mercoledì 18 giugno 2025

Campania - Napoli, MAN / Sezione affreschi di epoca romana

 

La sezione affreschi del museo archeologico nazionale di Napoli rappresenta la più grande collezione al mondo di affreschi di epoca romana; questi provengono dai siti archeologici vesuviani e furono in un primo momento ospitati nel Museo Ercolanense nella reggia di Portici: vennero infatti staccati dalla loro collocazione originaria sia per preservarli che per aumentare il prestigio della dinastica borbonica. Gli affreschi si datano in un periodo compreso tra il I secolo a.C. e il I secolo e sono organizzati per provenienza, temi e stili.
Sono esposte pitture in secondo stile come quelle provenienti dalla villa di Publio Fannio Sinistore, come Architettura con porta e maschere e la megalographia di Corte ellenistica, oppure in terzo stile come la Parete con paesaggio idillico-sacrale della villa di Agrippa Postumo; quelle in quarto stile, che si svilupparono dopo il terremoto del 62, quando le città furono ricostruite e restaurate, riguardano quelli provenienti dalla casa dei Dioscuri e gli stucchi della casa di Meleagro. I temi ricorrenti negli affreschi sono quelli dei miti greci come i quadretti restituiti dalla casa di Giasone, tra cui Europa sul toro, Sacrificio di Ifigenia dalla casa del Poeta Tragico e Teseo liberatore della casa di Gavio Rufo.
Il tema delle nature morte è rappresentato da una parete proveniente dalla praedia di Giulia Felice o quadretti dalla Casa dei Cervi, con raffigurazioni di pani, pesci, stoviglie e monete, quello dei paesaggi da un Paesaggio costiero da villa San Marco, Fregio con villa marittima da Pompei e Paesaggio nilotico da Ercolano mentre quello dei ritratti raccoglie gli affreschi ritrovati sui muri vesuviani che ritraggono volti come Saffo o Terentius Neo e la moglie.
In una apposita sezione sono gli affreschi dipinti sui larari, gli altari dove venivano venerati gli dei tutelari della casa, tra cui Bacco e Vesuvio dalla casa del Centenario, mentre in un'altra sono le pitture caratterizzate da scene di vita quotidiana che hanno permesso di ricostruire avvenimenti storici delle città vesuviane: ne è esempio Rissa nell'anfiteatro, ritrovato nel peristilio della casa di Aniceto, che raffigura appunto la rissa tra pompeiani e nocerini nell'anfiteatro.
Una sezione è interamente dedicata alle pitture provenienti da villa Arianna a Stabia: si tratta di affreschi in terzo e quattro stile, tra cui i quattro quadretti di Medea, Diana, Leda e Flora, quest'ultima una delle più famose pitture di epoca romana. Sempre da villa Arianna è la Venditrice di amorini, che insieme ad altri affreschi, come le Danzatrici della villa di Cicerone, hanno influenzato le pitture e le decorazioni del periodo neoclassico.


Campania - Napoli, MAN / Pavimenti a mosaico di epoca romana

pavimenti a mosaico del Museo archeologico nazionale di Napoli sono un serie di mosaici pavimentali di epoca romana, provenienti per lo più dai siti archeologici vesuviani, utilizzati per pavimentare alcune sale del palazzo degli Studi di Napoli, che ospita il Museo archeologico nazionale. I mosaici, realizzati in un periodo compreso tra il I secolo a.C. e il I secolo, vennero ritrovati a seguito degli scavi archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia e dalla villa Jovis di Capri, durante le esplorazioni borboniche effettuate nel XVIII secolo. Inizialmente vennero utilizzati per pavimentare quattordici sale del Museo Ercolanese della reggia di Portici. Successivamente, con l'istituzione del Real Museo Borbonico, vennero trasferiti in quasi la loro totalità a Napoli, andando a pavimentare, insieme ad altri restaurati presso la reggia di Capodimonte tra il 1776 e il 1778 da Joseph Canart, delle sale del lato occidentale del primo piano del palazzo degli Studi: furono posati tra il 1808 e il 1813 secondo lo schema dettato da Raffaele Atticciati, il quale venne aiutato nell'opera da alcuni allievi del Real Albergo dei Poveri. I pavimenti occupano le sale che vanno dalla CXXVIII a quella CXLIII oltre a quella CXIV e un vano attiguo: precisamente quelli dalla sala CXXVIII alla sala CXXXVII e la sala CIXV con il vano attiguo sono pavimenti in opus tassellatum, realizzati prevalentemente con tessere in bianco e nero, talvolta policrome, mentre dalla sala CXXXVIII alla sala CXLIII sono i mosaici in opus sectile.


