXIII ospita quattro mummie, tre della collezione Picchianti, due di adulti ed una di bambino, oltre ad un'altra donata da Emilio Stevens. Sono, inoltre, esposti diversi oggetti del corredo funebre ed una significativa selezione di amuleti.


Campania - Napoli, MAN / Hermes in riposo

 

L'Hermes in riposo è una scultura in bronzo di epoca romana databile a prima del 79 d.C. e conservata presso il museo archeologico nazionale di Napoli.
L'opera, che raffigura il dio Hermes seduto su una roccia, è ritenuta copia romana da un originale greco del IV a.C. circa, attribuito a Lisippo su base stilistica, ma non attestato dalle fonti letterarie antiche. Il tipo, riprodotto in diverse copie, prende il nome di Hermes Merida-Vienna dalle copie principali, quella marmorea di Mérida e quella bronzea del Kunsthistorisches Museum di Vienna.
La scultura fu rinvenuta a seguito degli scavi dell'area vesuviana nel 1758 presso la villa dei Papiri di Ercolano.
Gli storici dell'arte britannici Francis Haskell e Nicholas Penny definirono la scultura come la più importante opera d'arte rinvenuta negli scavi archeologici di Pompei e Ercolano nel XVIII secolo.
Alcune incisioni del 1771 che ritraggono l'antica città vesuviana, mostrano l'opera ancora in loco. Dunque il suo trasferimento a Napoli è avvenuto sicuramente in data posteriore. Ancora, la scultura fece parte del gruppo di opere che Ferdinando I delle Due Sicilie portò con sé a Palermo in occasione della rivoluzione del 1799.
Durante l'occupazione francese e nell'ambito delle spoliazioni napoleoniche, venne individuato dal generale Jean Étienne Championnet per essere inviato in Francia al Louvre, come risulta da una missiva inviata al direttorio il 7 ventoso anno VII (25 febbraio 1799):
«Vi annuncio con piacere che abbiamo trovato ricchezze che credevamo perdute. Oltre ai Gessi di Ercolano che sono a Portici, vi sono due statue equestri di Nonius, padre e figlio, in marmo; la Venere Callipigia non andrà sola a Parigi, perché abbiamo trovato nella Manifattura di porcellane, la superba Agrippina che attende la morte; le statue in marmo a grandezza naturale di Caligola, di Marco Aurelio, e un bel Mercurio in bronzo e busti antichi del marmo del più gran pregio, tra cui quello d'Omero. Il convoglio partirà tra pochi giorni.»
Nel 1816 invece si attesta la presenza dell'Hermes nel palazzo reale di Portici.


Campania - Napoli, MAN / Gruppo dei Tirannicidi

 

Il gruppo dei Tirannicidi è un gruppo scultoreo raffigurante Armodio e Aristogitone, realizzato da Crizio e Nesiote; è la prima statua del mondo greco che raffigura personaggi e fatti storici. È considerato il punto di passaggio tra il periodo arcaico e lo stile severo.
Dopo lo stabilirsi della democrazia in Atene, allo scultore Antenore fu commissionato un gruppo scultoreo dei Tirannicidi che fu eretto nell'Agorà. Questo gruppo fu trafugato dai Persiani durante l'occupazione di Atene nel 480 a.C. e restituito agli ateniesi da Alessandro Magno (secondo lo storico Arriano) o da Seleuco I Nicatore (secondo lo scrittore romano Valerio Massimo). Nel frattempo, comunque, i cittadini attici avevano commissionato nuove statue a Crizio e Nesiote che furono erette nel 477 a.C. circa.
Entrambi i gruppi di statue sono andati perduti, ma le opere più tarde furono oggetto di copia in epoca ellenistica e romana. Una di queste copie, databile al II secolo d.C., è oggi esposta al Museo Archeologico di Napoli.


