Il
tempio di Zeus Olimpio,
o Olympeion, era un tempio greco dell'antica città
di Akragas, sito nel parco archeologico della Valle dei
Templi di Agrigento. Venne eretto dopo la vittoria di
Himera sui Cartaginesi del 480-479 a.C.
quando Akragas era governata da Terone.
Il complesso dell'Olympeion, che
s'incentra sul colossale edificio sacro, è descritto in termini
entusiastici da Diodoro Siculo (XIII 81, 1-4) ed è
ricordato da Polibio (IX 27, 9).
Il tempio
crollò totalmente durante un terremoto avvenuto il 19
dicembre 1401.
Parti dell'edificio in età moderna
vennero usati (ancora nel secolo XVIII) come cava di pietra per la
realizzazione dei moli dell'attracco di Porto Empedocle.
Nel 1787 Goethe visitando
le rovine del tempio lasciò questa descrizione ne Il viaggio in
Italia:
«
La sosta successiva fu dedicata alle
rovine del Tempio di Giove. Esse si stendono per un lungo tratto,
simili agli ossami d'un gigantesco scheletro [...] In questo cumulo
di macerie ogni forma artistica è stata cancellata, salvo un
colossale triglifo e un frammento di semicolonna d'ugual
proporzione.»
(Johann Wolfgang von Goethe, Viaggio
in Italia)
Nel 1928 fu
effettuata una campagna di scavi che riportò alla luce diversi
reperti, tra cui i resti di quattro telamoni, di cui uno
ricostruito interamente.
Oggi il tempio è ridotto ad un campo
di rovine dalle distruzioni iniziate già nell'antichità e
proseguite fino ad epoca moderna. L'aspetto complessivo del tempio è
nelle grandi linee noto, ma sussistono ancora molte controversie su
particolari importanti della ricostruzione dell'alzato, cui è
dedicata un'intera sala del Museo Nazionale.

Il tempio misurava m 112,70 x 56,30
allo stilobate. Su di un poderoso basamento, sormontato da
un krepidoma di cinque gradini, si collocava il recinto,
con sette semicolonne doriche sui lati corti e quattordici sui lati
lunghi, collegate fra loro da un muro continuo e alle quali,
all'interno, facevano riscontro altrettanti pilastri. Negli
intercolunni di questa pseudo-peristasi o nella cella si suppone
fossero appesi dei telamoni alti ben 7,65 metri, che
sicuramente non avevano alcuna funzione portante, date le esili
proporzioni delle gambe serrate e dei i piedi uniti rispetto al
massiccio busto e alle possenti braccia ripiegate dietro la testa.
Dubbi sussistono sulla presenza di finestre, intervallate fra i
telamoni e le semicolonne, che si pensa dessero luce all'interno
della pesudo-peristasi, tra questa e la cella, se il tempio (che
nella parte della cella era certamente ipetrale, ossia scoperto) si
presentava invece coperto almeno nello spazio degli pteròmata.
La cella era costituita da un muro
collegante una serie di dodici pilastri per ciascuno dei lati lunghi,
di cui quelli angolari delimitavano gli spazi del pronao e
dell'opistodomo, mentre l'ingresso della pseudo-peristasi alla cella
stessa era assicurato mediante porte, di numero e di localizzazione
incerta, aperte nel muro continuo della pseudo-peristasi. La
gigantesca costruzione era interamente realizzata a piccoli blocchi,
comprese le colonne, i capitelli, i telamoni e gli
architravi, ciò che lascia molte incertezze sull'effettivo sviluppo
dell'alzato: per citare alcuni dati certi, oltre alla già ricordata
altezza dei telamoni (m 7,65), la trabeazione era alta m 7,48 e il
diametro delle colonne era di m 4,30, con scanalature nelle quali –
come afferma Diodoro – poteva entrare comodamente un
uomo, mentre le colonne dovevano sviluppare un'altezza calcolata tra
i 14,50 e i 19,20 m; la superficie copriva un'area di 6340 m2.

La descrizione di Diodoro parla di
scene della gigantomachia ad est e della guerra di Troia ad
ovest. Si è discusso se egli parli di decorazione frontonale o di
semplici metope (a Selinunte – ricordiamo – solo le
metope del pronao e dell'opistodomo sono decorate), ma la scoperta
recente di un attacco tra un torso di guerriero ed una bellissima
testa elmata di pieno stile severo (al Museo Nazionale), conferma che
il tempio aveva una decorazione marmorea a tutto tondo più
compatibile con cavi frontonali che con spazi metopali, di cui si è
sempre, in età classica ed ellenistica, avvertita l'originaria
funzione di spazio da chiudere, eventualmente dipinto (e la
decorazione a rilievo è appunto sostitutiva di quella dipinta).
L'Olympeion, afferma Diodoro, rimase
incompiuto per la conquista cartaginese: sempre secondo Diodoro, esso
era privo di tetto per le continue distruzioni subite dalla
città. Di esso restano visibili l'angolo sud-est, due tratti
settentrionali della pseudo-peristasi, i piloni del pronao,
dell'opistodomo e metà circa del lato nord della cella. Intorno ai
resti del basamento si conservano, talora in posizione di caduta,
alcune parti dell'alzato, nonché la ricostruzione di un capitello e
di un telamone (in calco; l'originale al Museo). Davanti alla fronte
orientale è visibile il basamento a pilastri dell'altare, non meno
colossale del tempio (54,50 x 17,50 m). Presso l'angolo sud-est del
tempio si conserva un piccolo edificio (12,45 x 5,90 m) a due navate
con profondo pronao, doppia porta d'accesso ed altare (?) antistante,
un sacello piuttosto che un thesauros, di cronologia
controversa, secondo alcuni d'età ellenistica, ma molto
probabilmente arcaico, viste le numerose terrecotte architettoniche
di VI secolo a.C., rinvenute nella zona durante gli scavi
di Ettore Gabrici del 1925.

A sud-ovest di questo sacello, lungo la
linea delle mura, sono i resti di una stoà del IV secolo
a.C., con una vasca intonacata all'estremità orientale e cisterne
sulla fronte e alle spalle, da dove proviene materiale votivo d'età
timoleontea, mentre resti di un precedente edificio (cui sembrano da
riferirsi le cisterne) sono visibili attorno alla cisterna più
vicina alle mura.