Dal Secondo complesso di Stabia provengono i mosaici della sala CXXVIII, ossia un rosone e cassettoni con rosette, una cornice realizzata con una coppia di losanghe e intorno quattro rettangoli con stelle a sei punte, e di quella CXXIX, ossia un tappeto con file di cerchi neri circondato da una cornice di rombi bianchi inscritti sia in quadrati che triangoli neri. Il pavimento della sala CXXX proviene dalla biblioteca della villa dei Papiri di Ercolano: le tessere policrome formano dei cerchi che si intersecano tra di loro a formare dei lati curvi e sono contornati da una cornice a triangoli e trecce; nella parte orientale della sala il motivo del mosaico è a meandro mentre in quella occidentale si riconoscono tre riquadri rispettivamente uno a quadrati e rombi, uno a clessidra e uno a ottagoni intersecati. In bianco e nero sono i tasselli dei mosaici delle sale CXXXI e CXXXII: il primo proviene da una villa non identificata di Stabia, caratterizzato da una rosetta in un quadrato, a sua volta contenuto in cerchio, circondato da otto quadrangoli, con intorno cornici una con motivo a clessidra e una più esterna a meandro, il secondo invece dalla praedia di Giulia Felice a Pompei, con al centro un furnacator, ossia uno schiavo addetto all'alimentazione della caldaia degli ambienti termali, circondato da delfini, cavalli e draghi e intorno una cornice raffigurante le mura di città con torri e porte d'ingresso e una cornice più esterna con motivi a stella. Il mosaico della sala CXXXIII è di dubbia provenienza ed è caratterizzato da una cornice esterna a meandri, svastiche e croci uncinate, una cornice interna con rosette e motivi floreali e al centro un poligono quadrangolare. Anche il mosaico della sala CXXXIV, proveniente dalla villa di Diomede di Pompei, a una cornice con raffigurazione di un muro difensivo: al centro sono simboli marini, fiori e foglie racchiusi in cornici a motivi floreali. Il mosaico circolare con tessere nere e bianche disposte a vari motivi intorno a un rosone centrale nella sala CXXXV venne rivenuto a Stabia e asportato da Joseph Canart nel 1781 mentre quello della sala CXXXVI, in tessere policrome, inizialmente ritenuto proveniente da Pompei, fu ritrovato probabilmente a Lucera: nella parte superiore è la testa di Medusa racchiusa in un cerchio, intorno, in dei semicerchi, figure zoomorfe e fitomorfe e nella parte inferiore sono invece due pavoni che poggiano su un motivo a spirale; l'intero pavimento è racchiuso in una cornice interna a meandro e una esterna a spina di pesce. Anche il pavimento della sala CXXXVII fu un mosaico scoperto a Stabia, probabilmente nel 1782 come descritto da Michele Ruggieri e disegnato da Francisco La Vega: la cornice è un motivo a stelle a sei punte mentre la parte centrale è un motivo a meandro e figure geometriche con tessere in bianco e nero. La pavimentazione della sala CXIV proviene dalla villa di Diomede: al centro è un riquadro a tessere bianche e nero che vanno a formare motivi geometrici e floreali; anche la sala attigua che ospita il vano ascensore è decorata con mosaici in bianco e nero, provenienti dal Secondo complesso e da villa Arianna a Stabia.


Nella sala CXXXVIII il pavimento proviene probabilmente da villa Jovis a Capri ed è formato da esagoni in marmo giallo antico posti in modo radiale andando a formare ai lati dei rettangoli: intorno sono dei quadrelli originari dal Secondo complesso di Stabia. Dalla villa dei Papiri proviene il mosaico di forma circolare che pavimenta la sala CXXXIX: scoperto da Karl Jakob Weber nel 1751, è composto da triangoli in marmo africano e giallo antico, disposti a cerchio, che vanno ingrandendosi dal centro verso l'estremità[6]. Le sale CLX e CXLI ospitano pavimenti in opus sectile provenienti da Stabia e Ercolano dove si riconoscono le figure geometriche di ottagoni, rettangoli e triangoli. Il quadretto centrale della sala CXLII, ritrovato in un oecus nel Secondo complesso, è circondato da un pavimento in ardesia e palombino della villa dei Papiri; dallo stesso oecus, indagato nel 1752, proviene il mosaico in pavonazzetto e portasanta contornato da una fascia in cipollino della sala CXLIII: è rifinito con un pavimento in ardesia e marmo giallo antico originario di un edificio posto nei pressi del Secondo complesso. Anche la sala CXLIV presentava in origine un pavimento in opus sectile poi rimosso: era costituito da pezzi di mosaici di varie dimensioni e provenienze, ossia da villa Arianna e dalla Villa dei Papiri, quest'ultimo caratterizzato da un motivo a meandro con croci, svastiche e quadrati.






Campania - Napoli, MAN / Vaso dell'Amazzonomachia

 
Il vaso dell'Amazzonomachia è un cratere a figure rosse attribuito al Pittore di Dario, proveniente dall'omonima tomba a Ruvo di Puglia e custodito al Museo archeologico nazionale di Napoli.
Realizzato intorno al 330 a.C. in una delle numerose botteghe nei pressi di Taranto specializzate nella produzione di ceramica apula già con un difetto di fabbrica, il vaso fu probabilmente dipinto dal cosiddetto Pittore di Dario: data la sua fattura apparteneva a una persona di spicco nell'aristocrazia locale.
Venne ritrovato in frammenti nell'aprile del 1834, in una tomba già precedentemente violata nei pressi di quello che sarebbe diventato corso Carafa, vicino alle mura cittadine di Ruvo di Puglia, insieme a tre anfore e un dinos. Fu immediatamente restaurato: sconosciuto è il nome del restauratore, il quale provvide sia a riassemblarlo che riprodurre, come tipico dell'epoca, parti delle pitture mancanti; nel 1835, insieme ad altri dieci vasi provenienti da Ruvo di Puglia e uno da Nola, viene acquistato dal Real Museo Borbonico di Napoli, venduto dai collezionisti Antonio Pizzati e Carlo Lamberti.
È probabile che nel periodo che intercorre tra il 1908 e il 1931 il vaso abbia subito dei restauri: in una descrizione fatta da August Emil Braun nel 1836 manca qualsiasi riferimento all'uso di grappe, utilizzate per tenere insieme i vari pezzi, perché o completamente mancanti o nascoste sotto uno strato di gesso. Tali assenze vengono confermate nelle descrizioni effettuate nel 1872 e 1908 mentre in una foto del 1931 sono visibili gli alloggiamenti per grappe rivestite in gesso: si è poi appurato che sono state utilizzate sia grappe in piombo che fili in metallo.
Segni di cedimenti del vaso si evincevano in foto risalenti al 1975: a seguito del terremoto del 1980, anno in cui altre foto confermavano il suo stato precario, il vaso venne trasferito nei depositi del museo; poco tempo dopo si sgretolò in circa 400 pezzi che rese necessario un restauro, avvenuto nel 1992. Nel 2004, di ritorno da una mostra a Roma, forse per il suo eccessivo peso o per un cattivo imballaggio, subì lesioni e distacchi di pitture: nel 2012 fu avviato un nuovo restauro, completato nel 2013. Il cratere venne quindi esposto in una sala del Museo archeologico nazionale di Napoli nella sezione Magna Grecia.