Essa mostra ritratti idealizzati dei due eroi: un Armodio nudo e sbarbato con un fisico molto più adulto di quello che avrebbe potuto avere, che spinge in avanti una spada col suo braccio destro alzato e ne tiene un'altra nella mano sinistra; anche Aristogitone, rappresentato con la barba, brandisce due spade ed ha una clamide poggiata sulla spalla sinistra. Delle quattro spade si sono salvate solo le else e la testa originale di Aristogitone è andata perduta, sostituita da un'altra che non si armonizza nell'insieme. Un altro tributo ai Tirannicidi era un inno cantato come canzone conviviale (skolion) nei simposi, scritti da Callistrato, un poeta ateniese.
La storia di Armodio e Aristogitone continuò ad essere citata come esempio ammirevole di eroismo e devozione per molti anni. Il fatto che le statue dei Liberatori venissero ancora copiate al tempo dei Romani dimostra la durevolezza della loro leggenda.
Tale gruppo statuario può essere interpretato come monumento politico ed immagine esemplare per la comunità democratica di Atene e come modello sociale ed antropologico di una coppia omosessuale.
I Tirannicidi segnano una profonda trasformazione nel concetto della nudità virile. Fino a quel momento il nudo era infatti utilizzato solo per le raffigurazioni divine, statue funerarie o rappresentazioni votive o atletiche, mentre in quest'opera lo vediamo finalizzato alla rappresentazione di due uomini politici. Questo probabilmente a causa delle esigenze narrative dell'autore che attraverso questo capolavoro voleva indicare la lotta tra tirannide e democrazia, il vero protagonista dell'opera.