Il cratere, realizzato in ceramica, al tornio, è dipinto a figure rosse. Sul collo del vaso sono raffigurate due quadrighe in corsa: sul lato A la scena di Eos che rapisce Titone coi fratelli Elio su carro e Selene a cavallo e due eroti in volo mentre sul lato B il rapimento di Ippodamia da parte di Pelope inseguito da Enomao su un carro guidato dall'auriga Mirtilo a cui si contrappone una Furia.


Sul lato A della parte centrale del vaso è la scena della battaglia tra Alessandro Magno e Dario III di Persia: nel registro alto sono raffiguranti una serie di dei come Poseidone, Pan, Afrodite e Ermes, Era e Nike, Zeus con Artemide e Apollo e Atena su una quadriga. Nel registro sottostante si intravedono i quattro cavalli del carro guidato da Dario e parte dell'auriga: seguono due guerrieri persiani e Alessandro, barbuto e con corazza, nell'atto di colpire con una lancia il persiano dinanzi a lui; particolare è la figura di Alessandro che si discosta da quella tipica giovane e senza barba come raffigurato nel mosaico della battaglia di Isso della casa del Fauno a Pompei. Nel registro inferiore è il combattimento tra i greci con elmi e mantelli e i persiani in abiti orientali: questa scena fu interpretata originariamente come un'amazzonomachia, da cui il vaso prende il nome.
Sul lato B è il mito di Demetra: nella parte superiore Demetra che sale sul carro di Elio per partire alla ricerca della figlia Persefone rapita da Ade: si riconoscono inoltre le figure di Ermes, Era e Zeus e Poseidone e Selene al galoppo; nella parte mediana Afrodite e Eros con una Furia e i coribanti, sia a piedi che a cavallo, mentre nel registro inferiore Ermes psicopompo, Ecate e fanciulle. Sotto le anse, le due facce del vaso sono divise da raffigurazioni di palme e altri elementi vegetali. Il piede a campana è decorato con una gara a cavallo.

Campania - Napoli, MAN / Venere di Sinuessa

 
La Venere di Sinuessa (o Venere Sinuessana o, più propriamente, Afrodite di Sinuessa) è una scultura antica dell'età classica, rinvenuta nel 1911 nell'area archeologica dell'antica città di Sinuessa, nei pressi dell'attuale Mondragone (CE). È di stile ellenistico ed è tradizionalmente attribuita allo scultore greco Prassitele o alla sua bottega, facendo così risalire la sua datazione al IV secolo a.C.. Tuttavia, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, nella quale la scultura è custodita col numero di inventario 321153, la riporta come "scultura di Afrodite, da Sinuessa, Mondragone, villa romana, marmo, II secolo a.C.".
Il 25 gennaio 1911 il signor Leopoldo Schiappa faceva eseguire dei lavori di sterro per l'impianto di una vigna nella zona dell'Incaldana a Mondragone. Durante i lavori, il colono Antonio Guglielmo e il figlio Giovanni, urtarono con un piccone un corpo grosso e duro: stupiti, videro emergere dalla terra due pezzi di una scultura mutila delle braccia e del corpo. La notizia del ritrovamento si diffuse rapidamente nel paese e la scultura fu segnalata al Museo archeologico nazionale di Napoli. La statua fu condotta dall'archeologo Vittorio Spinazzola a Napoli il 10 aprile di quello stesso anno. Spinazzola ricostruì la statua, facendo ricongiungere i due pezzi marmorei, e la chiamò la “Venere Sinuessana”, datandola al IV secolo a.C. e attribuendola allo scultore greco Prassitele, il quale insieme a Skopas e Lisippo è considerato uno dei grandi maestri dell'ellenismo. Tuttavia, con molta probabilità, la statua è una copia romana di un originale greco.
La Venere adornava un tempo una delle tante ville romane di Sinuessa. Si suppone che la villa appartenesse al celebre Marco Tullio Cicerone, avvocato, politico, scrittore, oratore e filosofo romano che come molti ricchi suoi contemporanei aveva una villa a Sinuessa, città famosa per le sue terme.
Al giorno d'oggi, la scultura della Venere (o più propriamente Afrodite, nel caso in cui fosse effettivamente una statua greca) si presenta danneggiata e priva di molte parti importanti. Infatti, la statua è acefala (priva della testa) e mutila di entrambi gli arti superiori; si riscontra la mancanza anche di una porzione del seno sinistro e del gluteo sinistro. Altre lesioni sono riscontrabili in alcuni fori in varie zone del corpo, in alcune scheggiature della veste e nell'amputazione dell'alluce destro.
Nel complesso, la Venere è rappresentata come una donna quasi completamente nuda, se non per le zone coperte dalle vesti, che ella "trattiene" nella zona dei femori degli arti inferiori.
La particolare rappresentazione, la mancanza delle braccia e la diversa natura del tessuto marmoreo, portano alla supposizione di almeno due ipotesi esplicative:
La prima ricostruzione è quella che vede nella statua la rappresentazione di una figura femminile occupata a prepararsi per andare a fare un bagno, probabilmente nelle acque del mare (visto il ritrovamento della statua nell'antica sede di Sinuessa, una città a ridosso delle coste del Mar Tirreno). Dunque, la spiegazione è che la cosiddetta Venere si stia spogliando, lasciandosi scivolare delicatamente la veste lungo il corpo e con le braccia forse alzate sopra il capo.
Al contrario, invece, la seconda ricostruzione è che la figura femminile stia tornando da un bagno e si stia asciugando con un telo, trattenendolo con almeno una delle mani delle ormai scomparse braccia.


Campania - Napoli, MAN / Vaso di Dario

 

Il vaso di Dario, conosciuto anche come vaso dei Persiani, è un cratere a figure rosse attribuito al Pittore di Dario, proveniente dall'omonimo ipogeo a Canosa di Puglia e custodito al Museo archeologico nazionale di Napoli.
Secondo gli archeologi il vaso venne realizzato in un periodo compreso tra il 340 e il 320 a.C., oppure, secondo altri, tra il 330 e il 300 a.C. in una delle numerose botteghe nei pressi di Taranto specializzate nella produzione di ceramica apula.
Il ritrovamento del vaso avvenne il 15 agosto 1851 conseguentemente alla scoperta dell'omonimo ipogeo: venne acquistato dal Real Museo Borbonico nel 1854 per volere di Carlo Bonucci.


Il vaso, da cui l'artista che l'ha decorato prende il nome, è realizzato in argilla rosata con la tecnica delle figure rosse: la superficie è ricoperta di vernice nera lucente con disegni in bianco, giallo e rosso.
Il collo, con bordo revoluto, ha una forma cilindrica ed è decorato con una scena di combattimento tra Greci e Persiani, probabilmente il duello tra Alessandro Magno e Dario III di Persia oppure lo stesso Dario in battaglia nella prima guerra persiana. Le anse sono a volute, decorate con maschere ad altorilievo di figure femminili. 
Il corpo è ovoidale e presenta tre registri di decorazioni su entrambi i lati, in particolare, su un lato, il registro superiore ha disegnato delle divinità greche come Artemide su un cervo, Apollo con il cigno, Afrodite con Eros, Zeus con in mano un fulmine alato, Ellade, Atena con uno scudo, Apate con due torce e Asia seduta su un altare con accanto una colonna che termina con uno xoanon. Nel registro centrale è raffigurato Dario e la sua corte: il re è seduto, vestito con una lunga tunica a maniche corte e capello persiano, e ascolta un rappresentante del popolo che gli comunica probabilmente di non attaccare i Greci; alle sue spalle è una guardia del corpo, mentre nel resto delle figure maschili rappresentate si riconosce Serse I di Persia. Nel registro inferiore è raffigurata la riscossione delle tasse: il tesoriere, con in mano un dittico, è seduto al tavolo con abaco e piccolo ciottoli per fare i calcoli e si appresta a riscuotere le tasse da persiani disegnati inginocchiati. 
Sull'altro lato del vaso invece è, sul collo, una scena dionisiaca, mentre sul corpo è un'altra raffigurazione tripartita: Bellerofonte su Pegaso nella parte superiore, chimera e Amazzoni in quella centrale e Amazzoni cadute in quella inferiore. Tra le altre decorazioni pittoriche che si ritrovano in tutto il vaso anche palmette, fregi a meandri e ovoli.


Campania - Napoli, MAN / Supplizio di Dirce


Il Supplizio di Dirce, più conosciuto come Toro Farnese, è la copia romana di un celebre gruppo scultoreo ellenistico, in marmo, conservata presso il museo archeologico nazionale di Napoli. È la più grande scultura singola mai recuperata dall'antichità.
Il gruppo fu rinvenuto nelle Terme di Caracalla a Roma nel 1546, durante gli scavi commissionati da Alessandro Farnese allo scopo di recuperare antiche sculture per abbellire la sua residenza di palazzo Farnese. A differenza dell'Ercole Farnese e dell'Ercole latino, provenienti dallo stesso scavo del Toro Farnese e che furono più volte ritratti nei periodi successivi, l'unico riferimento al gruppo del Supplizio è dovuto ad un'incisione del 1595 di Étienne Dupérac raffigurante le rovine delle Terme.