Campania - Napoli, MAN / Venere Callipigia

 
La Venere Callipigia, o anche Afrodite Callipigia, dal greco Ἀφροδίτη Καλλίπυγος (Aphrodite Kallipygos), ossia "Afrodite dalle belle natiche" (καλός / kalόs = «bello», πυγή / pygḗ = «natica»), è una scultura marmorea di epoca romana databile al I-II secolo, e conservata nel museo archeologico nazionale di Napoli. Si tratta di una copia di un originale bronzeo di epoca ellenistica del III secolo a.C.
Rinvenuta nei pressi della domus aurea, la storia della scultura è pressoché ignota. Di certo si sa che risale all'epoca dell'imperatore Adriano e che al momento del ritrovamento era priva di testa. Nel 1594 così fu acquistata dalla famiglia Farnese, restaurata (con l'aggiunta del capo) e collocata al palazzo omonimo di Roma, inserendola così nella collezione di sculture archeologiche. Successivamente, nel 1786, fu trasferita nella città partenopea sotto il regno di Ferdinando IV di Borbone a seguito dell'eredità dell'intera raccolta farnesiana ottenuta qualche decennio prima da Carlo, figlio dell'ultima discendente della famiglia: Elisabetta Farnese.
In occasione di quest'ultimo spostamento, vi furono altri lavori di restauro eseguiti da Carlo Albacini. Fu sostituita nuovamente la testa, poi le braccia e una gamba; reagendo alle critiche contemporanee su alcune caratteristiche della statua, Albacini seguì comunque abbastanza fedelmente il restauro precedente facendo in modo che la figura guardasse all'indietro, sopra la sua spalla. Nel 1792 la scultura si registra alla reggia di Capodimonte, e successivamente è al palazzo degli Studi (divenuto poi il MANN - museo archeologico nazionale di Napoli), dove rimane esposta.
Durante l'occupazione francese e nell'ambito delle spoliazioni napoleoniche, la Venere viene individuata dal generale Jean Étienne Championnet per essere inviata in Francia, come risulta da una missiva inviata al direttorio il 7 ventoso anno VII (25 febbraio 1799):
«Vi annuncio con piacere che abbiamo trovato ricchezze che credevamo perdute. Oltre ai Gessi di Ercolano che sono a Portici, vi sono due statue equestri di Nonius, padre e figlio, in marmo; la Venere Callipigia non andrà sola a Parigi, perché abbiamo trovato nella Manifattura di porcellane, la superba Agrippina che attende la morte; le statue in marmo a grandezza naturale di Caligola, di Marco Aurelio, e un bel Mercurio in bronzo e busti antichi del marmo del più gran pregio, tra cui quello d'Omero. Il convoglio partirà tra pochi giorni
La dea è ripresa nell'atto di sollevare il suo peplo per scoprire i fianchi e le natiche e volgere lo sguardo dietro le spalle per osservarli (il cosiddetto rituale dell'anasyrma).
Il restauro ha influenzato notevolmente le interpretazioni successive, al punto che i classicisti Mary Beard e J. G. W. Henderson lo descrivono come la creazione di un "capolavoro" in luogo della restituzione di un frammento. I restauratori, infatti, hanno scelto di piazzare il capo di Venere volto all'indietro, accentuando ulteriormente l'attenzione sulle natiche nude e dando alla figura un aspetto distintamente erotico.
L'opera restaurata richiama anche una storia riportata nei Deipnosofisti di Ateneo riguardo alla fondazione di un tempio ad "Afrodite Kallipygos" nell'antica Siracusa. Secondo Ateneo, due belle sorelle di una fattoria vicino a Siracusa litigarono su chi di loro avesse le natiche più formose, e avvicinarono un giovane passante affinché fosse lui a giudicare. Si mostrarono al viaggiatore, figlio di un uomo ricco, e lui votò per la sorella maggiore. In seguito, si innamorò di lei e si ammalò di mal d'amore. Venuto a conoscenza dell'accaduto, il fratello minore dell'uomo andò a vedere le ragazze e si innamorò della sorella minore. Da allora i fratelli si rifiutarono di prendere in considerazione altre spose: infine, il padre fece in modo che le sorelle venissero a sposarli. I cittadini soprannominarono le sorelle "Kallipugoi" ("Donne dalle belle chiappe") e i giovani, con la loro ritrovata prosperità, dedicarono un tempio ad Afrodite, chiamandola "Kallipygos".
Altre fonti menzionano il culto di Afrodite Kallipygos a Siracusa. Ad esempio, lo scrittore cristiano Clemente di Alessandria la include in una lista di manifestazioni erotiche della religione pagana. A partire dal XVI secolo, il racconto di Ateneo si diffuse nella versione di Vincenzo Cartari delle storie della mitologia classica, Le Imagini. Molti visitatori del XVII e XVIII secolo identificarono il soggetto della statua come la dea Venere, e supposero che l'opera fosse una statua cultuale proveniente dal tempio di Venere Kallipygos. Fu quindi spesso descritta all'epoca come "Venere che esce dal bagno". Altri la identificarono invece con una delle ragazze dalle "belle natiche" della storia di Ateneo, e come tale fu alternativamente conosciuta come "La Belle Victorieuse" o "La Bergère Grecque".
Il soggetto è stato più volte replicato nel corso della storia. Oltre alla versione napoletana, vi sono altre versioni anche seicentesche, come quelle di Jean-Jacques Clérion e François Barois.


Campania - Napoli, MAN / Genius populi romani

 

Il Genius populi romani, conosciuto anche come Lare Farnese, è una scultura marmorea di epoca romana databile al II secolo d.C. e conservata presso il museo archeologico nazionale di Napoli.
La scultura, originale creazione di epoca adrianea, mostra un giovane la cui natura dei vestiti che indossa, una toga-indumento simile a una trabea e un tipo di scarpe con raffigurazioni di imperatori in veste militari, permettono di identificarlo come il genius del popolo romano, ovvero uno spirito protettivo e vitale per il popolo romano che ha esercitato la sua influenza benigna su ogni aspetto della società romana.
Date le dimensioni eccezionali della statua, la stessa doveva provenire da un importante edificio pubblico. I fiori nella mano sinistra, invece, sono frutto di un restauro più recente di Carlo Albacini.
Inizialmente si pensava che la scultura fosse stata rinvenuta alle terme di Caracalla a Roma. Ma la rappresentazione del Lare Farnese in un disegno realizzato dall'artista olandese Maarten van Heemskerck, di data anteriore allo scavo delle terme romane, nega tale ipotesi. Più probabilmente, invece, l'opera proviene da villa Madama.

Campania - Napoli, MAN / Atlante Farnese

 


L'Atlante Farnese è una scultura in marmo alta 1,85 m, databile al II secolo d.C. e custodita nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Si tratta quasi sicuramente di una copia di un originale dal quale si sono poi ottenute diverse rappresentazioni a medesimo soggetto.
La statua appartiene al gruppo di sculture della collezione Farnese rinvenute nelle terme di Caracalla a Roma intorno al 1546 e poi trasferite a Napoli in quanto ereditate nel 1787 da Carlo III di Borbone, figlio di Elisabetta Farnese, ultima discendente della famiglia che ne deteneva la proprietà.
Prima del definitivo trasferimento a Napoli, la statua era in mostra nel Palazzo Farnese a Roma, assieme al restante gruppo marmoreo fino agli inizi del XVII secolo.
La scultura, visibile nel salone della meridiana, all'interno del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, raffigura Atlante affaticato nel reggere il globo celeste sulle sue spalle.
La particolarità della sfera celeste è data dal fatto che è idealmente vista dall’esterno, quindi con le costellazioni rovesciate, rispetto alle raffigurazioni usuali, che sono geocentriche. Gli elementi geometrici sono resi a rilievo: si riconoscono l’equatore, i tropici e i cerchi boreale e australe. Sulla sfera sono rappresentati in tutto 43 simboli delle costellazioni: lungo la fascia dell'eclittica si riconoscono i dodici segni zodiacali, con la costellazione dell’Ariete nel punto equinoziale, corrispondente alla situazione astronomica del IV secolo a.C.; poi ci sono 17 costellazioni nell’emisfero boreale e 14 in quello australe.
L'Atlante Farnese di conseguenza possiede la più antica ed una delle più complete raffigurazioni delle costellazioni. Infatti, il 10 gennaio 2005, Bradley Elliott Schaefer, astrofisico della Louisiana State University a Baton Rouge in un convegno dell'American Astronomical Society tenutosi a San Diego in California ha rilevato le configurazioni delle costellazioni presenti sul globo dell'Atlante Farnese ricostruendo la posizione occupata dalle costellazioni nel cielo osservate da Ipparco di Nicea, nel 129 a.C. circa. Il risultato ha evidenziato un'ottima coincidenza tra le previsioni astronomiche moderne e le posizioni rilevate dall'Atlante Farnese che lo hanno indotto a individuare nel famoso e perduto catalogo di Ipparco la fonte a cui aveva attinto lo scultore dell'epoca.

Campania - Napoli, MAN / Era Farnese

 
L'Era Farnese è una scultura marmorea del I secolo d.C. conservata presso il museo archeologico nazionale di Napoli.
Probabilmente si tratta di una copia romana da un originale bronzeo greco del V secolo a.C. di Policleto.
Facente parte di una statua colossale acrolitica, il busto mostra la dea Era con un'espressione severa in volto. Proprio questa caratteristica spinse i primi archeologi che la videro ad attribuirla ad Era, seppure più recentemente si è sollevata l'ipotesi che si trattasse di Artemide.
Entrata a far parte della collezione Farnese di Roma, la scultura fu trasferita a Napoli intorno al 1844 dall'archeologo tedesco Heinrich von Brunn.