Dopo aver respinto i tentativi di acquisto da parte di Luigi XIV del 1665, la scultura insieme al resto della collezione di antichità Farnese, fu prima ereditata da Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta, ultima discendente della famiglia Farnese, e poi trasferita a Napoli per volontà di Ferdinando IV di Borbone nel 1788, quando si ultimò il trasferimento della raccolta nella capitale del regno.
Il complesso scultoreo fu utilizzato molto probabilmente come fontana nella villa reale della città fino al 1826, quando fu poi spostato al museo archeologico nazionale di Napoli dove trovò definitiva collocazione.
La data e l'autore dell'opera sono incerte. Inizialmente fu attribuita agli artisti di Rodi, Apollonio di Tralle e suo fratello Taurisco, grazie agli scritti di Plinio il Vecchio. Questi afferma infatti che la scultura fu commissionata alla fine del II secolo a.C. e fu tratta da un unico blocco di marmo. Successivamente il gruppo statuario greco fu trasferito a Roma da Rodi come parte dell'incredibile collezione di sculture e opere d'arte di Asinio Pollione, un politico romano vissuto nel periodo di passaggio tra la repubblica e il principato.
Tuttavia studi più recenti hanno appurato che il Toro Farnese non sia la scultura descritta da Plinio, bensì una copia romana databile invece al III secolo d.C. e scolpita appositamente per le Terme di Caracalla. Inoltre i piccoli ciuffi di peli sul toro e le pieghe taglienti dei vestiti di Antiope e del mantello di Dirce conducono l'opera al periodo severiano (III secolo d.C). Il complesso marmoreo è alto circa 3,70 m. Esso è stato tratto da un unico blocco di marmo con base di 2,95 × 3,00 m del peso di 24 tonnellate. Il soggetto rappresenta il supplizio di Dirce, con i figli di Antiope (Anfione e Zeto) che, desiderosi di vendicare gli insulti alla madre, hanno legato a un toro selvaggio la matrigna Dirce. Lo stesso soggetto è raffigurato anche in un affresco della casa dei Vettii a Pompei. Nella scena appaiono altri personaggi secondari, aggiunti nel '500 o nel '700: un cane, un bambino e una seconda figura femminile, quest'ultima raffigurante forse Antiope.


Campania - Napoli, MAN / Gigante di Palazzo

 

Il cosiddetto Gigante di Palazzo è una monumentale statua del dio Giove databile al I secolo, ritrovata presso gli scavi archeologici di Cuma e custodita presso il Museo archeologico nazionale di Napoli.
La statua fu rinvenuta nel XVII secolo in un'area oggi denominata Masseria del Gigante; la masseria, risalente al XV secolo, ingloba ampie porzioni di un edificio databile alla seconda metà del I secolo, identificato come Capitolium cumano, un tempio dedicato al culto imperiale della triade capitolina, ricco di decori e opere d'arte. L'iconografia e le dimensioni suggeriscono che la statua fosse affiancata da quelle di Giunone e Minerva, e che la triade fosse ospitata nell'ampia esedra a podio tuttora visibile sul fondo dell'edificio. Scavi condotti da Amedeo Maiuri tra 1938 e 1952 portarono al rinvenimento di due protomi ritraenti le dee, trovate però in aree diverse dal Capitolium.
Tra il 1668 e il 1671 il viceré Pedro Antonio de Aragón (o più probabilmente Fadrique Álvarez de Toledo y Ponce de León, che regnava ad interim in sua vece) fece portare il busto a Napoli; alla statua furono aggiunte gambe e braccia, facendole assumere una poco filologica posizione stante; fu issata su una base di marmo bruno a forma di anfora, sulla quale erano scolpite le insegne del Regno di Spagna, mentre le mani posticce stringevano i vessilli del Viceré, del cui potere la scultura era diventata un simbolo. La statua fu posta nel largo di Palazzo (odierna piazza Plebiscito), al culmine della strada che connetteva l'area vicereale al Borgo Santa Lucia; date le sue imponenti dimensioni (con tutta la base arrivava a sfiorare i 7 metri) e la vicinanza con l'allora nuovissimo Palazzo Vicereale, essa fu denominata Gigante di Palazzo, nome con cui è tuttora nota; per questo motivo la strada da essa dominata assunse il nome popolare di salita del Gigante, così come la fontana monumentale a essa adiacente; quest'ultima mantiene ancora oggi tale nome, sebbene sia stata più volte spostata.
Nei secoli successivi, il Gigante di Palazzo divenne una statua parlante su modello di quelle di Roma: il popolo soleva attaccare alla sua base dei foglietti dal contenuto satirico che bersagliavano le autorità civili o religiose. Durante la breve esperienza della Repubblica Napoletana, al Gigante fu applicato un berretto frigio e una bandiera tricolore: la scena della rimozione di tali oggetti, assieme all'abbattimento dell'albero della libertà, è immortalata in un celebre acquerello di Saverio della Gatta dell'anno successivo. Tale dipinto è inoltre una preziosa testimonanza di come si presentasse la statua con le aggiunte secentesche.
Nel 1809 la statua, molto danneggiata, fu rimossa dalla sua collocazione; la base e le parti posticce furono eliminate e venne provvisoriamente ricoverata nelle scuderie del Palazzo Reale; successivamente entrò a far parte delle collezioni del Real Museo Borbonico, poi divenuto Museo Archeologico Nazionale. Tra la fine del XIX e gli anni '40 del XX secolo, la statua fu posta alla base dello scalone monumentale, per poi essere collocata nel chiostro ovest. A partire dal 2023, la statua è esposta nella nuova sezione Campania Romana del museo, a ridosso del chiostro occidentale.
La scultura in marmo ritrae il dio Giove assiso in trono nella sua forma capitolina, a sua volta mutuata dall'iconografia dello Zeus Olimpico. Il busto è privo delle braccia e della parte inferiore del corpo; le parti restanti sono tuttavia in buono stato di conservazione.
Giove si presenta a petto nudo, con una possente muscolatura e barba e chioma folte; ha le labbra socchiuse e gli occhi spalancati. Sulla parte superiore del cranio indossa una sottile fascia che raccoglie i capelli; sulla spalla sinistra è inoltre visibile il lembo dell'himation che, scendendo sulla schiena, gli copriva le gambe. Le parti mancanti erano probabilmente realizzate in metallo o in un marmo di diverso colore.
Il busto di Giove è affiancato dalle due protomi di Minerva e Giunone provenienti da Cuma, che danno l'idea di come si sarebbe presentato l'ipotetico gruppo della Triade Capitolina Cumana.