Campania - Napoli, MAN / Antinoo Farnese

 
L'Antinoo Farnese è una scultura marmorea del II secolo d.C. conservata presso il museo archeologico nazionale di Napoli.
Rinvenuta in occasione degli scavi romani voluti da papa Paolo III intorno alla seconda metà del XVI secolo, la scultura trovò ben presto spazio all'ingresso alla Galleria dei Carracci nel palazzo Farnese di Roma. Intorno al 1786, per volere del re Ferdinando IV di Borbone, l'opera fu trasferita a Napoli assieme al resto della collezione Farnese.
L'opera, che rappresenta un ragazzo dal fascino malinconico, con volto tondo, guance piene e prive di qualsiasi peluria, labbra sensuali e folta capigliatura a grosse ciocche mosse, risale all'epoca adrianea, quando al ragazzo Antinoo, amante di Adriano, furono dedicate, in seguito alla sua morte, numerose sculture da parte dell'imperatore romano.
Sempre allo stesso periodo e sempre dal palazzo Farnese, risale infatti un'altra statua dedicata ad Antinoo nella quale il giovane è ritratto nelle sembianze di Dionisio. Anche quest'ultima versione è oggi esposta all'archeologico di Napoli.

Campania - Napoli, MAN / Afrodite Sosandra

 

L'Afrodite Sosandra ("che salva gli uomini") è una scultura greca del 460 a.C. circa, realizzata dallo scultore Calamide in bronzo. Oggi è nota solo da copie marmoree dell'epoca romana, tra cui la migliore è probabilmente quella al Museo archeologico nazionale di Napoli, databile al II secolo d.C.
Lo scrittore Luciano di Samosata, ricordò la statua precisando che era collocata all'ingresso dei Propilei dell'Acropoli di Atene, sottolineandone il sorriso "puro e venerando":
«Calamide l'adornerà della verecondia della sua Sosandra e di quello stesso sorriso dignitoso e lieve.»
(Luciano di Samosata. Le immagini. Traduzione di Luigi Settembrini)
Dell'opera si conoscono una ventina di copie marmoree di età romana, tra cui corpo senza testa e un busto al Louvre, una testa conservata presso la collezione archeologica dell'Università di Pavia, nonché un frammento della testa all'Antiquarium del Palatino a Roma. La statua napoletana, tra le migliori, fu rinvenuta a Baia ed è a uno stadio semicompleto: non ne venne fatta la politura. Un'altra si trova a Pompei (terme Stabiane), un'altra ancora è conservata al Pergamonmuseum di Berlino.
La dea Afrodite è rappresentata avvolta da un mantello, compresa la testa, che ricade con pieghe studiate, mentre ai piedi si vede un lembo della setosa veste sottostante, con pieghe più fini, dalla quale sporgono i calzari. Si tratta di uno degli esempi più famosi della scultura greca dello stile severo, che qui si declina in una compostezza dell'espressione del viso e soprattutto nel panno che chiude tutta la figura celandone completamente l'anatomia e lasciando alla luce la possibilità di scivolare morbidamente sugli ampi piani del tessuto.
Del bel volto ovale il Lanzi sottolineò "la verecondia e il sorriso". Le stesse fonti antiche ne ricordano il pudore e la purezza dello sguardo, rivelando, per la prima volta, un'introspezione psicologica.

Campania - Napoli, MAN / Afrodite di Capua

 
L'Afrodite di Capua è una scultura marmorea romana databile intorno al II secolo d.C. e conservata presso il museo archeologico nazionale di Napoli. L'opera è una copia romana di un originale bronzeo del IV secolo a.C..
La statua raffigura una Venere seminuda poggiante col piede sinistro sull'elmo di Marte. L'opera fu rinvenuta presso le rovine di Santa Maria Capua Vetere, in occasione degli scavi del XVIII secolo che interessarono l'area dell'anfiteatro campano. Le braccia alzate stanno ad indicare che probabilmente doveva esserci anche uno scudo, forse di Marte, usato dalla dea per specchiarsi. Nel 1820 vi furono diversi lavori di restauro eseguiti da Augusto Brunelli, in particolare proprio nelle braccia ed in altri dettagli del viso.
Della scultura esistono diverse versioni, anche più recenti rispetto a quella di Capua, per esempio quella della Venere di Milo al museo del Louvre di Parigi.