Campania - Napoli, MAN / Tazza Farnese

 

La Tazza Farnese è un piatto da libagione (phiale) di epoca ellenistica e di scuola alessandrina, fabbricato in agata sardonica e del diametro di 20 cm circa, probabilmente non usato per i banchetti ma per libagioni rituali, attualmente conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli. Si tratta di uno dei più controversi capolavori dell'arte antica, sulla cui datazione (generalmente indicata come II o I secolo a.C.) e committenza esistono differenti posizioni da parte degli studiosi. Si tratta inoltre di uno dei pochissimi oggetti dell'antichità che si stimano passati di mano in mano fino ai giorni nostri, senza essere mai finiti sottoterra e conseguentemente recuperati archeologicamente.
Della sua storia nell'antichità si sa poco: potrebbe essere appartenuta a Cleopatra e portata a Roma a seguito della conquista dell'Egitto da parte di Ottaviano nel 31 a.C. Passata poi a Bisanzio, venne probabilmente riportata in Italia dopo la presa della città del 1204.
Si hanno notizie sulla sua esistenza dal 1239, quando ne è documentato l'acquisto da parte di Federico II. Un disegno realizzato a Samarcanda o Herat nel 1430 circa raffigura la Tazza Farnese, attribuito all'artista Muhammad al-Khayyam e conservato nei cosiddetti Diez Album della Staatsbibliothek di Berlino. Il disegno rappresenta con notevole precisione la scena allegorica incisa all'interno della tazza, con una somiglianza tale da suggerire che l'artista abbia avuto accesso diretto al manufatto o a una sua riproduzione estremamente accurata. La presenza della Tazza Farnese in Asia Centrale durante il periodo timuride solleva interrogativi sulla sua provenienza e sui percorsi che l'hanno condotta in quella regione. Alcuni studiosi ipotizzano che il manufatto sia stato considerato una delle "aja'ib" (meraviglie) scambiate tra i principi dell'epoca, apprezzato più per il suo valore artistico e materiale che per il significato iconografico, spesso non compreso appieno nelle culture islamiche del tempo. Potrebbe anche trattarsi di un manufatto gemello a quello in Italia.
In ogni modo l'opera ricomparve a Napoli negli anni 1450 nella collezione di Alfonso V d'Aragona, dove la descrisse Agnolo Poliziano, dopodiché passò nelle mani dell'arcivescovo Ludovico Trevisan e poi del papa, Paolo II Barbo, che la tenne nelle sue raccolte in palazzo San Marco (oggi noto come palazzo Venezia, a Roma), poi messe sul mercato e disperse dopo la sua morte nel 1471 dal suo successore Sisto IV. Quando da Lorenzo il Magnifico venne personalmente a Roma per l'incoronazione del nuovo pontefice, egli trattò la cessione di alcuni pezzi pregiati in cambio dello storno di alcuni debiti del papato verso il Banco Medici, tra cui appunto la tazza, due teste marmoree raffiguranti Augusto e Agrippa e altri oggetti preziosi, tra cui monete e gemme antiche.
Le gemme medicee, compresa la "tazza", furono poi dono di nozze di Alessandro de' Medici a Margherita d'Austria, dono che essa tenne sempre con sé anche dopo la morte del coniuge, sia quando di rimaritò a Ottavio Farnese, sia quando fu governatrice dei Paesi Bassi spagnoli. Alla sua morte confluì comunque nei beni dei suoi figli, e il passaggio alla famiglia Farnese determinò quindi il nome con cui la tazza è conosciuta attualmente, e le sue sorti seguirono quelli delle collezioni familiari, tra Roma, Parma e infine a Napoli.
La tazza era giunta fondamentalmente integra ai giorni nostri, se si esclude una sbeccatura e un foro su retro fatto al tempo dei Medici per aggiungervi un piede. Tuttavia nel 1925 un custode del museo, Salvatore Guaita, per protesta contro la direzione del museo che a suo giudizio l'aveva ingiustamente sanzionato, la frantumò deliberatamente, facendola cadere col manico di un ombrello. Venne accuratamente restaurata, ma i segni delle fratture, incancellabili, sono tuttora visibili.
Durante la seconda durante la seconda guerra mondiale, il soprintendente Amedeo Maiuri, per nasconderla alle razzie dei nazisti, la murò in un'intercapedine all'interno del museo, assieme al Vaso Blu di Pompei.
La superficie interna della tazza raffigura un'immagine con sette figure: una Sfinge, su cui siede una figura femminile che reca in mano delle spighe; una grande figura maschile con barba, su un albero, che regge una cornucopia; un giovane che impugna un aratro e che reca a tracolla un sacco di sementi; due figure femminili sedute, una delle quali regge una phiále; due figure maschili in volo nei pressi del bordo superiore.


La superficie esterna invece è interamente decorata da un grande gorgoneion; il naso della Gorgone reca un piccolo foro, la cui esistenza è documentata già nel catalogo della collezione Farnese, probabilmente utilizzato per infilarvi un sostegno per esporre il manufatto.
Le immagini rappresentate nella Tazza Farnese, soprattutto quella interna, hanno dato adito a diverse interpretazioni, tutte comunque legate all'Egitto, grazie al preciso riferimento rappresentato dalla presenza della Sfinge. La prima interpretazione allegorica delle figure presenti all'interno della tazza risale ad una pubblicazione di Ennio Quirino Visconti del 1790, ripresa dal Furtwängler nel 1900:[9] si tratterebbe di una allegoria dei benefici ottenuti dalle piene del Nilo, rappresentato dall'uomo barbuto seduto a sinistra, con la cornucopia. Alla sua destra Horus-Trittolemo si appoggia ad un aratro. Sotto di lui Iside è seduta sulla Sfinge, mentre all'estrema destra le due figure femminili rappresentano le stagioni dell'inondazione e della mietitura con i rispettivi attributi. Presso il bordo superiore le due figure volanti sarebbero le personificazioni dei venti Etesii che provocano le inondazioni. Le figure allegoriche sono state identificate variamente come figure storiche alle quali è stata collegata la committenza dell'opera, quindi il periodo di produzione. Jean Charbonneaux ha collegato la tazza al tempo del regno di Cleopatra I riconoscendo nella figura maschile centrale Tolomeo VI Filometore, nella figura femminile sulla Sfinge Cleopatra I (rappresentata in maniera molto simile in un ritratto conservato al Museo del Louvre), e nella stessa Sfinge la figura di Tolomeo V Epifane defunto. Bastet ha collegato la tazza al tempo di Cleopatra III identificando Horus con Tolomeo Alessandro.[
Altre interpretazioni tuttavia si sono susseguite nel corso del tempo e la stessa datazione della tazza viene variamente posta; la difficoltà consiste nell'assenza di punti di riferimento esterni. Tentativi di datazione su base stilistica sono stati effettuati tramite comparazione con opere di datazione ugualmente controversa. La datazione del Bastet, ad esempio, si è basata sul collegamento stilistico con opere tardo ellenistiche come il fregio dell'Hekateion di Lagina.

Campania - Napoli, MAN / Hydria Vivenzio

 


L'Hydria Vivenzio è un'hydria a figure rosse attribuita al Pittore di Kleophrades, ritrovata all'interno di un dolium a Nola e custodita al Museo archeologico nazionale di Napoli, in Campania. Vi sono raffigurati gli episodi successivi all'ingresso degli Achei a Troia, nel corso dell'omonima guerra.
Il vaso è stato rinvenuto nel 1797 nella città campana di Nola dal commerciante di antichità Pietro Vivenzio, durante delle ricerche in una necropoli romana di tufo e pietra, nel nord della città. Era situato all'interno di un dolium, un grande contenitore di terracotta, tappato da un mattone. Il vaso conteneva le ossa e le ceneri del defunto. Assieme al vaso vennero rinvenuti anche un gioiello con raffigurata un'aquila, dei balsamari di alabastro e una lancia di ferro.
Dopo il ritrovamento l'hydria venne immediatamente esposta nella collezione dei Vivenzio, all'interno del palazzo della famiglia, a Nola.
Nel 1817 l'intera collezione, formata da 211 oggetti, fu acquistata dal Museo archeologico nazionale di Napoli, allora Real Museo Borbonico, per trentamila ducati: l'hydra ne fu valutata diecimila, un terzo del valore di tutta la collezione. Il vaso fu esposto nell'ottava sala della "Galleria de’ vasi", sopra un piedistallo, al pari di uno stamnos del Pittore del dinos.


Sulla spalla si sviluppano cinque scene del poema epico andato perduto Iliou persis, realizzate con la tecnica della pittura a figure rosse su sfondo nero. I personaggi sono tutti sullo stesso piano e le scene si susseguono senza interruzioni. A sinistra, Enea trasporta il padre Anchise fuori città, mentre a destra, Cassandra, nuda, cerca rifugio dietro ad un simulacro raffigurante Atena Promachos, mentre tende la mano verso Aiace d'Oileo. Dalla parte opposta è raffigurato Neottolemo che uccide Priamo, che, con Astianatte morto sulle ginocchia, è seduto su un altare sporco di sangue, dal coperchio decorato con cimase. Accanto ad esso un acheo viene attaccato da una donna troiana e ancora più a destra è raffigurato il salvataggio di Etra da parte dei nipoti Demofonte e Acamante.

Campania - Napoli, MAN / Lakṣmī pompeiana

 

La Lakṣmī pompeiana è una statuetta in avorio scoperta tra le rovine di Pompei, distrutta dall'eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. Venne ritrovata da Amedeo Maiuri, archeologo italiano, nel 1938. La statuetta è stata datata al I secolo d.C. Si pensa che la statuetta rappresenti una dea indiana della bellezza femminile e della fertilità. È possibile che la scultura costituisse originariamente il manico di uno specchio. La Lakshmi pompeiana è la prova del commercio tra Roma e l'India nel I secolo d.C.
In origine, si pensava che la statuetta rappresentasse la dea Lakṣmī, una dea della fertilità, della bellezza e della ricchezza, venerata dai primi induisti, buddisti e giainisti. Tuttavia, l'iconografia, in particolare i genitali esposti, rivela che è più probabile che la statua raffiguri una yaksi, uno spirito femminile degli alberi che rappresenta la fertilità, o forse una versione sincretica di Venere-Śrī-Lakṣmī da un antico scambio tra la cultura Classica Greco-Romana e le culture indiane.
La figura è ora nel Gabinetto Segreto del Museo archeologico nazionale di Napoli.
La statuetta fu scoperta nell'ottobre del 1938 accanto alla Casa dei Quattro stili a Pompei.
Alta 25 cm, la statuetta è quasi nuda a parte la cintura stretta e i gioielli sontuosi, nonché presenta un'elaborata acconciatura. Ha due ancelle, una rivolta verso l'esterno per ciascun lato, con in mano contenitori per cosmetici. La statuetta ha un foro praticato sulla sommità della testa. La teoria più accreditata è che la statuetta abbia costituito il manico di uno specchio.
L'esistenza di questa statuetta a Pompei nel 79 d.C., quando il Vesuvio eruttò e seppellì la città, testimonia l'intensità delle relazioni commerciali indo-romane durante il I secolo d.C. Questa statuetta è stata datata dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli come realizzata in India nella prima metà di quel secolo.
Nonostante gli studi condotti a livello storico e le analisi dei ritrovamenti archeologici, le origini della Lakṣmī pompeiana sono controverse. Ci sono prove delle rotte commerciali allora attive tra l'Impero romano sotto l'imperatore Nerone e l'India durante questo periodo di tempo. Secondo Pollard, con il commercio romano a lunga distanza, si crede che si sia trovata in città durante il regno di Augusto. La prova archeologica suggerisce che l'apice del commercio tra i romani e l'India sembra essere stato il primo e il secondo secolo d.C. Questa tratta commerciale si sviluppava su diverse rotte, sia via terra come documentato da Le stazioni della Partia di Isidoro di Carace e per mare come mostrano i documenti dei mercanti contenuti nel Periplus Maris Erythraei.
Esiste la possibilità che la statuetta si sia fatta strada verso ovest durante il dominio del Satrapo occidentale Nahapana nell'area di Bhokardan e sia stata spedita dal porto di Barigaza.
Roma ha giocato un ruolo importante negli scambi orientali nell'antichità: ha importato molti beni dall'India e allo stesso tempo ha stabilito le proprie stazioni commerciali nel paese. Secondo Cobb, i romani per commerciare utilizzavano rotte terrestri come l'attraversamento della penisola arabica e della Mesopotamia e attraverso il commercio marittimo dal Mar Rosso e dall'Oceano Indiano.
Le rotte marittime che utilizzavano i venti dell'Oceano Indiano permisero di importare un volume significativo di merci dall'Oriente sulle navi. Il controllo sull'Egitto ha svolto un ruolo importante poiché il potere si è spostato dai greci ai romani dopo la battaglia di Azio e questo cambiamento si è riflesso nei rapporti commerciali tra l'impero greco-romano e gli antichi regni indiani.
La ricchezza del commercio era abbastanza significativa da permettere a Plinio di affermare che 100 milioni di sesterzi venivano inviati ogni anno in India, Cina e Arabia. Con le spedizioni di nardo, avorio e tessuti è chiaro dalle prove archeologiche che il commercio romano con l'Oriente raggiunse l'apice nel primo e nel secondo secolo d.C.
Inizialmente si presumeva che la statuetta fosse stata realizzata a Mathura, ma secondo Dhavalikar, ora si pensa che il suo luogo di produzione fosse Bhokardan poiché lì sono state scoperte due statuette simili. Bhodarkan faceva parte del territorio e della sfera culturale sātavāhana, anche se potrebbe essere stato detenuto per alcuni decenni dai satrapi occidentali, che potrebbero essere stati quelli che hanno fornito una tratta di esportazione al mondo romano.
C'è anche un'iscrizione in kharoṣṭhī alla base della statuetta di Pompei (la lettera śi, come śi in Śiva). Ciò suggerisce che potrebbe aver avuto origine dalle regioni nordoccidentali dell'India, del Pakistan o dell'Afghanistan, o almeno aver attraversato queste aree. Poiché la statuetta di Pompei è stata necessariamente realizzata prima del 79 d.C., se fosse stata effettivamente prodotta a Gandhara, suggerirebbe che anche gli avori di Begram risalgono effettivamente a questa data.
La statuetta è rappresentata a tutto tondo, e al centro tra altre due figure femminili. Le gambe sono girate di lato e un braccio piegato per tenere gli orecchini. Si presume che la si debba guardare solo da davanti poiché i dettagli posteriori sono molto piatti. Come affermato da D'Ancona, l'iconografia rientra nell'ampia categoria delle divinità femminili in India.
In un caso di omeostasi interculturale, il tema della dea scortata da due preposti, come può essere osservato nel caso della Lakṣmī pompeiana, è un'inconsueta raffigurazione di Lakṣmī o Yashis nell'arte indiana. Manca il fiore di loto che si trova nell'iconografia classica di Lakṣmī. Secondo D'Ancona, l'iconografia rappresentata in questa statuetta potrebbe essere stata importata dal mondo classico, forse derivata dall'iconografia di Venere assistita da dei putti, ben noti nell'arte greco-romana, reggenti contenitori di cosmetici. Potrebbe essere una delle numerose rappresentazioni di Venere-Śrī-Lakṣmī apparse nel I secolo d.C., afferma D'Ancona. La Lakṣmī pompeiana sarebbe quindi un misto di arte indiana e classica.
Un primo rilievo dal Sanchi Stupa con una scena ampiamente simile raffigurante Lakṣmī con due preposti bambini potrebbe aver servito da ispirazione iniziale per la Lakṣmī pompeiana, specialmente sapendo che i Sātavāhana erano sotto il controllo del Sanchi dal 50 a.C. in poi. Si ritiene che questi primi rilievi del Sanchi Stupa no.2 siano stati realizzati da artigiani del nord-ovest, precisamente dalla regione indo-greca del Gandhāra, in quanto i rilievi portano con sé delle maschere di muratori in kharoṣṭhī. Gli artigiani erano probabilmente responsabili per i motivi filo-stranieri e le figure che possono essere trovate sullo stupa.